Il processo del perdersi e del ritrovarsi ci è maestro

Approfitto di questo testo condiviso da Paolo per fare alcune considerazioni (in corsivo all’interno del testo della Caplan).
Sarebbe interessante sapere perché l’autrice usa il sostantivo malattie e l’aggettivo trasmissibili trattando un argomento di questa natura.

“Dieci malattie spiritualmente trasmissibili di Mariana Caplan
1. La spiritualità “fast-food”. La cultura moderna, che celebra la velocità e la gratificazione istantanea produce una spiritualità fast-food. Quest’ultima è il prodotto dell’illusione che la liberazione dal dolore possa essere facile e immediata. Tuttavia, una cosa è certa: la trasformazione spirituale non si può ottenere in un batter di occhi.

Tutta la vita dell’umano avviene nell’illusione: vivere è il processo di affrancamento dall’illusione e conduce alla scoperta dell’autentica natura dell’essere.
Siamo debitori all’illusione, tutti i giorni, in ogni situazione essa ci conduce a comprendere l’irrealtà del nostro punto di vista e della nostra pretesa di essere identità, soggetti, protagonisti.
Senza l’illusione, le situazioni nelle quali ci conduce, le cadute e i ragli che provoca, cosa potremmo imparare?

2. La finta spiritualità. La finta spiritualità consiste nella tendenza a parlare, vestirsi e comportarsi come immaginiamo farebbe una persona spirituale. E’spiritualità imitativa che mima esteriormente la realizzazione.

Non mina niente. Sono solo i primi e maldestri tentativi e approcci con altri e diversi punti di vista e stili di vita.

3. Motivazioni confuse. Benché il nostro desiderio di evolverci sia puro e genuino, spesso è contaminato da motivazioni secondarie come il desiderio di essere amati, di appartenere a un gruppo, di riempire il nostro vuoto interiore, il desiderio di essere speciali, straordinari.

Tutti partiamo da qui e pian piano lasciamo andare queste motivazioni: la “via spirituale” è, per un lunghissimo tratto, niente altro che lasciarsi alle spalle le dinamiche egoiche. Quando in noi sorge la capacità di dimenticarci del nostro essere, dei nostri bisogni, la via è finita. 

4. Identificazione con esperienze spirituali. Avviene quando l’ego si identifica con la nostra esperienza spirituale e la considera come sua; cominciamo a credere di essere la personificazione vivente di certe intuizioni sorte in noi in determinati momenti. Tale malattia non dura all’infinito, benché tenda a prolungarsi maggiormente in coloro che si ritengono insegnanti spirituali.

Inevitabile. Quelle intuizioni attraversano i nostri veicoli, la nostra umanità e ci invitano alla coerenza con il loro portato. Dentro la dinamica identificativa impariamo tutto il superamento di essa.

5. L’ego spiritualizzato. Questa malattia si verifica quando la struttura stessa della personalità egoica si imbeve di idee e concetti spirituali. Quando l’ego si spiritualizza, siamo impermeabili a ogni cambiamento. Diventiamo esseri umani impenetrabili e la nostra crescita spirituale si blocca (in nome della spiritualità stessa).

Autentiche sciocchezze. Se ti occupi di spiritualità, l’ego di questa si nutre; se  sei un depresso, di questo l’ego si alimenta; se sei un imprenditore di successo, di quella funzione sociale l’ego si pavoneggia. Qualunque immagine l’ego crei di se stesso, questa sarà solo il riflesso dei tentativi che la coscienza sta compiendo per giungere a delle comprensioni.

6. Produzione di massa di insegnanti spirituali. Vi sono molte correnti spirituali alla moda che sfornano una dietro l’altra persone che si ritengono a un livello di illuminazione ben al di sopra di quello effettivo. Assorbi questa luce, fai queste pratiche, annusa questo incenso e – bam! – sei illuminato e pronto a illuminare gli altri. Il problema non è tanto che tali persone insegnino, quanto che si presentino come maestri spirituali.

Pure danze egoiche: sono stigmatizzabili perché avvengono in ambito spirituale? E cos’è l’ambito spirituale se non una invenzione dell’ego?
Le persone operano in relazione al sentire conseguito e ciascuno mette in atto la rappresentazione che gli è possibile: non di più, non di meno.

7. Orgoglio spirituale. L’orgoglio spirituale sorge quando il praticante, attraverso anni di sforzi intensi, ha effettivamente raggiunto un certo livello di saggezza, ma usa questo risultato per chiudere le porte a qualsiasi nuova esperienza.“Io sono migliore, più saggio e superiore agli altri, perché sono spirituale”.

Più che condivisibile. La chiave per comprendere il problema sta nell’espressione “attraverso anni di sforzi intensi”: siamo certi che sia necessario uno sforzo, che la saggezza derivi da uno sforzo? O non deriva invece dal semplice vivere? Di esperienza in esperienza il sentire si amplia, le comprensioni si strutturano, il punto di vista sulla realtà cambia radicalmente.

8. Mentalità di gruppo. Anche nota come malattia degli ashram, la mentalità di gruppo è un virus insidioso che contiene molti elementi tradizionali della co-dipendenza. Un gruppo spirituale decide in modo inconscio quali siano i modi giusti di pensare, parlare, vestirsi e comportarsi, e rifiuta le persone che non rispettano le regole del gruppo.

Pericolo reale.

9. Il complesso degli Eletti. Consiste nella convinzione che “il nostro gruppo è il più spiritualmente evoluto, potente e illuminato; in poche parole, è il migliore di tutti”. C’è una grande differenza tra il pensare di avere scoperto la via, l’insegnante o la comunità migliori per sé, e il pensare di aver scoperto“il meglio in assoluto”.

Pericolo reale.

10. Il virus mortale: “Sono arrivato”. Questa malattia è tanto potente da essere potenzialmente mortale per la nostra evoluzione spirituale. Consiste nella convinzione di “essere arrivati” alla fine del cammino spirituale, precludendo ogni possibile futura evoluzione.

Molto discutibile. E’ l’identità che dice: “Sono arrivato!”, ma può anche dire che gli asini volano, il processo di trasformazione comunque continua perché non è l’identità che lo guida; certo, può rallentarlo, può cristallizzarlo e la coscienza troverà maggiori difficoltà nel realizzare le esperienze che le necessitano, ma è una situazione transitoria, il cammino verrà ripreso magari passando per una situazione traumatica che rimetterà al centro la realtà.

Conclusione. Ciò che accade nella “via spirituale” è in niente diverso da ciò che accade nel mondo essendo la via un luogo, una lettura del mondo: c’è dunque poco da stupirsi.

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La compassione è la sfida più grande quando in noi il bisogno di giustizia è urgente

Questa discussione in Comunità del Sentiero mi induce ad alcune riflessioni.
In alcuni di noi il bisogno di giustizia, di pulizia, di rispetto bussa con urgenza e produce, non di rado, una frustrazione interiore, una ribellione, una protesta colorata spesso di rabbia.
Reazioni molto umane, comprensibili, condivisibili.
Inutili.
Parlano di noi e del nostro non compreso, del non avere ancora interiorizzato un principio di base: il mondo è quello che le coscienze dei suoi abitanti creano.
Quelle reazioni parlano della nostra lettura duale della realtà: ci sono i carnefici e ci sono le vittime.
Denunciano il cammino che ci separa dalla compassione.
Che cos’è l’esperienza della compassione?
L’aver compreso che nessuno è vittima;
l’aver chiaro che ciò che accade è specchio del sentire personale e collettivo;
il testimoniare una vicinanza al cammino delle persone e al loro faticare o gioire;
l’inchinarsi ai loro processi interiori (che si manifestano negli accadimenti esteriori);
l’essere fattori e agenti attivi di cambiamento per sé, per l’altro, per la società;
tutto questo insieme è la compassione.
La frustrazione e la rabbia quando maturano, quando non sono più la manifestazione della ribellione che sorge dalla non comprensione dell’essere della vita, germogliano in compassione, il lievito che tutte le cose cambia.
Dal moto egoico colorato di frustrazione e rabbia, passiamo alla presa d’atto di quel che è e alla testimonianza attiva di un vivere non condizionato.

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Un intensivo è il tempo e il luogo del perdere, non del guadagnare

Dal 6 all’8 giugno il prossimo intensivo del Sentiero contemplativo sul tema: “Nel mondo, ma non del mondo e l’esperienza della compassione“.
Che i partecipanti abbiano partecipato a dieci intensivi o a nessuno, la sfida di tutti è la stessa: disporre il proprio interiore ad un’esperienza fondata sulla sottrazione, sul lasciar andare, sull’accogliere, sul flettersi, sulla disponibilità a non ancorarsi a sé essendo disposti a lasciare il molo del proprio attracco.
La disposizione interiore deve essere simile a quando dalla città, o dal paese, imboccate una strada che rapidamente vi porta in campagna incontro alla prima vegetazione sparsa e poi, man mano, sempre più fitta fino a divenire un bosco d’alto fusto, con le piante distanziate tra loro, la penombra, il terreno piano che favorisce il passo rilassato, la voce degli uccelli in lontananza.
Potete fermarvi da qualche parte e semplicemente stare.
Tre giorni insieme saranno uno stare, un risiedere, un semplice fluire: dall’alzata del mattino alla sera il silenzio accompagnerà le nostre esperienze, la vicinanza degli altri sarà discreta, la consapevolezza pervadente e priva di sforzo.
Giorni senza essere protesi da nessuna parte; giorni di stare.
Ciascuno porterà sé: pesante o leggero che sia quel carico, diverrà semplicemente quel che è.
Non guadagnerete niente.


 

La natura della trascendenza, l’esperienza della disconnessione, l’equivoco della meditazione

Chi trascende che cosa?
Io trascendo il mio limite? Lo vedo, ne sono consapevole e poi? Appoggio la consapevolezza su altro? Mi focalizzo sul respiro, sulle sensazioni, su un contenuto concettuale, sapienziale, spirituale?
Prendo atto che il limite esiste: basta così?
Oppure osservo quel limite e cerco di imparare da quello che mi porta, che mi induce a fare, ad essere?
Se osservo ed imparo, inizia il cammino del capire che conduce all’essere consapevole e sfocia nel comprendere.
Se osservo e basta, che cosa inizia? Una disconnessione. Ma la disconnessione se non è legata all’analisi dell’insegnamento che quel limite porta, è semplice rimozione: vivo una vita di pratica della meditazione, della contemplazione – entrambe incernierate sulla disconnessione – e in me cambia poco, pochissimo.
Se la disconnessione non è associata in modo indissolubile alla via del “conosci te stesso” è pura rimozione.
Se la meditazione è solo pratica dell’adesso non germoglia in altro, se non in modo residuale.
Se la meditazione cammina assieme all’insegnamento che sorge dalla pratica del limite, fiorisce in contemplazione.
La contemplazione esiste solo nel ventre dell’immanente: nell’adesso illuminato dalla conoscenza, dalla consapevolezza, dalla comprensione fiorisce la scomparsa del soggetto che conosce, che è consapevole, che comprende.
Ha un senso la pratica della meditazione? Si, se è integrata nel complesso processo del conoscere, essere consapevoli, comprendere.
Si, se è integrata in un paradigma, in una lettura della realtà personale e sociale.
Ha senso relativo quando è consumata come esperienza tra esperienze, disgiunta dal processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione, praticata per rilassarsi, concentrarsi, divenire efficienti.
In altri termini, ha funzione relativa tutte le volte che viene utilizzata e vissuta in un’ottica mondana e utilitaristica.
Un esempio. Anni fa tenevo delle meditazioni guidate tutti i sabati; venivano diverse persone e tornavano a casa rilassate e centrate: mi sentivo un bancomat del benessere, ho smesso.
Non mi interessava, non mi interessa far star bene le persone, mi interessa dare il mio minuscolo contributo perché possano trasformare se stesse e le proprie vite e questo non necessariamente avviene “stando bene”.

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Il dolore non è diverso da colui che soffre dice J.Krishnamurti, ma è una tesi discutibile

Questo è il brano di Krishnamurti che Piero ci propone:
Quando c’è il dolore non c’è l’amore. Come può esserci amore nel momento in cui soffrite e siete tutti presi dalla vostra sofferenza? … Che cos’è il dolore? È per caso autocompassione? Vi prego di domandarvelo. Non stiamo dicendo che lo è o che non lo è … Che il dolore sia provocato dalla solitudine – dal sentirsi disperatamente soli e isolati? … Possiamo osservare il dolore come concretamente si presenta in noi e restare con esso, tenerlo con noi e non distogliercene? Il dolore non è diverso da colui che soffre. La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose. Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa. E con la fine del dolore c’è la passione; non il desiderio, non l’eccitazione dei sensi, ma la passione” (da Washington D.C. Talks 1985)

1 – Il dolore non è diverso da colui che soffre: è un’affermazione ad effetto ma anche molto opinabile.
Noi diremmo: è solo dolore, un fatto che viene prodotto in assenza di una comprensione, va considerato in qualità di simbolo che ci indica altro con cui non ci siamo sufficientemente confrontati.
2 – La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose: è così, cerchiamo di distogliere l’attenzione, di rimuovere la consapevolezza da quel soffrire impegnandoci in situazioni che ci permettano di non vederlo e non sentirlo. E’ il nostro modo di farci male, di complicare le cose, di ritardare i processi.
3 – Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa: è un’affermazione corretta ma anche molto discutibile.
Contemplare significa osservare senza identificazione. Tenerlo stretto, non sfuggirgli sembra alludere ad esservi identificati.
Leggendo l’intenzione con cui la frase è stata pronunciata, si può dire che Krishnamurti volesse affermare che il dolore va accolto.
Si, il dolore va accolto e, accogliendolo, scompare. Contemplandolo scompare. Quindi è fatta, è finita qui?
Se ci fermassimo qui avremmo solo trovato un modo più sofisticato di rimuovere: non distogliendo lo sguardo, ma trascendendo compiamo sempre un’azione di rimozione perché non guardiamo alla ragione per cui quel dolore è sorto.
Quando c’è dolore, c’è sempre una causa che lo ha generato: bisogna osservare in sé che cosa preme per essere compreso, che cosa ci sollecita, che cosa a più riprese ci ha messo in difficoltà. Se osserviamo la causa esistenziale del nostro soffrire, potremo cambiare l’approccio a determinate situazioni della nostra vita, potremo trasformarci: questo processo di revisione ci condurrà ad una comprensione e sarà in virtù di questa che il nostro soffrire cesserà.
Riepilogando:
– osserviamo il dolore senza rimuoverlo;
– lo accogliamo;
– ne analizziamo l’origine;
– cambiamo degli aspetti del nostro vivere;
– contempliamo il processo che abbiamo vissuto.

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Il discernimento tra identità e coscienza

Dice Piero: “Comprendendo il gioco della mente attraverso l’identificazione e non aderendo più a ciò che racconta, come si comprende il sentire “reale” dettato dalla Coscienza rispetto al dire fasullo della mente?”
Quando la coscienza attiva un’esperienza in un ambito in cui ha delle comprensioni già conseguite, il processo è lineare: l’identità ha un certo margine di scelta, può decidere se realizzare quella intenzione nel modo A o nel modo B ma comunque, entrambi i modi, condurranno al risultato che alla coscienza è chiaro.
In questo caso nell’identità/mente non ci sono dubbi particolari ed essa non genera conflitti e problemi di discernimento.
Quando la coscienza si muove invece in ambiti in cui non è sorretta da comprensioni acquisite, il suo procedere è per tentativi: di esperienza in esperienza estrae i dati che le servono fino a quando non ha compreso ciò che le è necessario.
In questo caso, non essendo chiara l’intenzione della coscienza, l’identità/mente riceve una spinta non univoca, non chiara e quindi al suo interno si possono generare conflitti, incertezze, resistenze, opposizioni, approssimazioni.
La situazione durerà fino a quando, attraverso le esperienze, la coscienza non avrà ottenuto i dati che le necessitano.
Quando una mente è preda delle illusioni, delle fantasie, delle proiezioni, dei bisogni fittizi alle spalle di essa c’è sempre una coscienza che sta vivendo un processo di acquisizione di dati, di strutturazione di una certa comprensione.
La mente non si aggroviglia  a caso, lo fa quando non è sorretta da un sentire definito.
Quando la coscienza ha compreso la mente è sufficientemente chiara: quando la mente è chiara indica una coscienza che procede sui binari del compreso.

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L’identità e la sua scomparsa

Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.

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Quando siamo persi a noi stessi

Molte zone delle Marche sono sott’acqua, molte persone hanno perduto molto, alcune la vita.
Ci sono responsabilità precise nel campo della programmazione urbanistica e ci sono responsabilità più generali, non imputabili ai soli cittadini marchigiani, quelle relative al cambiamento climatico.
Parlavo ieri mattina, dopo aver spalato per ore fango, con un terzista – un imprenditore che lavora in campagna per conto degli agricoltori – e convenivamo che nessuno è pronto a ciò che il cambiamento climatico comporta: non gli agricoltori, non gli amministratori, non i cittadini in genere: sembra che i nostri occhi non riescano a vedere l’evidente, a coglierne la portata e a indurci a reagire con prontezza e con la radicalità necessaria.
Osservo con molta attenzione i fatti del mondo, ieri le scene all’Olimpico di Roma, l’intervista a Di Battista del TG3 (di cui scrivo in questo post), i toni di una campagna elettorale irrealistica, pura propaganda di imbonitori di una massa impaurita.
Tutte le volte che l’umano è in preda alla paura e reagisce a questa con l’aggressività, produce mostri.
Quando siamo persi a noi stessi dovremmo evitare di accompagnarci ad altri altrettanto persi a sé stessi: dovremmo sederci e respirare; entrare in una libreria come quella della foto e sfogliare qualche libro che parli dell’essenziale; dovremmo non alimentare in noi ciò che ci oscura lo sguardo del sentire.
Dovremmo, ma a volte, guardando il mondo, mi coglie lo sconforto.

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Sull’origine del dolore

Discutevo ieri in un altro post sull’originale idea secondo cui la realtà, personale o collettiva, sarebbe spesso, a nostro giudizio, sbagliata.
Preciso che qui dolore e sofferenza sono sinonimi.
Individuerei l’origine del soffrire in due gangli:
– il non compreso nella coscienza;
– l’interpretazione della mente/identità.
Il non compreso nella coscienza genera determinate scene di apprendimento/verifica: là dove alla coscienza mancano dati ed informazioni, quello è soggetto ad indagine, a sperimentazione, a ripetuti tentativi di messa a fuoco.
Siccome durante i vari cicli incarnativi alla coscienza mancano sempre dati, perché se li avesse tutti – se fosse completa nelle sue comprensioni – non darebbe più luogo ad alcuna incarnazione, ecco che l’esistenza dell’umano conosce sempre e comunque qualche forma di sofferenza.
Un determinato sentire, di una data ampiezza, non genera solo scene congruenti, genera anche una immagine dell’attuatore di quelle scene: ovvero i tre corpi (mentale, astrale/emotivo e fisico) che realizzano la scena la interpretano anche.
Ad esempio, durante la giornata mi può accadere un determinato fatto ed io, lo scrivente, posso interpretarmi come vittima di qualcuno, o di qualcosa.
La vittima è colei che subisce un’ingiustizia e questa presunta condizione genera un ampio spettro di emozioni e pensieri conseguenti.
Da una non comprensione della coscienza deriva una certa scena la quale viene interpretata dall’identità in un certo modo: se la coscienza avesse un’altra comprensione di un dato fatto, genererebbe un’altra scena e questa sarebbe interpretata dalla mente in un altro modo.
C’è dunque l’ampiezza del sentire all’origine di tutto il processo.
La capacità di interpretazione propria dell’identità dipende dal modello interpretativo che questa adopera e questo, a sua volta, dipende dall’ampiezza del sentire: il classico serpente che si morde la coda.
Naturalmente la situazione non è bloccata, in qualunque punto del cerchio si intervenga la rotazione può essere cambiata:
– le esperienze della vita modificano il sentire;
– ciò che viene conosciuto, integrato come modello interpretativo, modifica la lettura/interpretazione dei fatti e quindi cambia sia l’insorgere della vittima, o d’altro, che il materiale psichico che solleva.
Conclusione: l’essere umano è uno e pienamente integrato, il conoscerne le dinamiche interne ci aiuterà a fluire con più leggerezza nella vita e con un minore tasso di dolore.
Nessuna vita è condannata alla sofferenza perché in ogni vita le esperienze modificano sia il sentire che l’interpretazione di esso.

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