Commentando il post Rimanere, senza fine, in ascolto del sentire, Paolo chiede come possiamo aiutare i nostri figli nella conoscenza di sé.
Direi che possiamo senz’altro aiutarli attraverso:
– la testimonianza del nostro cammino esistenziale;
– i codici/simboli del nostro linguaggio;
– l’offerta del nostro paradigma.
Vivendo testimoniamo il compreso e il non compreso: i figli sono immersi nell’ambiente vibratorio che sta tra i due estremi della comprensione, essi respirano il compreso come i nostri conflitti, ciò che possiamo offrire loro è la nostra consapevolezza sui nostri processi, sul nostro procedere ed, ovviamente, anche sul loro.
Consapevolezza
Lo sguardo lucido e presente sul reale che accade attimo dopo attimo.
La disconnessione e la disponibilità a perdere
Dice Nicoletta commentando il post La gratitudine per ogni fatto ed ogni situazione: Quando si capisce di perdere l’identificazione? Cosa si prova esattamente? Quali pensieri e sensazioni attraversano la persona quando è in atto questo processo?
Definiamo innanzitutto cos’è l’identificazione: l’auto-attribuzione di quanto accade. Quel fatto, quel pensiero, quell’emozione che stanno accadendo sono miei e sono sostanza del mio essere persona: senza di essi non sarei più io e questa vita non sarebbe più mia.
L’identificazione è figlia dell’identità e la genera senza sosta.
È evidente che in determinate stagioni della nostra esistenza l’identificazione sia necessaria: ogni sviluppo ulteriore è fondato sulla possibilità basica di dire io, di sentirsi esistente, differenziato dall’altro, capace di muoversi in autonomia.
La via interiore: gli occhi per vedere
Se non possediamo il senso della vista non abbiamo idea del mondo così come appare agli occhi fisici: certo, abbiamo altri sensi ben sviluppati, ma quando gli altri ci raccontano di certi colori, di certi orizzonti noi non abbiamo accesso a quella esperienza.
Se mai abbiamo avuto la possibilità di vedere, credo si sia costituita nel tempo una ecologia interiore tale da poter gestire il dolore per quella mancanza: ma se per un periodo della nostra vita abbiamo potuto vedere e poi non più, allora l’impatto è davvero brusco e il ristabilirsi di un equilibrio interiore non semplice.
Esiste lo sguardo esteriore, quello garantito dal senso della vista, ed esiste lo sguardo interiore quello permesso dal sentire acquisito e dal paradigma conseguente.
Attraversare consapevoli il deserto interiore
Rispondo qui ad una amica e sorella nel cammino: sono temi di una discussione privata ma così universali che ciò che dirò a lei è bene che sia ascoltato anche da altri.
“Mi sono accorta di non riuscire ad immergermi nella lettura. I concetti che prima mi riempivano, condividevo e in cui mi ritrovavo, adesso restano in superficie, non scendono in profondità.”
Viene in momento in cui non si tratta più di indagare e studiare, ma di vivere, di dedicare le risorse interiori all’esperienza che, attimo dopo attimo, viene.
È come se la mente non recepisse più i contenuti, un logoramento glielo impedisce.
Inutile e controproducente insistere: la soluzione è assecondare, alleggerire la mente e semmai coinvolgerla in letture leggere, dedicarsi alle piccole incombenze quotidiane, coltivare lo stare senza appesantirlo dei suoi significati, delle interpretazioni possibili e dei simbolismi verosimili: stare e basta.
L’oscillazione tra sentire e mente e la relatività del limite
Dice Marco commentando il post Quando comprenderemo che la fiducia è la chiave di volta:
“La chiave è la fiducia, perché l’Amore è. E’ come il sole che nei giorni bui sembra che non c’è, ma sono i nostri occhi che non riescono a veder”. E’ una parte del ritornello di una canzone che abbiamo scritto a scuola per un concorso.
Il senso è chiaro: c’è la visione limitata, condizionata dalla mente, e quella più ampia del sentire, che sa vedere oltre il buio apparente. Sono i poli in mezzo ai quali mi muovo.
C’è un’evoluzione in questo oscillare dall’uno all’altro polo? Si può rispondere a questa domanda senza essere condizionati dall’oscillazione stessa? A seconda di dove mi trovo, le risposte sono diverse. Mi verrebbe quasi da dire che maggiore è l’ampiezza di visione che mi si dischiude quando sono da una parte, maggiore il buio quando sono dall’altra. Ma forse sto esagerando. (Evidenziazione del redattore)
L’essere pronti, la meditazione, l’errore e il giusto relativo
Se il coniglio si fermasse a chiedersi perché l’aquila
che sta volteggiando sopra di lui lo spaventa,
la sua vita sarebbe lunga come un battito d’ali.
Se l’uomo si fermasse a chiedersi perché sta piangendo o sta ridendo,
fermerebbe le sue lacrime o interromperebbe la propria risata
e avrebbe perso l’occasione per ridere o piangere fino in fondo.
La struttura dell’esistenza dà al coniglio la paura per arrivare
a non essere più un coniglio
e all’uomo il pianto o il riso per arrivare alla fine
del suo essere uomo.
La vita che mai riconosciamo abbastanza
Qual è questa vita che mai riconosciamo abbastanza? Quella che abbiamo.
Se la riconoscessimo non cercheremmo senza sosta altro e scenderemmo nel ventre di quello che ogni ora ed ogni giorno si presenta.
Se la riconoscessimo porremmo fine al rosario dei lamenti sulle altrui inadeguatezze e ci porremmo il problema di come accoglierle e di come valorizzarle per quello che sono.
Non metto in dubbio che esistano delle limitazioni, in noi come nell’altro, come nelle scene che bussano e chiedono di essere affrontate: esiste qualcosa che non contenga un limite nel divenire?
La questione non è il limite in sé, ma la sua funzione: ciò che viene, ciò che l’altro porta, nella sua limitazione assolve alla principale delle sue funzioni; quale?
Come avviene una comprensione, un ampliamento del sentire
Supponiamo che uno tra voi, leggendo i giornali, guardando la televisione, parlando con gli altri, scontrandosi e incontrandosi con le altre persone, sappia che esiste, che so io, l’invidia. Il sapere che esiste l’invidia può essere un fatto che non tocca minimamente l’individuo o meglio, lo tocca soltanto a livello di conoscenza: l’individuo in questione sa, conosce, che tra gli esseri umani esiste l’invidia. Ecco, questa è la conoscenza, tanto che l’individuo potrebbe affermare secondo quella successione che prima ho presentato «io conosco l’esistenza dell’invidia».
Però col passare delle esperienze, dei giorni, del tempo, ecco che l’individuo ad un certo punto s’accorge che questa invidia, che sapeva esistere negli altri, esiste in realtà anche in lui stesso, in quanto in certe occasioni si sente invidioso; e s’accorge che questa invidia gli procura un problema di qualche tipo.
Lo specchio interiore, il giusto e il vero
Vi racconto un’esperienza accaduta ad una persona che frequenta questo Sentiero.
Questa persona va in un ipermercato per comperare dei libri che le interessano e che sono particolarmente scontati. Trova i libri, va alla cassa automatica, paga e si avvia verso l’uscita. Strada facendo riflette sulla cifra complessiva spesa e si avvede che è troppo bassa: controlla lo scontrino e scopre che risultano pagati due libri mentre essa ne ha presi tre, uno dunque non è stato pagato.
Per un attimo la persona è attraversata dal dubbio: può uscire e far finta di niente, non ci sono ulteriori controlli; o può tornare indietro e sistemare la cosa.
Il dubbio svanisce, la persona torna indietro e paga il libro non registrato precedentemente.