Mente, sofisticazione, disconnessione

Alessandro chiede di approfondire questa frase di Soggetto: “Ricordatelo, perché il punto centrale del nostro insegnamento diverrà molto simile a colui che dice: “Non c’è strada, non c’è mezzo, non c’è nulla, se non il silenzio della mia mente”, che non vuol dire semplicemente negare la propria mente, ma che significa sfidarla

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Nella crisi, cosa fare?

Dice Anna nel commento al post di Soggetto del 25.3. “Ottimo. ma quando non abbiamo il necessario per la sopravvivenza minima quotidiana?
Quando le necessità impellenti di mangiare, lavarsi, vestirsi se fa freddo non permettono dilazioni di tempo, che fare?”
Questa domanda mi inchioda e la risposta non è semplice.

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E’ la consapevolezza del raglio che ci trasforma!

Alessandro chiede un approfondimento in merito “all’officina vicina e a quella del grande uomo” (post del 22.3).
L’officina vicina sono i tuoi figli, i tuoi affetti, il tuo lavoro, la tua famiglia di origine, la tua comunità: l’ambiente di relazioni, affetti, pensieri che tu frequenti quotidianamente.

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Ciò che ci rende uguali

Vorrei approfondire la riflessione sulla normalità avviata dalla domanda di Elena a commento del post su Krishnamurti.
La nostra cultura, la mente, vedono la persona e il modello, l’archetipo esteriore, di appartenenza: così appare, così alla mente sembra che sia.

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Perché interpretare sé ed il proprio cammino esistenziale attenua il dolore?

Questa è la domanda di Alessandro nel commento al post di ieri.
Se io mi interpreto come vittima, uso cioè nella mia vita il modello interpretativo comune dove c’è il carnefice e la vittima, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, di fronte alle ingiustizie che mi sembra di subire reagirò con la protesta, la rabbia, il risentimento. 

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