La coppia 2: conoscersi

Fino a quando i due non condividono il quotidiano non inizia il processo del conoscersi.
La prima fase del rapporto è condizionata dalla fenomenologia dell’innamoramento dove il racconto della mente, delle emozioni e delle sensazioni condizionano in modo prevalente l’esperienza.
La condivisione del quotidiano scardina il racconto della mente e apre sulla possibilità di accedere ad elementi di realtà.
Noi ci sveliamo, l’altro si svela: cos’è lo svelamento?
L’apparire del limite, e della consapevolezza di esso, nelle sue mille declinazioni.
Che cosa mostra il limite? Il cammino esistenziale nostro e dell’altro, il non compreso su cui siamo impegnati, la sfida esistenziale che diventa pungolo quotidiano.
Il processo del conoscersi è il divenire lucidamente consapevoli di dove stiamo andando singolarmente e come coppia sul piano esistenziale:
– il limite personale mostra la direttrice della ricerca;
– il talento, gli aspetti del vivere che ci risultano facili mostrano il patrimonio di partenza, sottendono il già compreso, l’ambito in cui non dovremo faticare;
– le dinamiche del rapporto tra i due svelano non solo i compiti personali ma l’ecologia più generale della coppia: il rapporto ha un valore in sé e va protetto e custodito imparando a preservarne gli equilibri.
Conoscersi è innanzitutto imparare a rispettarsi.
Il limite dell’altro mi pesa, il giudizio mi oscura lo sguardo, l’insofferenza mi scuote, poi mi ricordo: “Come sono io agli occhi dell’altro?”
Questo si ripete cento volte al giorno, pian piano i due imparano a non levare le armi affilate del giudizio, a piegare la testa nelle situazioni, a tacere.
I primi passi del rispetto.
Conoscersi è infine aprirsi al mistero: in una vita vissuta assieme ciò che dell’altro avremo conosciuto sarà soltanto un piccolo aspetto della sua superficie: ciò che invece, attraverso l’altro, avremo conosciuto di noi sarà il dono più grande che avremmo potuto ricevere.

L’immagine è tratta da: http://marescomartini.blogspot.it/2013/04/passeggiate-coop.html


 

La coppia 1: Le ragioni di un incontro

Iniziamo la pubblicazione di una serie di post sulla vita di coppia.

Sospinti da che cosa i due si incontrano?
Certamente perchè si piacciono: che cosa significa? Che hanno caratteristiche estetiche, temperamentali, culturali compatibili. Sufficientemente compatibili.
L’elenco delle ragioni pratiche, fisiche, psicologiche per cui i due si incontrano potrebbe essere lungo ma a noi non interessa approfondire, la tesi che vogliamo sostenere è un’altra.
I due si incontrano perchè solo sperimentando assieme possono conoscere se stessi e vivere le trasformazioni necessarie al loro sentire.
Nessuno si incontra per fortuna o sfortuna, nessuno incontra la persona non adatta: ciascuno incontra la persona che in modo più efficace le sarà collaboratrice, pungolo, motivo di svelamento e di trasformazione profonda in quella stagione della propria vita.
Anche quando il rapporto che poi si svilupperà sarà faticoso e pieno di conflitti, da quella fatica potrà essere estratto il necessario per il proprio cammino esistenziale.
So che non pochi rapporti sono non solo faticosi ma anche violenti, ed immagino che chi legge, a partire da queste esperienze, muova un’obiezione alla tesi che sostengo. Sarà un tema che affronteremo più avanti e di certo sarà stimolato dagli interventi.
Due persone, sospinte dalla forza dell’innamoramento, o da una affinità esistenziale – ricordo che non tutti si mettono assieme perchè innamorati – decidono di aprire la loro personale ed intima officina.
I mobili che acquistano, la casa, gli abiti, le mutande con quelle particolari caratteristiche, le lampade, le tende alle finestre, i biscotti della colazione, i programmi tv da guardare assieme, l’odore delle lenzuola, le mille abitudini e i mille riti, gli scontri e gli avvicinamenti, il perdersi e il ritrovarsi sono i componenti di questa officina.
I vestiti del giorno e il loro pigiami sono le loro tute: quando i due operai aprono gli occhi al giorno che inizia, aprono anche la porta a vetri della loro officina esistenziale. Quando, a notte più o meno tarda, scivolano nel sonno chiudono anche la porta della loro officina.
La vita di coppia è sviluppo e conoscenza di molteplici processi esistenziali. Messa così può sembrare poco romantica, forse ci piace pensare che la vita assieme sia una formidabile avventura eccitante, gratificante, profondamente fusionale. E’ un sogno che contiene in sé un brusco risveglio.
(Prossimo post: conoscersi)

L’immagine è tratta da: http://goo.gl/qgXJqK


L’espressione di sé

Prendo spunto da questi versi postati ieri da un’amica in un commento:
C’erano cose che volevo dirgli.
Ma sapevo che gli avrebbero fatto male.
Così le seppellii e lasciai che facessero male a me. (J. S. Foer)
E’ opinione comune che il non detto od espresso lavori in modo distruttivo nel nostro intimo; da questa opinione deriva l’invito ad esprimersi, al non tenere dentro ed infine ad essere spontanei.
Come sempre ciò che è necessario, o consigliabile, per alcuni è dubitabile, o inutile per altri.
Nell’intimo di una persona sorgono molte spinte: istintuali, emotive, cognitive. Sorge anche l’esperienza del sentire ma questa non è una spinta.
Le spinte hanno un’urgenza e solo con il tempo e l’esperienza si impara a mediarle.
Come avviene la mediazione? Ciò che sorge nell’emozione o nel pensiero viene illuminato da un’analisi dei fatti, della realtà accaduta o in accadere.
Quest’analisi è farlocca nella maggior parte dei casi. Perchè? Per la semplice ragione che applica il modello interpretativo della vittima.
Se sono vittima di qualcosa o di qualcuno mi autorizzo a produrre quantità industriali di rabbia e frustrazione, ma se non sono vittima? Se la vittima non esiste ma c’è soltanto qualcuno che da una situazione può imparare qualcosa?
Un’emozione che sorge nell’intimo, un pensiero, un istinto quanto subiscono un diverso trattamento se non interviene la vittima?
Naturalmente non tutto ciò che nasce dall’intimo è all’insegna della vittima, esistono ad esempio bisogni che, almeno nel loro sorgere, non hanno a che fare con essa.
Il bisogno di essere riconosciuti è tra questi: quando nasce quella spinta l’altro non centra, interviene dopo perchè, ahimè, non ci riconosce.
Il bisogno di essere riconosciuti è un passaggio ineludibile nella definizione/percezione di sé: se siamo riconosciuti possiamo iniziare ad interpretarci come esistenti, come coloro che hanno una forma ed un confine.
E’ così in assoluto? No.
Sia nel caso della vittima che in quello del riconoscimento la persona si muove all’interno della dimensione egoica, identitaria e questo è solo uno dei livelli possibili di lettura di sé e delle relazioni.
Il livello successivo da cui poter osservare la spinta di un’emozione o di un pensiero è quello del sentire.
L’identità utilizza la spinta per dividere perchè solo dividendo può trarne una definizione di sé; il sentire non divide, vede, è consapevole dell’insieme del processo, ne coglie la portata unitaria.
Il sentire vede la spinta emozionale,
sa che da esso è generata,
ne coglie la ragione ed il fine,
può gestirne il flusso soltanto osservando ciò che sorge
e così illuminare di una comprensione nuova quell’area ancora non definita delle proprie comprensioni.
Se la consapevolezza della persona è focalizzata sull’identità le spinte non possono che essere espresse prima o poi; se la consapevolezza abbraccia il sentire oltre che l’ambito dell’identità, quelle spinte sono comprese nel loro nascere e possono, molto spesso, stemperarsi e svanire senza la necessità di essere agite.
Non sempre, naturalmente, perchè ci sono casi in cui ciò che al sentire non è chiaro ha bisogno di divenire realtà per poter fornire i dati di comprensione necessari. In altre parole, anche se la consapevolezza risiede nel sentire, a volte dobbiamo agire alcune spinte altrimenti non comprendiamo.
Così le seppellii e lasciai che facessero male a me. Questo non è dunque sempre l’epilogo.

La foto è di Mirco Belacchi


 

L’importanza dell’identificazione e della disidentificazione

C’è identificazione quando attribuiamo a noi stessi un pensiero, un’emozione, un’azione.
Se non ci fosse identificazioni non si attiverebbero i processi esistenziali: la vita è un’immensa officina proprio perchè la persona è capace di dire: “Questo è mio!”
I processi attivati permettono di confrontarsi con il proprio limite di comprensione e di superarlo.
Mano a mano che la comprensione si amplia, la persona sente in sé che quel continuo appropriarsi della realtà genera spesso dolore, frustrazione, mancanza di senso: spinta dal disagio interiore comincia a mettere in dubbio la legittimità dell’attribuirsi ciò che accade e, nel tentativo di scoprire un’altra possibilità di lettura del proprio esistere, inizia il lungo cammino della disidentificazione.
Disidentificarsi è lasciare che un pensiero, un’emozione, un’azione siano solo fatti che accadono, non i propri fatti, solo fatti.
La capacità di superare l’identificazione, e di aprirsi alla realtà come semplice accadere, è fondamentale se si vuole scendere nell’intimo del vivere.
Siamo in presenza di un vero paradosso: scopriamo la vita solo quando non l’attribuiamo più a noi stessi!
Fino a quando esiste il “nostro” pensiero, il “nostro” bisogno, il “nostro” punto di vista non vediamo altro che le pareti della nostra officina, di quello che non abbiamo compreso: quando quel “nostro” scompare allora affiora ciò che è sempre stato lì, la semplice realtà che non è né nostra né dell’altro, semplicemente è.
Se la persona non fosse passata per l’identificazione non sarebbe giunta a scoprire il reale: se non avesse sperimentato il reale non potrebbe comprendere l’importanza dell’illusione, unica chiave al “ciò che è”.

Immagine tratta da: http://goo.gl/dHEI6H


 

L’impatto delle parole, la fragilità e la sfida che ci attende

Ci sono persone che usano espressioni forti, dirette e si trovano a loro agio: per me non è così.
Per me la parola è una forza, la risultante di una pressione emotiva e di un portato concettuale: quando si impatta nel mio interiore genera effetti di varia natura, quando è dura è come il vento sulla sabbia, debbo chiudermi, proteggermi e aspettare che passi.
Credo che inevitabilmente tutti ci confrontiamo con parole e gesti, nostri o altrui, di forte impatto: non muovo una critica a questo, è un dato di realtà; sottolineo che lungo la via interiore ciò che ieri era considerato normale, oggi diviene da evitare; ciò che poteva essere fatto o detto in un’altra stagione, oggi è impraticabile.
La nostra ricettività verso ogni accadere cambia con il cambiare delle comprensioni e dell’ampliamento del sentire; questa è la ragione per cui, ad esempio, molte persone della via divengono vegetariane: come a loro risulta impraticabile cibarsi di un animale così ad altri, o in una stagione successiva, risulta difficile reggere il tono polemico, derisorio, aspro, irriverente, umiliante.
Ancora più a fondo: mentre un tempo potevamo girarci da un’altra parte quando vedevamo venire verso di noi un immigrato con la sua mercanzia, oggi lo andiamo ad incontrare.
Si osserverà che la persona di “ampio” sentire dovrebbe essere anche quella più stabile e meno vulnerabile al mondo: è una tesi discutibile, ad ampio sentire corrisponde ricettività altrettanto ampia, consapevolezza vivida delle implicazioni di ogni fatto e delle conseguenze che inevitabilmente genera.
Un sentire di quella natura coglie i processi, sa che essi appartengono ai protagonisti che li attuano e ne legge la portata formativa, sente in sé come fosse un sensore l’impatto dei fatti.
La persona della via non diviene un fungo, né un superuomo inattaccabile dai condizionamenti: diviene come una membrana sottile, fragile e vulnerabile esposta ai venti che può gestire perchè conosce e comprende la natura di quei fatti e il loro procedere.
Sono la conoscenza e la comprensione che ci permettono di non soccombere.

Immagine tratta da: http://goo.gl/naQKkF


Tornare incessantemente all’essenziale

Che cos’è l’essenziale? Ciò che ora la vita ci presenta privo di giudizio e di aspettativa.
Ciò che viene è riconosciuto come la nostra vita.
La mente sempre tenta di giudicarlo, di confrontarlo con altro e sempre lo lega al desiderio.
Vedere questo gioco, non alimentarlo, disidentificarsi.
Tornare al fatto, a ciò che accade.
Vedere le sensazioni, le emozioni e i pensieri che sorgono e lasciarli andare.
Quel fatto implica sempre un altro da noi, è portato da qualcuno: una persona, un animale, un evento meteorologico.
Ci accorgiamo di questo “altro”? O vediamo solo noi stessi, i nostri giudizi e ciò che ci aspettiamo?
Chi è, che vita ha, cosa sta simbolicamente narrando?
Questo altro ci svela perchè mostra la nostra distrazione, il nostro egocentrismo, la nostra diffidenza..
Torniamo incessantemente a ciò che la vita attimo dopo attimo ci presenta: in quel presente senza tempo comprendiamo chi siamo e veniamo trasformati; lì prende forma il senso del nostro esistere.

L’immagine è tratta da: http://goo.gl/dN9ClK

Solo nella relazione profonda c’è svelamento

Definiamo relazione profonda quel rapporto affettivo, lavorativo, spirituale che non avviene nell’ottica del “tu mi servi/io servo a te”ma dentro ad un consapevole respiro esistenziale.
Definiamo svelamento l’affiorare alla consapevolezza delle paure, inadeguatezze, vulnerabilità, presunzioni, automatismi che governano il nostro interiore e alle quali aderiamo dicendoci che quello noi siamo.
Se la relazione porta con sé lo svelamento, questo dove conduce?
-Al nascondersi a se stessi accusando l’altro: alla vittima.
-Alla crisi, alla precarietà interiore, alla colpevolizzazione.
-Alla crisi, al rimboccarsi le maniche: questo è lo stato dell’arte, con questo debbo fare i conti, inutile lamentarsi: il mio limite è la mia possibilità.
Quest’ultima disposizione è quella che incoraggiamo: grazie alla vita c’è sempre qualcuno che ci svela, che ci impedisce di nasconderci e questo avviene tutti i giorni, a tutte le ore.
Quel qualcuno, e ciò che ci aiuta a svelare, è la nostra benedizione perchè non ci dice: “Tu sei sbagliato!”, ci ricorda che possiamo cambiare: a partire da ciò che siamo possiamo lavorare consapevolmente perchè altro affiori.
Noi leggiamo lo svelamento come giudizio ma, nel film della nostra vita che, lo ricordo, è personale e soggettivo, l’unico giudizio operante è quello che ci diamo da noi.
Smettere di farsi del male diviene l’imperativo e questo è possibile solo se ricordiamo che:
-vivere è affrontare il non compreso;
-il limite è la manifestazione plastica di ciò che compreso non è.
Non è una colpa non avere compreso questo o quello: tutti i viventi stanno confrontandosi con del non-compreso, ciascuno con il suo.

L’immagine è tratta da: http://relazioni.uncome.it/articulo/come-sapere-se-la-mia-relazione-e-conflittuale-3509.html

Le due menti, un racconto per adulti e bambini, da “Piccolo albero”, Forrest Carter, Salani

Nonna disse anche che tutti quanti hanno due menti.
Una ha a che fare con le necessità della vita fisica, e di essa bisogna servirsi per capire come procurarsi un tetto, cibo e quant’altro occorre al corpo. Bisogna usarla per sposarsi e avere figli e cose simili. Di quella mente abbiamo bisogno per andare avanti. Ma ne abbiamo una seconda che non ha niente a che fare con cose del genere. Questa, disse la nonna è la mente dello spirito.
Della mente del corpo ci si serve per pensare in maniera avida e abietta: se per esempio approfitti sempre della gente e pensi di ricavarne benefici materiali, in tal caso devi contrarre la mente dello spirito tanto da ridurla alle dimensioni di una noce di hickory.

Quando il tuo corpo muore, mi spiegò la nonna, con lui muore la mente del corpo, e se per tutta la tua esistenza non hai fatto che pensare a quel modo ti ritrovi con uno spirito non più grande di una noce di hickory, perchè la mente dello spirito è quel che sopravvive quando tutto il resto muore.
E quando rinasci, com’è inevitabile, allora eccoti lì, nato con una mente dello spirito piccola come una noce di hickory, e in pratica non capisce niente di niente.
E capita che si riduca alle dimensioni di un pisello, e che magari scompare se la mente del corpo vivente ha il sopravvento: In tal caso il tuo spirito lo perdi del tutto.
E’ così che diventi una persona morta, e secondo la nonna era facile scoprire le persone morte. Le persone morte, mi spiegò, quando guardano una donna non vedono che porcherie; quando guardano altri individui non vedono che cattiveria; quando vedono un albero non vedono che legname e profitto; mai bellezza. Morti che camminano, disse la nonna.
La mente dello spirito è come un qualsiasi muscolo. Se te ne servi diventa più grande e più forte, e l’unica maniera per ottenere questo risultato è di servirsene per comprendere, ma è impossibile spalancarle la porta finchè non la smetti di essere avido e meschino con la tua mente del corpo. Allora la comprensione comincia a prendere piede, e più ti sforzi di comprendere più grande diventa.
Com’è ovvio, comprensione e amore sono tutt’uno; a parte il fatto che troppe volte la gente va indietro anzichè avanti, fingendo di amare cose che non capisce. Il che è impossibile.
Mi resi perfettamente conto che già mi sforzavo di capire in pratica chiunque, perchè non volevo certo ridurmi con uno spirito piccolo come una noce di hickory.

da: Piccolo albero, Forrest Carter, Salani