La sfiducia nella possibilità di cambiare la propria realtà

Dice Maria B. commentando il post I piccoli fatti e il nostro modo di viverliMi rendo conto di vivere una specie di saturazione del fare, con un senso quasi fisico di nausea. La mente s’infrange nei tanti, troppi compiti di cui è spesso artefice. Ciò che resta è solo un grande desiderio di abbandono e leggerezza. Eppure se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque? In altre parole se io sono esausta e non mi concedo al fare, devo sperare che qualcuno preparerà la cena?
Si Maria, “se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque?“, è per sfiducia.

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Il custodire sé, l’altro, la vita

Custodire: prendersi cura e proteggere sé, l’altro, la vita senza discriminazione perché la persona che usa quel verbo, se lo usa a ragion veduta, sa quante implicazioni ha e sa anche che non si può custodire sé e ferire l’altro, o la vita: se il custodire è divenuto natura del nostro essere, custodiremo in maniera unitaria senza distinzione tra dentro e fuori perché il custodire non conosce dualità.
Per addentrarmi nell’argomento userò la descrizione del processo intuitivo, o dell’imporsi della coscienza.
L’umano non è altro dalla coscienza che lo genera, ma sperimenta una condizione feriale del suo operare e una più intensa, più marcata.

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Patologicamente avvezzi alla disputa ideologica

La discussione sui vaccini, il bimbo morto per una otite e curato con l’omeopatia sono solo due degli ultimi casi in cui il carattere di un popolo purtroppo emerge nella sua incapacità di guardare i fatti con equilibrio, con il sufficiente distacco emotivo, con la capacità di valutare e ponderare le tesi e i fattori complessi in campo.
Tutto diventa elemento di un contendere, di una sfida, di una lotta tra il bene e il male, tra la ragione ultima e il torto ultimo.
Il nostro ambiente non è immune da questo e come nel pensiero convenzionale si usano ad arte i fatti per piegarli ai propri scopi, così nel nostro tende a risorgere l’ottica della vittima e del complotto.

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Amare non è una esperienza fondata sul sentimento

Vangelo di Tommaso. Gesù disse: «Ama il tuo fratello come la tua anima. Custodiscilo come la pupilla del tuo occhio».
Paralleli con i sinottici a fondo pagina.
Ama il tuo fratello come la tua anima: nel Sentiero non parliamo di anima ma di coscienza e consideriamo che essa sia la sorgente di tutto ciò che viviamo.
La coscienza crea noi e la realtà, i vari gradi di sentire che la compongono e contraddistinguono altro non sono che aspetti del sentire assoluto.
Dunque la coscienza, nella illusoria frammentazione dell’Uno, non è che aspetto di Esso.
Amare l’anima non è una pratica che coinvolga il sentimento: è comprendere la sua natura e con questa, la natura dell’Assoluto.
Amare non è provare qualcosa affettivamente: è abbracciare nella comprensione l’incomprensibile alla ragione.

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Non il duale, né il tempo impediscono la vita nel sentire

Ieri, in una lunga conversazione “camminata”, un fratello nel Sentiero mi raccontava di una sua esperienza nel sentire, sotto la guida del sentire.
Guida certa, inconfutabile e inconfondibile, dove la parola diviene la Parola e il gesto, il Gesto.
Sono stati transitori? Si, all’inizio.
L’ampliamento del sentire è un processo irreversibile e per quanto possa essere condizionato dal non compreso, quando una porta si è aperta in modo eclatante, non si richiuderà.
Questo è accaduto al nostro fratello e a diversi altri nel Sentiero: questa è anche la prova che non stiamo discutendo di filosofie, stiamo sperimentando la vita nelle sue molteplici possibilità che si dischiudono man mano che noi cambiamo nel compreso.

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La rivoluzione dell’ordinario

Torno ancora sul come  e non sul quanto o sul cosa per approfondire gli argomenti trattati nel post I piccoli fatti e il nostro modo di viverli.
Quali sono le componenti del come stiamo nei fatti?
1- La consapevolezza;
2- l’adesione senza identificazione;
3- l’accoglienza senza condizione.
Considero la consapevolezza come lo sguardo dell’insieme dei corpi sul reale: ciò di cui siamo consapevoli si specchia/riflette/impressiona in ciascuno dei nostri corpi e le immagini, i pensieri, gli stati scorrono nello specchio dei corpi così come negli specchi delle nostre camere scorre l’immagine nostra mentre proviamo un vestito.

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I piccoli fatti e il nostro modo di viverli

Dice un amico proponendo un argomento per l’intensivo di giugno: Sarà la vita frenetica, i ritmi assurdi del lavoro, lo stato usurato di alcuni corpi ma spesso quello che cerco è di riposare, recuperare energie, alleggerire. Tutti atteggiamenti che contrastano con quelli virtuosi di un buon ricercatore della via.
In fondo però vorrei poter dire: e chi se ne frega?
1- La fatica e la necessità di riposare e di disconnettere: sapere quando fermarsi.
È fondamentale: siete immersi in impegni e condizionati dagli orari e dallo stress che si accumula, se non sapete quando fermarvi vi immolate al fare e se al fare coatto aggiungete anche quello della via interiore, divenite un grumo di doveri.

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Accompagnare i figli nella conoscenza di sé

Commentando il post Rimanere, senza fine, in ascolto del sentire, Paolo chiede come possiamo aiutare i nostri figli nella conoscenza di sé.
Direi che possiamo senz’altro aiutarli attraverso:
– la testimonianza del nostro cammino esistenziale;
– i codici/simboli del nostro linguaggio;
– l’offerta del nostro paradigma.
Vivendo testimoniamo il compreso e il non compreso: i figli sono immersi nell’ambiente vibratorio che sta tra i due estremi della comprensione, essi respirano il compreso come i nostri conflitti, ciò che possiamo offrire loro è la nostra consapevolezza sui nostri processi, sul nostro procedere ed, ovviamente, anche sul loro.

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L’unificazione interiore, il superamento del confine con l’altro, l’essere in Dio

Al lettore. Chi scrive ha acquisito nella sua comprensione dei punti fermi relativi alla condizione unitaria d’essere e d’esistere: non si tratta più di scoprire, vivere e comunicare una condizione interiore, quello è accaduto da tempo ed è oramai subentrata la stagione della routine che ha lasciato alle spalle i fenomeni, le esperienze forti, gli stati contemplativi acuti.
Oggi si tratta di entrare nel dettaglio, nelle pieghe di un sentire diffuso, di una relazione unitaria feriale che non ripropone se stessa ma, nell’apparente similitudine degli stati, delle espereinze e dei concetti, scava in una direzione o in un’altra e, attraverso il dettaglio, la sfumatura, il piccolo particolare, crea un focalizzazione sempre nuova dell’esperienza interiore.

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Quanto può essere profonda la disponibilità a perdere?

Dice Marco commentando il post Appunti sulla trasmissione della comprensione spirituale: Ma cos’è che deve morire esattamente? L’ideale morale che ci è stato trasmesso e che non tiene conto del mio sentire attuale? Io non posso che partire da lì del resto e l’insegnamento del Cristo diventa vita solo se coniugato con ciò che sono adesso…
Si, certamente, l’ideale morale deve morire ma, con esso, molte altre cose.
L’imprinting di un’esperienza.
La memoria e l’umore del cammino.
L’appreso concettuale e filosofico.
Il limite del sentire.

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