[…] Fortuna e sfortuna sono i risultati che l’osservatore del karma rileva nell’osservare gli avvenimenti delle esistenze.
Come il nostro Urzuk ci insegna con il suo semplice ottimismo che gli permette di considerare una fortuna non essere caduto sul formicaio e non la sfortuna di avere fatto tanta fatica inutile avendo rotto l’uovo, oggetto del suo scalare l’albero, fortuna o sfortuna sono relativi all’interiorità di chi sta osservando l’evolversi delle situazioni che sta vivendo.
Consapevolezza
Lo sguardo lucido e presente sul reale che accade attimo dopo attimo.
Il secondo anno del laboratorio per bambini
Credo che i genitori dei 13 bambini del Laboratorio di creatività consapevole conoscano l’importanza di accompagnarli, fin dai primi anni della loro vita, in un cammino di consapevolezza e di conoscenza.
Lontano da qualsiasi forma di condizionamento e di indottrinamento, i bambini sperimentano l’ambito delle sensazioni, delle emozioni, del pensiero, del sentire attraverso le esperienze corporee, pittoriche, rappresentative e ne divengono consapevoli, imparano a parlarne, a discuterne con la stessa naturalezza con cui parlano di un cartone, o del loro sport preferito.
Vivere fino in fondo: non costruire sulla sabbia
Una mente intende per vivere fino in fondo avere motivi di eccitazione.
Un corpo emozionale si ritiene vivo quando è attraversato da continue sollecitazioni sensoriali ed emotive.
Una identità si sente profondamente viva quando la vita le offre opportunità e conferme, gratificazioni, prove edificanti, situazioni anche dure ma comunque interpretate come necessarie ed evolutive.
In altri termini, l’identità avverte che la vita la costituisce e le conferisce senso quando c’è identificazione con ciò che accade.
Senza identificazione, l’identità si sente morire e la vita diviene vuota ed inconsistente.
Alla fine verremo premiati?
Se avete tempo, leggete questo commento al vangelo del primo novembre (la comunione dei santi) di Enzo Bianchi.
Enzo analizza Mt 5,1-12a, le “beatitudini”, e dice cose importanti. Mi colpisce questo passo:
Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere (corsivo mio). E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.
Condivido con Enzo la convinzione che il procedere umano apre orizzonti di libertà interiore i cui frutti si coglieranno appieno quando il processo sarà maturo ed al suo culmine.
La cura di ciò che si ha
Non dovremmo attendere di perdere ciò che abbiamo per apprezzarlo.
Non dovemmo dover dire: “Se avessi fatto!”, “Se fossi stato!”.
Tutti noi abbiamo tante cose, ma quelle che interiormente contano sono poche: alcuni affetti, alcune presenze, alcune possibilità.
Tutte richiedono una piccola cura, una attenzione discreta, uno sguardo leggero.
Una presenza consapevole.
L’amore per i semplici fatti
Un fatto piccolo non è un fatto banale, il vuoto chiacchiericcio nella mente, o tra le menti: è un fatto considerato nel suo essere, isolato dal contesto, non giudicato, non caricato di aspettative, osservato, ascoltato, accolto per quel che è.
In questa ottica tutti i fatti, anche quelli giudicati dalla mente come grandi, divengono semplici fatti.
Se il fatto non è qualificato e caricato dei nostri bisogni, mostra quel che: l’osservatore, libero da sé, dall’ingombro di sé, vive un incontro che sempre lo stupisce e lo riempie di meraviglia.
Cerchiamo l’eclatante, il forte e l’intenso nell’eccitazione della mente e dell’emozione, avviando così una ricerca senza fine perché quello che oggi ci eccita, domani è già banale.
Basterebbe che aprissimo gli occhi sui piccoli accadere liberi dal giudizio e dall’aspettativa e verremmo attraversati da una meraviglia che non sfiorisce.
La paura di perdere e i fraintendimenti relativi
Nel linguaggio del Sentiero, i temimi perdere, scomparire, irrilevanza ricorrono di frequente: quando vengono letti, o ascoltati da una identità che li interpreta secondo il loro significato corrente, nascono quasi sempre degli equivoci e, non di rado, un rifiuto.
Eppure in ambito spirituale dovrebbero essere ampiamente sdoganati: è risaputo anche dai neofiti che la libertà, è libertà da sé.
Alcuni vedono in questa libertà da sé quasi la negazione della nostra umanità, del significato stesso del vivere, della sua importanza, della sua sacralità.
Provo un certo imbarazzo a discutere dell’ovvio: chiunque conosca l’esperienza dell’ascolto, dell’osservazione, dello stare, del darsi tempo, del pregare, del meditare, del contemplare dovrebbe aver avuto accesso ad una visione più ampia della realtà in cui ha sperimentato la limitatezza del sé personale.
Avere la consapevolezza che l’umano non è riducibile alla sua incarnazione, non credo significhi negare questa e ciò che essa può portare come esperienza, come possibilità, come dono.
Solo una mente prigioniera della propria dualità, può pensare che l’aprirsi sul non conosciuto, sul non riconducibile ai sensi e a ciò che riteniamo oggettivo, voglia dire negare il conosciuto. Tutti sanno, lo spero, che oltre il mondo dei sensi esiste il mondo che un tempo si chiamava il mondo dello spirito, che è possibile sperimentare, che viene quotidianamente sperimentato da tutti coloro che meditano, che pregano, che hanno consapevolezza del loro essere interiore.
Perché mai debba esserci contraddizione, o addirittura incompatibilità, tra l’esperienza del mondo dei sensi e l’esperienza spirituale, è per me un mistero.
Se si ha conoscenza dei propri processi interiori, si sperimenta che l’accesso ad una percezione più spirituale della realtà, l’aprirsi all’ascolto vero, all’osservazione vera, all’accoglienza vera richiedono un farsi da parte della propria centralità egoica.
Con me al centro, vedo solo me. Con la disponibilità a mettermi da parte, si apre un mondo sconfinato perché quella marginalità di me crea le condizioni di una ricettività, di una accoglienza, di una permeabilità alla realtà che accade, impensabile e inaccessibile finché la consapevolezza è occupata dal mio esserci.
Ecco perché noi parliamo di perdere, di scomparire, di irrilevanza: perché sono le condizioni per allargare il nostro sguardo, ma nulla hanno a che fare con la perdita del nostro essere incarnati, del nostro tragitto personale ed esistenziale.
Certo, comportano la perdita della nostra centralità egoica ed egoistica: sarà per questo che alcuni di noi sobbalzano quando usiamo quei termini?
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Sull’amore che tutto è
Continua la riflessione iniziata nel post precedente.
Molto si parla dell’amore, ma a noi non interessa parlarne, ci interessa trasmetterne l’esperienza ed offrire gli strumenti per conoscerlo e sperimentarlo nelle proprie esistenze.
- Fornire gli strumenti
Non c’è albero che non produca frutto, non c’è persona che non possa vivere l’amore.
A volte l’albero è ammalato; a volte non piove o piove troppo; a volte non è curato a dovere e allora i frutti sono pochi, ammalati e soggetti a non conservarsi.
Il nostro compito, se abbiamo un compito nella nostra insignificanza, non è offrire frutti, ma mettere a disposizione di chi quei frutti desidera, le possibilità e gli strumenti per la conoscenza, la consapevolezza, la comprensione che da soli condurranno al frutto desiderato.
Non è compito nostro distribuire l’acqua, ma insegnare semmai ad aprire il rubinetto.
Questa è la ragione per cui poco parliamo dei frutti e molto della cura dell’albero.
- Trasmettere l’esperienza dell’amore
Si può fare in molti modi, quello da noi scelto è il modo da persona a persona, della testimonianza più passiva che attiva, del viverlo e del coprirlo con il velo della discrezione.
In quanti modi potrei declinare l’esperienza dall’amore che ci attraversa? In molti, e potrei declinare l’esperienza parlando di meraviglia, di gioia, di senso incontenibile e senza confine. Ma non andrò oltre, questa è una sfera privata e tale deve rimanere.
Ma, come dicevo, l’esperienza dell’amore si può trasmettere da persona a persona: accade durante gli individuali, durante i gruppi, durante gli intensivi.
Pervade l’ambiente e lo rende saturo del suo essere tutto ciò che è e che c’è.
Possiamo fare l’esperienza dell’amore conoscendo ciò che in noi ci separa da esso, ce lo vela e ce lo nasconde.
Possiamo farla incontrando qualcuno che quella realtà vive nella sua ferialità, qualcuno per cui è norma, quotidiano integrato e ordinario.
Possiamo anche incontrare l’amore nelle parole, anche in quelle del web, o di un libro: è naturale, esse fanno risuonare qualcosa che in noi già c’è, che ci appartiene ma non è così evidente e lo diventa quando viene risvegliato.
Noi abbiamo fatto la duplice scelta:
– dell’offrire alcuni strumenti per aprire il rubinetto dell’acqua da sé;
– dell’offrire una testimonianza silente di ciò che vive in noi come amore compreso, lasciando che si manifesti come fatto nella relazione, nella presenza, nella vicinanza.
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Nel Sentiero, mettiamo in evidenza solo il negativo dell’umano?
Scrive un’amica: “Mi sembra che sempre più questo cammino sia caratterizzato da quegli aspetti e parole della vita più “desertici” (disarmonia, dolore, sofferenza, eccessi, errori, distanza, freddezza a volte, fatica, incomprensioni….), come se gli aspetti più gioiosi, pacificanti, frizzanti, divertenti e perché no, anche premiativi dell’esistenza, siano marginali e comunque di nessun valore educativo ed evolutivo”.
E’ un’osservazione importante, che certamente coglie un aspetto del nostro procedere.
Perché parlo, in prevalenza, degli aspetti più difficili, più duri, più scarni dell’esistenza? Perché il limite è il centro della nostra elaborazione?
Perché il limite è ciò che appesantisce le vite delle persone ed è la porta per la libertà.
Perché il limite attiva il processo della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione.
Non c’è consolazione nel nostro cammino? In effetti ce n’è poca. Perché?
Perché se possiamo dare, e sottolineo il se, un contributo al cammino di conoscenza, emancipazione e liberazione delle persone, lo possiamo fare a partire da ciò che nella loro vita rappresenta un ostacolo; di conseguenza parliamo degli ostacoli e delle potenzialità di cui essi sono portatori.
La visione del Sentiero è, nella sua radicalità, piuttosto semplice: la libertà si trova nel quotidiano attraverso l’esperienza delle nostre limitazioni.
Non servono dunque a niente gli stati di armonia, di gioa, di pacificazione?
Non servono per una ragione molto semplice: non hanno una funzione di servizio, ma di strutturazione; per loro natura testimoniano una trasformazione avvenuta, realizzano una piattaforma di sentire a partire dalla quale si attiveranno nuovi processi messi in atto dal limite che ci pungola.
Hanno importanza gli aspetti premiativi, le gratificazioni? Certamente, tutti lo sappiamo, tutti sperimentiamo il loro valore di supporto, di consolazione, di incoraggiamento.
L’autore dei post del Sentiero, vede le difficoltà e il disorientamento delle persone;
non è interessato a parlare di sé, della propria libertà dal condizionamento;
è mosso da una compassione profonda per il cammino esistenziale delle persone e cerca, per come gli è dato, di essere loro d’aiuto.
Invece di aiutarle, le deprime perché mostra un mondo fatto di limiti, di cadute, di difficoltà, di deserto?
Può darsi che questo accada, ma mi permetto una domanda:
perché il lettore non coglie la compassione che attraversa tutto il nostro dire e il nostro operare?
Perché non sappiamo esprimerla e, forse, perché non permea sufficientemente la nostra vita e i nostri scritti? Può darsi che sia cosi.
Può anche darsi che il lettore risuoni su quella che in effetti è la sua condizione e viva un moto di rifiuto per noi che è simbolo del rifiuto per sé.
Forse non vede la compassione e l’amore senza condizione che il nostro scrivere porta, perché il riverbero di un proprio disagio provocato dal nostro scrivere, lo focalizza sulla propria difficoltà, sul proprio compito, su ciò che l’attende nella sfera esistenziale. Può darsi anche questo.
Vi chiedo: se uno scritto non serve a mettervi a nudo, a confrontarvi con voi stessi, a cosa serve? Forse penserete che dovrei equilibrare portando contenuti positivi, esperienze di edificazione, esempi e metafore che sostengano in positivo il vostro cammino quotidiano. Ne è pieno il web; ne sono pieni i libri; ne traboccano gli insegnamenti dei “maestri”, non vi manca il materiale, credo.
Mi interesso al letame umano e ve lo propongo come la via alla libertà: questo mi riesce, altro mi rimane difficile.
Per parlare dell’armonia, della gioa, della meraviglia, della vita pregna di senso dovrei scoprirmi, dovrei parlare di me, del mio vivere che quello è.
Non lo farò. Né citerò altri che quello hanno vissuto, perché avendo una sorgente interiore non si capisce perché dovrei andare a prendere l’acqua da un’altra parte.
Concludo dicendo: a mio parere le persone hanno bisogno di trovare nel limite che sperimentano, una possibilità, non un impedimento.
Di questa possibilità sepolta sotto il letame noi parliamo, spinti dall’amore per l’altro.
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Karma, possibilità, compassione
Come occidentali, siamo cresciuti nell’humus cristiano intriso del concetto di colpa e di punizione.
Più o meno inconsciamente, associamo il karma alla punizione e non abbiamo ancora sviluppato né una cultura del karma, né quella di una vita che mai è da vittime meritevoli di essere punite.
E’ ancora acerbo il paradigma delle possibilità: la vita come possibilità di comprensione senza fine; il karma come la legge che governa il cosmo e che apre possibilità di esperienze finalizzate al comprendere.
Siamo ancora lontani da questo e dovremo sviluppare una riflessione più approfondita sulla legge di causa ed effetto: da chi è generata la causa?
Dalle necessità di comprensione della coscienza, che genera le situazioni d’esistenza in relazione al compreso e al non compreso.
Qual’è il fine dell’effetto? Offrire ulteriori scene d’esperienza per permettere il realizzarsi delle comprensioni avviate dalla coscienza.
E’ chiaro che tra causa ed effetto esiste il nesso della responsabilità: “sono responsabile del cammino di comprensione, delle sue dinamiche, del suo svolgersi, del suo evolversi all’interno della dinamica causa-suo effetto”.
Quand’è che sono responsabile, quando si attiva la legge di causa-effetto?
In tutti i casi, o solo quando sono consapevole delle possibilità, quando opero A ma potrei anche operare B?
Solo quando in me esiste la possibilità consapevole di una scelta, ovvero quando le comprensioni acquisite mi offrono la possibilità di più alternative.
Se non ho comprensioni tali da avere alternative, scelte possibili, il mio agire non attiva la legge di causa ed effetto.
Quindi il karma si attiva quando, ad esempio, scelgo B pur avendo la possibilità di scegliere A: se ho scelto B, evidentemente in me c’è ancora una comprensione non giunta a pieno completamento, avendo io anche la possibilità di comprendere A; ecco allora che l’intervento del karma mi offre la possibilità di approfondire, di fare altre esperienze finché la comprensione non sarà completa.
Cosa questo significhi nelle nostre vite, credo che ciascuno di noi lo sappia molto bene: il karma ci induce alla responsabilità, all’accoglienza dei nostri percorsi esistenziali, alla compassione sul nostro e altrui procedere.
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