Sul recitare, sul fare, sullo stare e sulla propria irrilevanza

Scrive un fratello nel cammino: Il bisogno di recitare un ruolo si sta affievolendo giorno dopo giorno, non perché ora sia più sicuro o spavaldo rispetto a prima; avverto piuttosto una maggiore consapevolezza e sto imparando a non essere troppo identificato nei fatti che arrivano. Ora mi basta lavorare giorno dopo giorno sulle piccole cose, accettando di cadere quando sbaglio, per poi rialzarmi e provare a fare meglio di prima.
Recitare: stanchi della parte, della veste di attore, del ridurre l’altro a spettatore di dinamiche nostre infine proviamo a lasciar andare.
Ci arriviamo per stanchezza, per nausea, per disagio esistenziale non più sostenibile, per conflitto che avvertiamo debba essere affrontato.

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Il confine tra sé e l’altro: fusione ed egoismo

Dice Natascia commentando il post Amare non è una esperienza fondata sul sentimentoMi rendo conto che faccio fatica a comprendere fino in fondo qual’è il senso vero dell’amore ed è un tema su cui rifletto proprio in questi giorni. Per me si declina in compassione, accoglienza, mancanza di giudizio, ma è sempre così? E se questa mia modalità per alcune tipologie di persone può risultare non utile, se non addirittura dannosa? Non è nuovo questo tema per me, devo approfondirlo e capire perché la vita mi fa incontrare spesso con persone che mettono in crisi il mio modo di pormi in relazione.

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La sfiducia nella possibilità di cambiare la propria realtà

Dice Maria B. commentando il post I piccoli fatti e il nostro modo di viverliMi rendo conto di vivere una specie di saturazione del fare, con un senso quasi fisico di nausea. La mente s’infrange nei tanti, troppi compiti di cui è spesso artefice. Ciò che resta è solo un grande desiderio di abbandono e leggerezza. Eppure se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque? In altre parole se io sono esausta e non mi concedo al fare, devo sperare che qualcuno preparerà la cena?
Si Maria, “se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque?“, è per sfiducia.

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La rivoluzione dell’ordinario

Torno ancora sul come  e non sul quanto o sul cosa per approfondire gli argomenti trattati nel post I piccoli fatti e il nostro modo di viverli.
Quali sono le componenti del come stiamo nei fatti?
1- La consapevolezza;
2- l’adesione senza identificazione;
3- l’accoglienza senza condizione.
Considero la consapevolezza come lo sguardo dell’insieme dei corpi sul reale: ciò di cui siamo consapevoli si specchia/riflette/impressiona in ciascuno dei nostri corpi e le immagini, i pensieri, gli stati scorrono nello specchio dei corpi così come negli specchi delle nostre camere scorre l’immagine nostra mentre proviamo un vestito.

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I piccoli fatti e il nostro modo di viverli

Dice un amico proponendo un argomento per l’intensivo di giugno: Sarà la vita frenetica, i ritmi assurdi del lavoro, lo stato usurato di alcuni corpi ma spesso quello che cerco è di riposare, recuperare energie, alleggerire. Tutti atteggiamenti che contrastano con quelli virtuosi di un buon ricercatore della via.
In fondo però vorrei poter dire: e chi se ne frega?
1- La fatica e la necessità di riposare e di disconnettere: sapere quando fermarsi.
È fondamentale: siete immersi in impegni e condizionati dagli orari e dallo stress che si accumula, se non sapete quando fermarvi vi immolate al fare e se al fare coatto aggiungete anche quello della via interiore, divenite un grumo di doveri.

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Accompagnare i figli nella conoscenza di sé

Commentando il post Rimanere, senza fine, in ascolto del sentire, Paolo chiede come possiamo aiutare i nostri figli nella conoscenza di sé.
Direi che possiamo senz’altro aiutarli attraverso:
– la testimonianza del nostro cammino esistenziale;
– i codici/simboli del nostro linguaggio;
– l’offerta del nostro paradigma.
Vivendo testimoniamo il compreso e il non compreso: i figli sono immersi nell’ambiente vibratorio che sta tra i due estremi della comprensione, essi respirano il compreso come i nostri conflitti, ciò che possiamo offrire loro è la nostra consapevolezza sui nostri processi, sul nostro procedere ed, ovviamente, anche sul loro.

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La disconnessione e la disponibilità a perdere

Dice Nicoletta commentando il post La gratitudine per ogni fatto ed ogni situazione: Quando si capisce di perdere l’identificazione? Cosa si prova esattamente? Quali pensieri e sensazioni attraversano la persona quando è in atto questo processo?
Definiamo innanzitutto cos’è l’identificazione: l’auto-attribuzione di quanto accade. Quel fatto, quel pensiero, quell’emozione che stanno accadendo sono miei e sono sostanza del mio essere persona: senza di essi non sarei più io e questa vita non sarebbe più mia.
L’identificazione è figlia dell’identità e la genera senza sosta.
È evidente che in determinate stagioni della nostra esistenza l’identificazione sia necessaria: ogni sviluppo ulteriore è fondato sulla possibilità basica di dire io, di sentirsi esistente, differenziato dall’altro, capace di muoversi in autonomia.

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La via interiore: gli occhi per vedere

Se non possediamo il senso della vista non abbiamo idea del mondo così come appare agli occhi fisici: certo, abbiamo altri sensi ben sviluppati, ma quando gli altri ci raccontano di certi colori, di certi orizzonti noi non abbiamo accesso a quella esperienza. 
Se mai abbiamo avuto la possibilità di vedere, credo si sia costituita nel tempo una ecologia interiore tale da poter gestire il dolore per quella mancanza: ma se per un periodo della nostra vita abbiamo potuto vedere e poi non più, allora l’impatto è davvero brusco e il ristabilirsi di un equilibrio interiore non semplice.
Esiste lo sguardo esteriore, quello garantito dal senso della vista, ed esiste lo sguardo interiore quello permesso dal sentire acquisito e dal paradigma conseguente.

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Attraversare consapevoli il deserto interiore

Rispondo qui ad una amica e sorella nel cammino: sono temi di una discussione privata ma così universali che ciò che dirò a lei è bene che sia ascoltato anche da altri.

“Mi sono accorta di non riuscire ad immergermi nella lettura. I concetti che prima mi riempivano, condividevo e in cui mi ritrovavo, adesso restano in superficie, non scendono in profondità.”
Viene in momento in cui non si tratta più di indagare e studiare, ma di vivere, di dedicare le risorse interiori all’esperienza che, attimo dopo attimo, viene.
È come se la mente non recepisse più i contenuti, un logoramento glielo impedisce.
Inutile e controproducente insistere: la soluzione è assecondare, alleggerire la mente e semmai coinvolgerla in letture leggere, dedicarsi alle piccole incombenze quotidiane, coltivare lo stare senza appesantirlo dei suoi significati, delle interpretazioni possibili e dei simbolismi verosimili: stare e basta.

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