Sull’origine del dolore

Discutevo ieri in un altro post sull’originale idea secondo cui la realtà, personale o collettiva, sarebbe spesso, a nostro giudizio, sbagliata.
Preciso che qui dolore e sofferenza sono sinonimi.
Individuerei l’origine del soffrire in due gangli:
– il non compreso nella coscienza;
– l’interpretazione della mente/identità.
Il non compreso nella coscienza genera determinate scene di apprendimento/verifica: là dove alla coscienza mancano dati ed informazioni, quello è soggetto ad indagine, a sperimentazione, a ripetuti tentativi di messa a fuoco.
Siccome durante i vari cicli incarnativi alla coscienza mancano sempre dati, perché se li avesse tutti – se fosse completa nelle sue comprensioni – non darebbe più luogo ad alcuna incarnazione, ecco che l’esistenza dell’umano conosce sempre e comunque qualche forma di sofferenza.
Un determinato sentire, di una data ampiezza, non genera solo scene congruenti, genera anche una immagine dell’attuatore di quelle scene: ovvero i tre corpi (mentale, astrale/emotivo e fisico) che realizzano la scena la interpretano anche.
Ad esempio, durante la giornata mi può accadere un determinato fatto ed io, lo scrivente, posso interpretarmi come vittima di qualcuno, o di qualcosa.
La vittima è colei che subisce un’ingiustizia e questa presunta condizione genera un ampio spettro di emozioni e pensieri conseguenti.
Da una non comprensione della coscienza deriva una certa scena la quale viene interpretata dall’identità in un certo modo: se la coscienza avesse un’altra comprensione di un dato fatto, genererebbe un’altra scena e questa sarebbe interpretata dalla mente in un altro modo.
C’è dunque l’ampiezza del sentire all’origine di tutto il processo.
La capacità di interpretazione propria dell’identità dipende dal modello interpretativo che questa adopera e questo, a sua volta, dipende dall’ampiezza del sentire: il classico serpente che si morde la coda.
Naturalmente la situazione non è bloccata, in qualunque punto del cerchio si intervenga la rotazione può essere cambiata:
– le esperienze della vita modificano il sentire;
– ciò che viene conosciuto, integrato come modello interpretativo, modifica la lettura/interpretazione dei fatti e quindi cambia sia l’insorgere della vittima, o d’altro, che il materiale psichico che solleva.
Conclusione: l’essere umano è uno e pienamente integrato, il conoscerne le dinamiche interne ci aiuterà a fluire con più leggerezza nella vita e con un minore tasso di dolore.
Nessuna vita è condannata alla sofferenza perché in ogni vita le esperienze modificano sia il sentire che l’interpretazione di esso.

Immagine di Gaia Lionello da http://goo.gl/mAS36f


 

Non è necessario lasciare tracce di sé

Ieri ho scritto questo post su un certo uso delle immagini e delle parole. Quella maniera sorge forse dalle qualità interiore della persona che redige quei materiali, forse dalla esigenza, propria del web, di usare linguaggi forti per impressionare il potenziale lettore e indurlo a leggerci.
Comunque stiano le cose pare che la necessità di fondo sia: “Esisto, dunque marco il territorio!”
Noi pensiamo che non sia necessario marcare il proprio territorio, che sia possibile transitare nella vita con passo molto leggero e non essere di ingombro a sé e al proprio prossimo.
E’ possibile vivere la pienezza della propria esistenza nella discrezione, nella riservatezza, nella leggerezza che sorge dall’aver compreso la propria irrilevanza.
Quando ci si può confinare consapevolmente, e senza frustrazione alcuna, in questa marginalità?
Quando si è compresa la propria irrilevanza dicevamo, ma va sottolineato che questa non sorge se si ritiene che il mondo sia un luogo pieno di ingiustizia: non sorge perché ci riterremmo autorizzati a lottare, o a protestare, contro quella che a noi appare l’oscenità del presente.
L’irrilevanza di sé nasce dunque dalla comprensione che tutto ciò che al mondo esiste è frutto del sentire individuale e collettivo: il sentire è il frutto delle comprensioni acquisite e queste derivano dalle esperienze vissute.
La nostra realtà personale e collettiva è generata da noi stessi, di conseguenza non esiste un nemico, né siamo vittime di alcuno.
A partire da queste acquisizioni possiamo alleggerire il nostro passo e transitare senza che nella polvere si vedano le nostre impronte.

Immagine di Marisa Gelardi, da: http://goo.gl/1pZhoC


 

La gestione del bisogno compulsivo di sperimentare

E’ una questione che riguarda poche persone problematiche? No, riguarda la gran parte di noi.
L’essere umano impara solo attraverso le esperienze, la coscienza amplia e struttura il proprio sentire solo se i suoi veicoli (mente, emozione, corpo) sperimentano nelle relazioni il compreso e il non compreso.
Dov’è allora il problema? Nell’assenza di ritmo, nell’eccesso, nel vuoto che si sperimenta quando l’esperienza non c’è.
Nella spinta compulsiva che ci porta a creare situazioni in cui si possano sperimentare sensazioni, emozioni, pensieri, trascendenze.
Come si può gestire questa spinta?
1- Comprendendone l’origine.
Cosa mi muove all’emozione, alla gratificazione intellettuale, all’esperienza spirituale eclatante?
Il bisogno di sentirmi d’esistere? Di sentirmi vivo e persona? Di percepirmi soggetto distinto da altri soggetti?
2- Creando degli spazi in cui osservare e ascoltare il bisogno, disconnettendolo.
Se sono consapevole del bisogno, posso gestirlo; se non riesco a vederlo mi può portare dove vuole.
Se lo vedo e ne conosco l’origine posso dire: “No, non adesso, questo è il tempo della pausa. Dopo.”
Come è evidente, il problema non è nell’avere dei bisogni, ma nel saperli gestire.
Concludo: l’essere umano impara attraverso le esperienze e queste sono generate dai bisogni: gestendo questi si impara non solo a non lasciarsi condizionare oltre il dovuto, ma anche ad entrare in un spazio altro in cui essi non sono più lo stimolo necessario per imparare.
A quel punto si inizia ad imparare non perché si ha bisogno, ma semplicemente perché è nella natura della vita imparare.

Immagine da: http://goo.gl/0j7Fn0


 

Aver cura di sé: il valore insostituibile del fermarsi

Quando si è impegnati in attività che coinvolgono il nostro prossimo a volte è difficile fermarsi, dire no, creare uno spazio o una pausa.
Le ragioni di questa difficoltà sono tante, non è possibile generalizzare e non è quello di cui voglio parlare qui.
Penso in particolare ai tanti che si occupano di attività sociali o politiche, o a coloro che sono impegnati nelle relazioni di aiuto.
Queste persone hanno, molto spesso, una forte spinta interiore, un impulso creativo che si dispiega nella loro attività sociale: ciò che nel loro interiore è stato compreso diviene forza plasmatrice nelle relazioni.
Spesso, se queste persone non hanno relazione, non riescono a veicolare quelle forze: solo nella relazione sentono di esistere, forse perché solo in presenza dell’altro sentono di avere una dimensione individuale, di esistere come individui.
Con questa disposizione interiore le possibilità di eccedere non mancano: la persona è sempre proiettata in avanti e, avendo difficoltà ad accorgersi di questo sbilanciamento, o non sapendo bene come gestirlo, non riesce a fermarsi.
In genere la qualità delle relazioni che crea patisce dell’eccesso di presenza e comunque, nel tempo, la persona è soggetta al logoramento.
Qualunque sia la ragione che spinge al fare, l’imperativo di fondo da cui non si può prescindere è che bisogna essere capaci di introdurre delle pause.
L’attività senza pause è come il giorno senza notte, l’inspiro senza espiro.
Essere capaci di fermarsi è essere capaci di ammettere che non si è indispensabili.
Perdonate, ma non si può agire socialmente o politicamente e pensare di essere indispensabili, o comportarsi come se lo si fosse: quella pretesa smaschera il canto della nostra egoità e condiziona tutto l’operare con il proprio limite.
Bisogna essere capaci di fermarsi, di creare delle pause e di osservare sé e la propria spinta a partire da quello spazio privo di moto.
Nel momento in cui la spinta interiore viene vista, osservata, analizzata e lasciata andare, lo slancio stesso che da essa è generato cambia, assume un altro respiro.
Non essere capaci di fermarsi significa finire, prima o poi, contro il muro, l’unico modo che ha la vita di indurci ad un altro sguardo e ad un altro atteggiamento.

Immagine da: http://goo.gl/Qc67PP


 

Intensivo di meditazione, contemplazione, silenzio, formazione 9-11 maggio 2014

Il tema dell’intensivo al Monastero camaldolese di Fonte Avellana:

Vivere è il cammino da ego ad amore

Venerdì pomeriggio: il limite dell’identità apre tutte le possibilità perché è attraverso il non compreso che la persona impara l’alfabeto della libertà
Sabato pomeriggio: ogni esperienza prepara la fine di tutte le esperienze, l’amore
Domenica mattina: l’amore non ha soggetto, né oggetto; l’identità scompare quando l’amore è presente

Sabato mattina:
Lectio Divina del Priore di Fonte Avellana, Gianni Giacomelli
“La lettura simbolica della bibbia”, analisi di alcuni brani coerenti con il tema dell’intensivo

Tre giorni nella pratica della meditazione, della contemplazione, del silenzio, del semplice stare.
Un clima di fraternità e di semplicità.

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