18. Al paragrafo 17 evidenzio il nodo della disciplina di vita: se la vita vera, autentica, è ciò che vogliamo realizzare, allora entriamo in un ambito in cui le forze, le disposizioni, il carattere, gli attaccamenti, i bisogni vanno gestiti e disciplinati.
Per ogni livello di esistenza esistono forze e disposizioni necessarie: a chi vive nel mondo e del mondo servono le forze e le disposizioni adeguate per quel compito e quel piano; chi vive la contemplazione come mezzo e fine della sua esistenza deve sviluppare forze adeguate, disposizioni coerenti con quanto la contemplazione chiede e implica.
In fondo l’evoluzione interiore non è altro che essere pronti, adatti, strutturati per affrontare livelli d’esistere sempre differenti e ogni livello ha le sue necessità e implicazioni: chi esce dal saṃsāra lo può fare perché ha sviluppato le forze e le disposizioni necessarie ed è dunque pronto per l’esistenza su un piano altro e differente, che ha altre leggi, altre logiche.
Chi vive nel mondo e per il mondo è a esso “legato” dalla limitazione delle forze e disposizioni che possiede, vive quello perché quello può. Il realizzato accede al piano akasico perché per quello ha le strutture interiori adeguate, le comprensioni necessarie, le libertà da sé indispensabili. [10.1.25]
17. Contemplare è uno sguardo sul reale, uno “sguardo” non dei sensi dei corpi transitori ma del sentire: un condurre la consapevolezza sul piano del sentire e lasciare che essa si impregni di quello fino a saturarsi.
Non c’è contemplazione quando la consapevolezza è invasa dal transitorio, quando l’individuo è come una trattola sospinta dalle eccitazioni.
La contemplazione implica una disciplina di vita, una disciplina molto severa quanto non imposta né autoimposta ma che sorge naturale dall’intimo. Per sentire acquisito, si è inclini alla contemplazione, al lasciare le sollecitazioni e gli attaccamenti, i bisogni fasulli, le mille necessità di sentirsi attori di qualcosa: non c’è sforzo, è un arrendersi alla propria natura autentica, un essere quella.
Da questa obbedienza sorge il plasmarsi di una vita contemplativa fatta di silenzi, di ascolti, di gesti coraggiosi quando necessari: ogni immagine stereotipata del contemplativo non è vera, non ci sono moduli comportamentali che lo riassumono e lo simbolizzano, tutto accade nel suo intimo e nessuno può dire cosa accada in esso. [10.1.25]
16. Lo studio contemplativo è una pratica fondata sulla risonanza unitaria del sentire: un termine, un concetto [che ci impattano] che per loro natura risiedono nel corpo mentale e nel relativo piano d’esistenza, attivano e sono una vibrazione che risuona di tutto il sentire acquisito ma anche in tutto il sentire esistente, aldilà dell’acquisito. Una campana che risuona nel cosmo del sentire.
Quel risuonare permea così in profondità ogni corpo e ogni piano da trasformarne ogni vibrazione e materia. [7.1.25]
15. Il contemplativo, quando è immerso nella dimensione dell’Essere, vive in sé la pena di due mondi che fanno una certa difficoltà a integrarsi, il mondo del divenire e quello dell’Essere che frequenta con assiduità. Mi si osserverà che la vera contemplazione è quella che unitariamente lega Essere e divenire, ma su questo vorrei distinguere: la contemplazione, quando è assidua nel tempo, plasma una disposizione generale di tutta la consapevolezza e l’attenzione e la dedizione vengono a focalizzarsi sui piani vibratoriamente più sottili al punto che la frequentazione ordinaria – propria del divenire – di quelli più grossolani risulta difficile e, se protratta, insopportabile perché insopportabile risulta ogni traccia di identificazione con quei mondi vibrazionali.
L’insieme dell’essere, dei corpi permanenti e transitori, è unitariamente percepito ma il focus medio è sul sentire, non sui corpi del divenire: quel focus sensibilizza in sommo grado sulle vibrazioni sottili e rende difficilmente gestibili quelle proprie del pensare, del provare e dell’agire intese in senso ordinario e condizionate normalmente dall’identificazione: queste tre dimensioni, pur presenti alla lucida consapevolezza, tendono a essere utilizzate per assolvere a una funzione altra e perdono la caratteristica di corpi dell’identità divenendo pienamente corpi del sentire, come è nella loro natura.
Il pensare, il provare e l’agire sono frequentati in modo molto intenso ed efficace, tale da farli divenire strumenti splendenti del sentire: sono sentiti come interni al sentire stesso e le loro qualità e peculiarità vibratorie sono trasmutate: questi corpi divengono sentire che accade, la loro natura cambia e acquisisce lo splendore che il sentire conferisce loro. [6.1.25]
14. Coinvolto nell’atmosfera vibratoria dei corpi inferiori, l’umano non riesce a comprendere la vita nel sentire; apprezza gli spiragli su questa che gli si aprono, ma non sa coltivarli perché il richiamo del transitorio ancora lo coinvolge. [6.1.25]
13. L’osservazione e l’ascolto sono la via d’accesso alla contemplazione, allo stesso modo di come sono il suo frutto. Ma bisogna intendersi sul significato di osservazione e ascolto: in entrambi i casi non si tratta tanto, innanzitutto, di essere ricettivi verso i dati esterni al nostro sistema, ma rispetto ai dati interni, interiori. Possiamo osservare il flusso dei dati, ascoltare ciò che sorge dai corpi come dal sentire e sentire tutto questo in modo unitario: la contemplazione è questo sentire in modo unitario.
Chiaramente, nulla ci impedisce di osservare e ascoltare con lo stesso criterio i dati esterni al nostro sistema, anche in questo caso la consapevolezza sarà appoggiato sul sentire unitario e i fatti esterni scorreranno come su di uno schermo.
La contemplazione dei dati interiori prepara la contemplazione dei dati esteriori e, alla fine, esiste una sola contemplazione che sente in modo unitario senza distinzione particolare tra interiore ed esteriore.
Tutta la realtà viene sentita/contemplata, tutti i fatti scorrono come è nella natura del divenire, solo il sentire non ha tempo, come è nella natura dell’Essere. [4.1.25]
12. L’attimo qualunque sia, è sempre perfetto. Perché?
Perché è sentire e al sentire non manca mai niente, è oltre il conflitto che caratterizza il divenire.
Lo scorrere è sempre mancante ed è nella morsa della mente/identità che desidera, frammenta, contrappone.
La contemplazione pone in risalto il sentire, è sentire, qualunque sia la sua ampiezza: nell’esperienza contemplativa c’è sempre pace perché è quella la natura del sentire. [4.1.25]
11. “Il sentire basta a se stesso, non ha bisogno del mio credere”. Non posso trasformare ciò che sento in ciò che credo, non voglio credere voglio che esista solo il sentire: se credo, se aggiungo questo moto, aggiungo me su qualcosa in cui non c’entro niente, su qualcosa che non mi vuole, per cui non sono necessario. (Da Busshō9.16) [3.1.25]
10. Essendo metodico ho modo di vedere come si strutturano delle consuetudini, dei ritmi, e cosa accade all’interno di essi. Ogni giorno lavoro al PC su Busshō a iniziare dal primo pomeriggio, ma prima di giungere al lavoro vero e proprio mi rendo conto che c’è una fase, più o meno breve, apparentemente dispersiva: il controllo della posta, di un certo sito, di qualche dettaglio. Apparentemente sto perdendo tempo ma non è così: sto girando in tondo prima di precipitare nell’argomento, è una dinamica data dalla necessità di sviluppare la corretta disposizione vibrazionale in tutti i corpi.
Accade anche durante gli incontri mensili della comunità e gli intensivi: ogni sessione è preceduta da momenti di immensa fragilità, momenti in cui l’essere nel suo insieme si toglie la pelle e si espone completamente al sentire.
Nel tempo questi momenti sono stati anche difficili, questo quando i partecipanti non riuscivano ad adottare il comportamento necessario a sostenere questa delicatissima fase. [3.1.25]
9. La pratica contemplativa ha i suoi prezzi e questi vengono pagati dai corpi transitori: la vibrazione troppo alta e potente o, detto in altro modo, il suo fluire senza ostacolo nei corpi, non è indenne da conseguenze per i corpi stessi così intensamente irradiati. Ieri, dopo aver scritto in un commento a Busshō 9.14 i contenuti che seguono, ho dovuto abbandonare il lavoro e andare a camminare perché non una sola risorsa restava da utilizzare. [3.1.25]
- Personalmente sento che non c’è alcun “se stesso”. Mai, nemmeno nel divenire più basico.
- Sento che quel “se stesso” è solo auto-definizione, auto-limitazione.
- Sento che le definizioni di soggettività, individuo, Individualità non sono reali, sono un modo per poter contenere l’incontenibile, dare una forma a ciò che forma non ha.
- Sento che tutto ciò che l’umano declina è irrimediabilmente fasullo, non vero, non reale.
- Sento che esiste, che È, una unica Realtà e che il nostro sentirla e non riuscire a contenerla nella sua infinita vastità attiva i meccanismi di separazione e di sequenzialità che caratterizzano il nostro limite di comprensione, e sento che così facendo siamo destinati alla parzialità.
- Sento anche che questa via (separazione/sequenzialità) ci conduce addosso a un muro sul quale si schianta la nostra indagine.
- Sento che la via è la resa totale, la fine di ogni investigazione, il solo precipitare nell’abisso lasciando scomparire ogni spinta, ogni fuoco, ogni procedere, ogni precipitare stesso.
- Sento, infine, che finché avremo dei corpi transitori la resa totale non può avvenire e permane questo senso di sospensione, questo essere tra i mondi come un’interfaccia che ha due approdi, due connessioni: una è la vita/divenire e l’altra la vita/Essere.
- Stiamo qui, sospesi, sentiamo l’unità di divenire/Essere che si sintetizza in noi e la rendiamo forma nei modi e nei mondi del possibile a noi.
8. Ogni comprensione genera una vibrazione che viene decodificata come intima gioia nei corpi transitori.
Quella gioia non è la gioia di qualcuno ma una condizione di unità che tanto più impatta quanto più è vasta e si approssima alla condizione unitaria ultima. [3.1.25]
7. Una parola, un gesto sono allo stesso tempo contemplati e frutto della contemplazione.
Sorgono dal sentire e, pervadendo i corpi, li impregnano di esso.
La contemplazione è il sentire che sente se stesso in ogni corpo e in ogni gesto. [2.1.25]
6. Non amo il termine fede eppure con esso mi confronto ogni ora del giorno. Ogni volta che una preoccupazione mi assale e mi abbandono al disegno della vita, non mi abbandono a un Divino che guarda a me ma a un necessario per me che non accade sulla base della volontà di un ente supremo ma, semplicemente, in virtù delle sue leggi che regolano il Cosmo.
Guardo alle tante volte in cui mi sembra che qualcosa mi abbia protetto e mi dico quanto vera e quanto infantile sia questa pretesa.
La mia vita è indirizzata da un disegno? Credo di sì, ma non è il disegno di un ente su di me, è il disegno conseguente a una ecologia e resilienza che obbedisce a un ordine cosmico, quell’ordine nel quale il respiro mio, come quello di tutti, è armoniosamente inserito. [2.1.25]
5. La consapevolezza della compassione per tutti gli esseri è un processo non lineare: mentre nel sentire la compassione è una costante, nel divenire condizionato dal fluttuare delle dinamiche dei corpi transitori essa va e viene, come certi banchi di nebbia. Alla costante nel sentire si intersecano le dinamiche difensive o aggressive, le peculiarità caratteriali, le risposte all’ambiente, l’inevitabile non compreso. [2.1.25]
4. Contemplare è sentire il fatto che accade nell’attimo senza tempo. Dalla percezione esterna, basata sui dati dei sensi dei corpi transitori, si passa alla percezione interna fondata sulla consapevolezza del sentire. [2.1.25]
3. Ha uno scopo questo dedicare tanto tempo al lavoro su alcuni libri dello Shōbōgenzō di Dōgen?
Posso dire c’è una spinta che sorge dal desiderio di conoscenza, di approfondimento? Lo faccio perché ritengo possa essere utile a qualcuno? In verità, a tutte e tre le domande debbo rispondere di no: non c’è scopo, non ho desiderio di approfondire essendo interiorizzato l’insegnamento da molto tempo, non penso possa essere utile ad alcuno vista la complessità e la lunghezza dei post, anche se in merito a questo chi mai può dire cosa serve a chi?
Allora perché studio e scrivo? Per stare all’interno di una vibrazione e condizione d’Essere.
Finché ho insegnato attivamente, la forza vitale e creativa si travasava sugli interlocutori e il dialogare con loro era un modo per risiedere a lungo nello stato contemplativo ma, conclusa quella stagione, il sentire cerca una via nel divenire e la vita di un eremita non offre molte possibilità. Ecco che lo studio diviene un modo per risiedere a lungo nello stare contemplativo e nell’Essere che l’alimenta. [1.1.25]
2. Senti la Realtà come un abisso, una possibilità di sprofondare, di scomparire precipitando in una Vastità.
Ogni atto, ogni situazione del giorno ti si presenta come questa possibilità. Non c’è brama, è un vortice dotato di una sua forza, un gorgo che attrae e inghiotte aldilà di te, a prescindere da te. [1.1.25]
1. Da qualunque cosa sia attraversata la mente, avvertire la nota chiara di quello spazio unitario non invaso, non contaminato, non compromesso dal contingente di adesso, anzi, vederlo trarre forza e chiarezza proprio dallo scorrere di questo frangente del divenire. [1.1.25]
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