Scrive Michela commentando il post La sfiducia nella possibilità di cambiare la propria realtà: In questo momento della mia vita ho proprio bisogno di perdere il controllo e di smettere di volere controllare […]. Sono giunta al mio limite, lo sto vivendo e sono consapevole (?) che questa lotta può finire solo nella resa e nella fiducia […]. Non è facile e mi sembra di non riuscire a cambiare anche se so che devo e posso cambiare…perché? Allora non ho realmente compreso?
La fiducia matura con la comprensione. Di cosa?
Del fatto che non siamo noi il centro dell’universo.
Consapevolezza
Lo sguardo lucido e presente sul reale che accade attimo dopo attimo.
Sul recitare, sul fare, sullo stare e sulla propria irrilevanza
Scrive un fratello nel cammino: Il bisogno di recitare un ruolo si sta affievolendo giorno dopo giorno, non perché ora sia più sicuro o spavaldo rispetto a prima; avverto piuttosto una maggiore consapevolezza e sto imparando a non essere troppo identificato nei fatti che arrivano. Ora mi basta lavorare giorno dopo giorno sulle piccole cose, accettando di cadere quando sbaglio, per poi rialzarmi e provare a fare meglio di prima.
Recitare: stanchi della parte, della veste di attore, del ridurre l’altro a spettatore di dinamiche nostre infine proviamo a lasciar andare.
Ci arriviamo per stanchezza, per nausea, per disagio esistenziale non più sostenibile, per conflitto che avvertiamo debba essere affrontato.
Il confine tra sé e l’altro: fusione ed egoismo
Dice Natascia commentando il post Amare non è una esperienza fondata sul sentimento: Mi rendo conto che faccio fatica a comprendere fino in fondo qual’è il senso vero dell’amore ed è un tema su cui rifletto proprio in questi giorni. Per me si declina in compassione, accoglienza, mancanza di giudizio, ma è sempre così? E se questa mia modalità per alcune tipologie di persone può risultare non utile, se non addirittura dannosa? Non è nuovo questo tema per me, devo approfondirlo e capire perché la vita mi fa incontrare spesso con persone che mettono in crisi il mio modo di pormi in relazione.
La sfiducia nella possibilità di cambiare la propria realtà
Dice Maria B. commentando il post I piccoli fatti e il nostro modo di viverli: Mi rendo conto di vivere una specie di saturazione del fare, con un senso quasi fisico di nausea. La mente s’infrange nei tanti, troppi compiti di cui è spesso artefice. Ciò che resta è solo un grande desiderio di abbandono e leggerezza. Eppure se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque? In altre parole se io sono esausta e non mi concedo al fare, devo sperare che qualcuno preparerà la cena?
Si Maria, “se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque?“, è per sfiducia.
La rivoluzione dell’ordinario
Torno ancora sul come e non sul quanto o sul cosa per approfondire gli argomenti trattati nel post I piccoli fatti e il nostro modo di viverli.
Quali sono le componenti del come stiamo nei fatti?
1- La consapevolezza;
2- l’adesione senza identificazione;
3- l’accoglienza senza condizione.
Considero la consapevolezza come lo sguardo dell’insieme dei corpi sul reale: ciò di cui siamo consapevoli si specchia/riflette/impressiona in ciascuno dei nostri corpi e le immagini, i pensieri, gli stati scorrono nello specchio dei corpi così come negli specchi delle nostre camere scorre l’immagine nostra mentre proviamo un vestito.
I piccoli fatti e il nostro modo di viverli
Dice un amico proponendo un argomento per l’intensivo di giugno: Sarà la vita frenetica, i ritmi assurdi del lavoro, lo stato usurato di alcuni corpi ma spesso quello che cerco è di riposare, recuperare energie, alleggerire. Tutti atteggiamenti che contrastano con quelli virtuosi di un buon ricercatore della via.
In fondo però vorrei poter dire: e chi se ne frega?
1- La fatica e la necessità di riposare e di disconnettere: sapere quando fermarsi.
È fondamentale: siete immersi in impegni e condizionati dagli orari e dallo stress che si accumula, se non sapete quando fermarvi vi immolate al fare e se al fare coatto aggiungete anche quello della via interiore, divenite un grumo di doveri.
Accompagnare i figli nella conoscenza di sé
Commentando il post Rimanere, senza fine, in ascolto del sentire, Paolo chiede come possiamo aiutare i nostri figli nella conoscenza di sé.
Direi che possiamo senz’altro aiutarli attraverso:
– la testimonianza del nostro cammino esistenziale;
– i codici/simboli del nostro linguaggio;
– l’offerta del nostro paradigma.
Vivendo testimoniamo il compreso e il non compreso: i figli sono immersi nell’ambiente vibratorio che sta tra i due estremi della comprensione, essi respirano il compreso come i nostri conflitti, ciò che possiamo offrire loro è la nostra consapevolezza sui nostri processi, sul nostro procedere ed, ovviamente, anche sul loro.
La disconnessione e la disponibilità a perdere
Dice Nicoletta commentando il post La gratitudine per ogni fatto ed ogni situazione: Quando si capisce di perdere l’identificazione? Cosa si prova esattamente? Quali pensieri e sensazioni attraversano la persona quando è in atto questo processo?
Definiamo innanzitutto cos’è l’identificazione: l’auto-attribuzione di quanto accade. Quel fatto, quel pensiero, quell’emozione che stanno accadendo sono miei e sono sostanza del mio essere persona: senza di essi non sarei più io e questa vita non sarebbe più mia.
L’identificazione è figlia dell’identità e la genera senza sosta.
È evidente che in determinate stagioni della nostra esistenza l’identificazione sia necessaria: ogni sviluppo ulteriore è fondato sulla possibilità basica di dire io, di sentirsi esistente, differenziato dall’altro, capace di muoversi in autonomia.
La via interiore: gli occhi per vedere
Se non possediamo il senso della vista non abbiamo idea del mondo così come appare agli occhi fisici: certo, abbiamo altri sensi ben sviluppati, ma quando gli altri ci raccontano di certi colori, di certi orizzonti noi non abbiamo accesso a quella esperienza.
Se mai abbiamo avuto la possibilità di vedere, credo si sia costituita nel tempo una ecologia interiore tale da poter gestire il dolore per quella mancanza: ma se per un periodo della nostra vita abbiamo potuto vedere e poi non più, allora l’impatto è davvero brusco e il ristabilirsi di un equilibrio interiore non semplice.
Esiste lo sguardo esteriore, quello garantito dal senso della vista, ed esiste lo sguardo interiore quello permesso dal sentire acquisito e dal paradigma conseguente.