collaborazione

Il terrorismo, la disgregazione, la via all’essenziale

C’è un dibattito ampio che coinvolge le persone con sensibilità religiose e laiche sulle scelte da fare, sui cambiamenti da operare per evitare che la mala pianta dell’intolleranza e della violenza si riproduca.
Le tesi sono molto articolate, dal mio punto di vista è particolarmente interessante quella che vede nei processi di disgregazione e di marginalizzazione sociale una delle origini.
Ma anche questa contiene un limite: le spaventose ingiustizie e l’iniquità intollerabile nella distribuzione della ricchezza servono a creare un clima di coltura ma, in sé, non posso scatenare ciò che non ha i presupposti per essere scatenato.
Se, esistenzialmente, a me non è necessaria l’esperienza della violenza, non la genererò. Se mi è necessaria, allora certamente l’ambiente nel quale sono inserito la favorisce e mi accompagna funzionale alla sua manifestazione.
Questa tesi, che sostengo, parte naturalmente da un presupposto: l’essere umano non è la conseguenza dell’ambiente nel quale cresce e si struttura ma, al contrario, è il fattore che quell’ambiente crea.
Una società prevaricatrice, iniqua, ingiusta fin nelle midolla non è generata da un manipolo di male intenzionati e di egoisti, è il frutto del sentire comune e ampiamente condiviso.
Il terrorismo, le esasperazioni spaventose del capitalismo (che pari per gravità e responsabilità sono) manifestano in modo eclatante un limite nel sentire individuale e collettivo: non sono l’origine, sono il frutto simbolico eclatante di un processo, di uno stato dell’interiore che riguarda tutti.
Qual’è la soluzione a mio parere?
Non continuare a dire sciocchezze sull’Islam; non limitarsi alla sola analisi sociologica dei fenomeni; non guardare al dito piuttosto che alla luna.
Qual’è la luna? Il deficit di sensibilità, di responsabilità, di altruismo che accomuna tanti di noi, la maggior parte di noi.
Cosa fare? Una cosa molto semplice: mettere al centro l’essenziale.
Cos’è essenziale? Il processo della conoscenza, il processo della consapevolezza, il processo della comprensione.
Questo essenziale non ha connotazione religiosa, né laica, precede semplicemente l’una e l’altra, è la cosa più naturale all’umano, è già quanto esso sta vivendo ma, siccome lo vive in modo inconsapevole, non sa governarlo e non sa eliminare da esso gli aspetti più dolorosi.
La conoscenza di sé e della vita è l’essenziale; la conoscenza delle relazioni e di ciò che esse portano, è l’essenziale; la consapevolezza dei processi mentre accadono, il vederli e il vedersi, è l’essenziale.
Dalla conoscenza e dalla consapevolezza coltivate come disposizioni centrali del proprio vivere, sorge la comprensione, il suo processo: ogni esperienza produce apprendimento e ciò che è appreso e compreso non verrà replicato tal quale, ma produrrà frutto nuovo, possibilità creativa nuova.
E’ così che si superano la violenza, l’intolleranza, l’egoismo sfrenato, la sopraffazione, la stupidità frutto dell’ignoranza di sé.
E’ un cambio di paradigma che questo tempo ci richiede: dalla centralità dell’egoismo e della persona/natura/merce, alla centralità del conoscere, dell’essere consapevoli, del comprendere attraverso la collaborazione, la condivisione, il rispetto.
Questa mi sembra la via per l’immediato e per il futuro, una via con un basso tasso di dolore.

Immagine da http://goo.gl/yfj4kF


Il principio di responsabilità nell’adulto-bambino

In questo articolo trovate l’epilogo della vicenda riguardante l’assenteismo di massa dei vigili urbani di Roma a capodanno.
Non voglio parlare delle manchevolezze nella coscienza dei membri di questo paese, sarebbe come infierire contro quel parente che ha un deficit mentale e pretendere che comprenda quel che non può.
Voglio invece considerare come un fatto che esistano adulti-bambini nella responsabilità: voglio considerare inoltre che questa può essere la caratteristica, purtroppo saliente, di una parte rilevante di un popolo.
Una coscienza che ha già sviluppato in sé le comprensioni necessarie al comportamento responsabile, non sceglie come teatro della propria rappresentazione questo paese, non per lavorarvi quel principio.
Ne consegue che, evidentemente, coloro che abitano qui, hanno bisogno di un tirocinio attorno all’esercizio della responsabilità: come avviene questo tirocinio?
Nel modo più doloroso: pagando il prezzo della propria irresponsabilità.
C’è un modo di procedere diverso, meno doloroso, più efficace?
Prendere atto che molti individui di un popolo hanno un problema serio con il principio di responsabilità e decidere che una sana pedagogia è quella che sa creare il giusto equilibrio tra educazione e sanzione.
Da tempo pensiamo solo a punire e, nei fatti, non puniamo nessuno; tra l’altro, se punisci qualcuno che non ha compreso quale sia il suo errore, quello rifarà esattamente ciò per cui l’hai punito.
Poco e niente abbiamo investito sul fronte dell’educazione: lo sviluppo di pedagogie e didattiche che in famiglia, a scuola, nella società in genere plasmino l’interiore, le comprensioni e i comportamenti.
Nel tempo, con gradualità, si dovrebbe cercare di convincere, di far crescere, di far emergere dall’intimo ciò che esiste in forma di embrione in ciascuno: è questa la funzione dell’educazione, funzione smarrita da tempo, soffocata dalla logica delle nozioni e delle quantità, a discapito della qualità della conoscenza, con la conoscenza e consapevolezza di sé al centro.


orientamento

L’orientamento sessuale, la coscienza, l’ignoranza

L’ignoranza citata nel titolo è riferita al pensiero e alla prassi di persone e organizzazioni come quelle citate in questo articolo; non è di loro che voglio occuparmi.
Da dove sorgono i vari orientamenti sessuali che le persone manifestano? Dalla conformazione della propria identità, da come essa si è strutturata nel tempo, dai condizionamenti o dalle frustrazioni che ha subito, dalle dinamiche relazionali con uno o l’altro dei genitori, dalle violenze eventualmente subite?
Non credo. Nella coscienza, nell’intimo del suo sviluppo si genera quella necessità evolutiva che poi si tradurrà in una vita, o in episodi di essa, sessualmente creativa.
Per poter comprendere questa dinamica della coscienza bisogna aver chiaro che essa genera una vita, un’esistenza, una identità perché ha la necessità di acquisire dati e comprensioni che solo attraverso la vita incarnata può realizzare e acquisire.
Una coscienza non è Dio, è un sentire limitato, relativo diremmo nel nostro linguaggio e conosce e comprende solo attraverso le esperienze.
Una coscienza non vive nel tempo, è oltre esso, ma nel tempo genera le sue rappresentazioni che noi, comunemente, chiamiamo identità, persone.
Una coscienza per strutturare il proprio sentire, per conoscere, divenire consapevole, comprendere sperimenta nel tempo, in quelle rappresentazioni che chiamiamo vite, il maschile, il femminile, il transgender e le molte relazioni tra questi orientamenti.
Una coscienza sperimenta molte sfumature della vita sessuale non perché l’identità che essa genera sia viziosa, ma perché attraverso quelle esperienze estrae i dati che le necessitano: anche quando i comportamenti della identità sono evidentemente eccessivi o distorti, essa trae da essi il necessario e nella relazione coscienza/identità, quando il conflitto e il disallineamento producono situazioni molto dolorose per l’identità, ancora la coscienza apprende e prova e ritenta di ottenere la conoscenza e la comprensione di ciò che le abbisogna.
L’orientamento sessuale è uno degli ambiti creativi dell’esperienza dell’umano, uno tra i tanti: potremmo osservare queste esperienze con gli occhi della coscienza che mai giudica e che non conosce morale, che non si pone il problema del legittimo, o del non legittimo e che è sospinta unicamente dal bisogno di imparare le molte coniugazioni del verbo amare.
Per concludere: credete che un bambino adottato da genitori dello stesso genere possa, alla luce delle considerazioni fatte, subire il condizionamento del loro orientamento sessuale?
O non ritenete invece che quel bambino vivrà semplicemente la vita che la sua coscienza gli traccerà, conducendolo là dove è importante che vada?
Quanto dolore ci risparmieremmo, e risparmieremmo al nostro prossimo, se potessimo illuminare le nostre menti con queste semplici visioni?

Immagine da http://goo.gl/jEMM3U


 

irrealta

Quando finisce la stagione dell’apparire e c’è solo la vita della coscienza

Che cos’è l’apparire? L’identificazione con la rappresentazione della propria vita, del proprio esserci.
E’ evidente che tutto ciò che consideriamo il nostro esserci, fare, provare, pensare, sentire non è altro che rappresentazione, puro ologramma che assume consistenza per due ragioni:
– perché la coscienza ha necessità di creare situazioni dalle quali estrarre dati di comprensione;
– perché la nostra identificazione con le scene le rende reali.
Pura consapevolezza della irreale consistenza del reale, eppure pura disponibilità a viverne i processi esistenziali che porta perché, se accade, se è stata generata la scena, significa che essa ha una sua necessità che va assecondata.
Risaltano con evidenza le scene che marcano dei sentire incompleti, approssimativi, che richiedono approfondimento.
Si sta sospesi tra l’inconsistenza del vivere e la sua ineluttabilità derivata dalla necessità di condurre a compimento ciò che ancora nel sentire è incompiuto.
E’ finito l’interesse per sé e l’identificazione con i propri vissuti, ma non è finito il vivere che perdura nella neutralità: accada ciò che è necessario, asseconderemo il processo.
Ciò che accade non è nostro, è ciò che accade e plasma un sentire che, anch’esso, non è nostro, è solo un sentire.
Tutti i processi accadono e non riguardano più un soggetto, non riguardano nessuno.

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Mancuso e Veronesi su Dio e il male: i limiti di un’analisi

Le fonti: l’ultimo libro di Umberto Veronesi “Il mestiere di uomo, Einaudi”; Vito Mancuso, Repubblica 18.11.2014.
Dice Veronesi: “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”.
Afferma chiudendo il suo articolo Mancuso: “La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio.”
Dal ragionare di Veronesi è evidente che la sua esperienza della fede è stata vissuta attraverso la ragione: adesione dunque ad un sistema di valori che è crollata non appena ha aperto gli occhi sulla natura complessa della realtà e si è impattata con la dimensione della distruttività, della malattia, del male inteso secondo il pensiero comune.
Veronesi vede i bambini invasi da cellule cancerogene e afferma: “Dov’è Dio?”. Non trovando una risposta nella mente propria e in quella degli altri, arriva alla conclusione che Dio non c’è perché se ci fosse non potrebbe ammettere un simile assurdo.
Nella sua vita di chirurgo e ricercatore oncologico ha sempre cercato l’origine del cancro nella dimensione biologica dell’individuo e in quella direzione ha speso le sue energie e la sua dedizione: non so se Veronesi ha mai posto in dubbio che il cancro non è solo fenomeno distruttivo che assale il corpo fisico umano, ma è processo che ha anche altra natura ed altra genesi; non lo so, non conosco il suo pensiero , prendo atto di ciò che afferma.
Prendo atto anche che sia Veronesi che Mancuso considerano il male una sciagura: Mancuso afferma che la sua origine va ricercata nelle forze del caos cosmico.
Entrambi sembrano essere convinti che se ci fosse giustizia, non ci sarebbe male.
Credo che possano affermare tutto quello che affermano con così tanta decisione, perché forse mai hanno provato a guardare al cammino umano da un’altro punto vista che superi le categorie filosofiche a cui entrambi aderiscono.
Il limite che trovo nelle loro analisi, nel loro indagare la realtà, è determinato dalla loro indiscussa adesione al modello duale: esiste il bene ed esiste il male; esiste la giustizia ed esiste l’ingiustizia.
Dentro questa morsa cercano le risposte, ma temo che faranno fatica a trovarle.
Non ho la pretesa di insegnare loro alcunché e quindi continuerò esponendo semplicemente il mio punto di vista conoscendone la provvisorietà e la relatività.
Ho avuto, nel corso della mia attività, la possibilità di accompagnare malati di tumore e genitori che avevano perso figli giovani.
Ho visto il dolore, il cammino attraverso esso. Ho visto la protesta, la rabbia nei confronti della vita e di Dio. Ho visto la difficoltà, la resistenza ad adottare un nuovo punto di vista sul vissuto. Infine ho visto il risorgere, o forse il sorgere per la prima volta, della fiducia, dell’esperienza dell’abbandono, l’affiorare di una trasformazione profonda e radicale nel pensare, nel sentire, nel vivere.
Ho visto radicali “conversioni” fiorire da quello che altri chiamano male e sono giunto alla conclusione che il cosiddetto male è un processo esistenziale che rivolta le vite di coloro che con esso si impattano.
Quell’essere rivoltati a volte conduce nel tunnel della rabbia, della frustrazione e del non senso e lì si ferma; altre volte passa attraverso quelle fasi e germoglia in una nuova vita, in uno sguardo esistenziale radicalmente altro. Da cosa dipende questa diversa conclusione del processo della malattia o del lutto? Dagli strumenti di analisi, di lettura, di interpretazione e dalle comprensioni acquisite dalla persona nel corso dell’attraversamento del processo.
Possiamo dire che la malattia è fenomeno biologico; possiamo affermare che Auschwitz è il frutto della distruttività umana e dell’assenza di Dio, ma così facendo non abbiamo spiegato niente, abbiamo solo osservato le manifestazioni e vi abbiamo posto sopra un’etichetta.
Cerchiamo l’origine del cancro nella sfera del biologico quando dovremmo cercarla in quella dei processi esistenziali; non solo nei conflitti relativi alla sfera psichica, ma in quella dei veri e propri processi di fondo dell’esistenza personale.
Cerchiamo una ragione ad Auschwitz nel pensiero, nell’emozione, nella intenzione umana, nella sua natura che a noi appare irrimediabilmente corrotta e non comprendiamo che quella malvagità origina dall’ignoranza di sé e della vita, dalla non comprensione, da una “cecità esistenziale” che è passaggio comune, ma non definitivo, di ogni essere umano.
Parliamo della vita e della morte con la stessa perizia con cui un cieco che tocca la gamba di un elefante parla di esso.
Concludendo, penso che non troveremo nessuna risposta fino a quando la nostra analisi della vita non imparerà ad includere la dimensione esistenziale, identificando in essa la sorgente della manifestazione cognitiva, emotiva, fisica.
Il nostro limite di analisi deriva dal paradigma che utilizziamo per interpretare noi, le nostre vite, l’accadere personale e collettivo: corpo-emozione-pensiero-eventuale-anima (che non si sa bene in che modo sia relativa alle altre componenti).
Prima o poi dovremo compiere un balzo e cominciare a considerare che non esiste lettura plausibile dell’esistenza se non si integra la componente coscienza, vale a dire la sorgente dei processi esistenziali, delle dinamiche cognitive, delle emozioni e delle sensazioni, delle azioni.
Siamo come pescatori che stanno sulla riva del lago, vogliono pescare, protestano perché non pescano niente senza interrogarsi sulla natura della loro esca.

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evoluti

I piccoli fatti ci svelano nella nostra presunzione di essere evoluti

Ci piace considerarci evoluti. Siamo persone della via spirituale, sappiamo andare oltre l’egoità: così ce la raccontiamo.
Poi arriva una parola, un gesto, uno sguardo, un piccolo fatto e in noi si leva un’increspatura, il mare calmo della nostra rappresentazione si turba, il fatto ci colpisce, una piccola ferita s’apre.
In un attimo s’evidenzia ciò che non volevamo vedere e veniamo richiamati alla realtà dei fatti: residui più o meno ampi di egoità dichiarano in modo inequivocabile la loro presenza.
Ombre di vittimismo si profilano, accuse all’altro si abbozzano: rosari dell’identità conosciuti.
Presunzione di essere evoluti; presunzione di sapere, di conoscere, di aver compreso: basta un piccolo fatto e il re è nudo.
I piccoli fatti sono sempre generati dall’altro e solo nella relazione si presentano a noi: ecco perchè alla persona della via spirituale non serve ritirarsi dal mondo, non c’è possibilità di fuggire dai piccoli fatti, dalle minute relazioni, dalle stilettate nel ventre dell’egoità.
Non c’è possibilità di fuggire da sé.

Immagine da: http://is.gd/kY7bfn


 

matite

La formazione dei bambini alla consapevolezza, alla collaborazione, al rispetto, al silenzio

Inizia oggi il Laboratorio della creatività consapevole per bambini; inizia anche un cammino lungo di conoscenza, di collaborazione e di relazione tra le educatrici e i genitori dei bambini presenti.
Abbiamo lavorato con dedizione perché si giungesse a questo avvio: per noi è importante che i bambini possano entrare in contatto con un ambiente che funziona secondo logiche molto diverse da quelle che caratterizzano il mondo nel quale cresceranno:
– la conoscenza e la consapevolezza di sé;
– il rispetto dei bisogni dell’altro;
– il rispetto per ogni aspetto dell’ambiente nel quale sono inseriti;
– lo sviluppo della capacità di fare le cose assieme collaborando, condividendo;
– l’acquisizione di una sana relazione con il proprio corpo e le sensazioni che da questo sorgono;
– lo sviluppo di un pensare ordinato e di una sfera emozionale ampia, consapevole, conosciuta;
– l’acquisizione di una capacità di fare, di trasformare l’intuizione in pensiero e questo in azione;
– l’esperienza dell’equilibrio interiore, della discrezione, del silenzio, delle basi dell’atteggiamento meditativo e contemplativo.
Sappiamo che ciò che sperimenteranno qui, nel tempo, si iscriverà in modo indelebile nel loro interiore e, in virtù anche di quanto qui avranno sperimentato, potranno transitare nelle loro vite con maggiore consapevolezza, con un un minore tasso di dolore e, forse, potranno dare il loro contributo affinché il cammino di tutte le persone sia più armonioso, meno conflittuale, più attento alle esigenze comuni e dell’ambiente che le ospita.
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Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

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