atomi dell'assoluto

Compassione, forse

Siamo atomi d’aria nel respiro dell’Assoluto.
Ogni giorno, ad ogni ora proviamo a conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Piccolo o grande che sia l’asino in noi, ciò che esprimiamo è sempre e solo un tentativo, un approccio, un’approssimazione, il segno di un incedere.
Prima di aprire la bocca, dubio di quello che dirò.
Mentre compio un’azione, so che sarà limitata.
Quando mi approssimo a te, so che farò difficoltà a vederti, ad ascoltarti e, a volte, il mio accoglierti è solo maniera.
Vedo l’irrilevanza e l’irrealtà di me e mi fermo, non c’è ragione da dimostrare, qualcosa da aggiungere.
Non c’è tristezza, compassione forse.

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amore

Amare è un atto di volontà?

Dice Enzo Bianchi, e con lui i cristiani in genere: “Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù”.
Dunque sembra che l’amore sia il frutto di un atto di volontà del soggetto che crede nell’amore e ama perché Dio lo ha amato per primo.
Definirei questo amore, l’amore voluto e lo raffronterei con l’esperienza dell’amore che accade, l’amore accaduto.
La mia tesi è molto semplice: l’umano scopre l’amore, non lo impara, non lo può volere, non può indursi, non più di tanto almeno, ad amare se questa spinta non gli sorge dall’intimo.
Scoprire l’amore significa che quando lo vedi, lui era già lì: non è tuo, non l’hai fatto tu, non è un tuo frutto. Lui c’era già, l’hai solo scoperto.
L’amore c’è per tutti e tutti, a loro tempo, lo scoprono.
L’amore accaduto è l’esperienza dell’amare che ti attraversa e che non hai voluta, non l’hai cercata, è accaduta a prescindere da te: attraverso te, ma a prescindere dalla tua volontà.
L’amore frutto della volontà lo chiamerei, più propriamente, il bene voluto, il bene fatto, l’operare il bene: è un’esperienza interiore molto differente dall’amore, dall’essere attraversati dall’amore. Altrettanto importante.
L’esperienza dell’amore conduce l’umano incontro alla pienezza di sé e, naturalmente, non può che divenire vita, azione, relazione.
A me sembra che nella visione cristiana dell’amore e dell’amare ci sia del non chiarito: espressioni come credere all’amore, amare gli altri perché Dio ci ha amati, mi sembrano non significanti, non si ama per queste ragioni, non si ama per nessuna ragione. Per queste ragioni si fa il bene.
Si ama perché l’insieme delle esperienze e delle comprensioni ci hanno condotti, passo passo, oltre il limite dell’egoismo e della cecità interiore, fino a far sorgere in noi quell’esperienza precisa e sconvolgente che chiamiamo amore.
La visione cristiana esercita su noi una costante sottile pressione, quasi a volerci indurre e condurre ad amare: pedagogia pessima, come molte delle pressioni, non si può costringere una pianta a crescere più in fretta, non si può indurre un umano ad amare quando non ha in sé la disposizione a farlo.
Si può educare alla generosità, alla collaborazione, alla condivisione, al rispetto. Si può educare al bene, dunque, certo!
L’amore sorgerà nell’intimo della persona quando essa, lavorata dal non-amore, avrà compreso – non capito – che non c’è nulla da difendere, nulla di nostro, nulla che non sia dell’Assoluto, dentro l’Assoluto.

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domande esistenziali

I laici e le religioni

[…] L’opinione laica sembra infatti ben disposta a interloquire su tematiche filosofiche o persino spirituali, concedendo una patente di credibilità dialogica a riflessioni sulla vita, la morte, l’al di là, i valori universali… mentre appare refrattaria, distratta, non reattiva quando il papa affronta tematiche molto più “laiche”, come il sistema economico-finanziario disumano, la dignità di ogni persona a cominciare dai poveri, i migranti, i profughi, il commercio delle armi, le strutture e gli assetti politici e sociali che alimentano ingiustizie: i silenzi che hanno accolto i suoi appelli contro la terza guerra mondiale in atto o contro la persecuzione delle minoranze, cristiane o meno, sono sintomi preoccupanti di un dialogo che ha timore di affrontare frontalmente questioni imbarazzanti per i rapporti di forza esistenti nel mondo. Ma il dialogo autentico non ha come finalità i massimi sistemi: da quelli prende le mosse per chinarsi sul bene più prezioso che ci è dato di possedere e che a tutti va garantito, la vita umana.[…] Enzo Bianchi, Avvenire, 28 aprile 2015.
Credo che i laici abbiano una domanda esistenziale che non trova risposta e per questo indagano, interloquiscono, chiedono a chi, presumono, a quella domanda dovrebbe aver trovato risposta.
Non è questa la funzione delle religioni? Proporre all’umano un cammino di unificazione interiore, di senso, di ancoramento ai valori fondamentali, all’essenziale?
Credo altresì che i laici vogliano riservare a sé e ai processi politici, economici, sociali il superamento delle spaventose diseguaglianze e ingiustizie che attraversano il pianeta.
Mi sembra che nella coscienza laica ci sia sufficiente consapevolezza di una divisione dei ruoli che affida alla religione la vita interiore, e alla politica quella di relazione.
Questa consapevolezza laica marca, probabilmente, un limite: la non chiara comprensione che ogni mutamento esteriore trae origine da un cambiamento interiore. Se i laici avessero ben compreso questo, la politica che essi esprimono avrebbe ben altra natura.
Questa lucidità di sguardo c’è invece nelle religioni in genere, che pongono al centro di ogni processo il cambiamento del “cuore” dell’uomo.
Rimane da vedere e da chiarire se e in che misura, le religioni rispondono alla fame esistenziale delle persone: a mio parere in una misura molto scarsa.
Il cattolicesimo, in particolare, sembra prigioniero di se stesso, della propria tradizione, della propria teologia, del verso consolidato dal quale ha guardato e guarda all’evento che l’ha generato: la vita, la morte, la resurrezione di Gesù, il Cristo.
Credo che il mondo interiore dei laici chieda ai cattolici la capacità di rigenerare il paradigma cristiano, di trovare gli alfabeti nuovi di una interpretazione simbolica ed esistenziale dell’archetipo del Cristo che parli alle loro menti e ai loro cuori in maniera, per loro, credibile ed efficace.

Immagine da http://goo.gl/78aLk0

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Il narcisismo, la discrezione, la riservatezza

Che bisogno aveva la Comunità monastica di Bose di promuovere, per il settantesimo compleanno del suo fondatore, Enzo Bianchi, un volume di 760 pagine contenente gli omaggi di 130 autori?
Non lo so. Che bisogno hanno di mostrare nel loro sito le immagini di tutti gli ospiti illustri che visitano la loro comunità?
La leggera brezza del narcisismo attraversa Bose? Non lo so e, in fondo, non mi riguarda.
Potrei allargare lo sguardo sulle magnificenze delle liturgie cattoliche così narranti sé, non certo il divino, o il rapporto con esso.
Ma anche questo, in fondo, non mi interessa.
Allora perché ne parlo? Per evidenziare il valore della discrezione, della riservatezza, del nascondimento anche.
Per interrogarmi sul quando e sul dove, forse, anche noi indugiamo nel mostrare, piuttosto che nell’essere.
Fare un passo indietro, tacere, osservare, ascoltare, servire nel silenzio di sé, pregare nella discrezione protetti dallo sguardo di chi ad altro è intento, meditare nella propria stanza quando ancora gli altri dormono.
Il rapporto con l’Assoluto è rapporto feriale e intimo, sia per la persona che per la comunità, ed ha bisogno di un sguardo interiore non preoccupato del mondano, dell’effimero, di tutto ciò che è vanità delle menti.

Immagine da http://goo.gl/VsVi5X

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karma

Le cose fatte bene e quelle fatte male

Non conta quante volte hai fatto bene, conta quando il tuo raglio si sente da costa a costa.
Perché? Perché è dal raglio che impari, è lui che ti rende migliore se ne comprendi l’origine e la manifestazione.
Allora le cose fatte bene che fine fanno? Finiscono nella “contabilità generale”, in quello che viene definito il karma positivo.
Le cose fatte male muovono quello che chiamerei il karma produttivo, quello che genera opportunità nuove di apprendimento.
Ciò che è venuto male per un difetto di comprensione, si ripresenta e si ripresenta fino a quando non viene fatto bene.

Come nasce il Karma, C.Ifior, pdf.

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coscienza

La coscienza crea la realtà

Per quanto ci sembri irreale, non siamo noi, piccoli portatori di nome, a creare la realtà.
Noi stessi siamo creati attimo dopo attimo, fotogramma dopo fotogramma, dal sentire di coscienza.
Tutte le scene che viviamo, tutti gli affetti, tutti i progetti, tutte le mansioni sono generate dal sentire.
Quale realtà crea la coscienza? Quella possibile, compatibilmente con le comprensioni acquisite e con quelle da acquisire.
Siamo dunque solo burattini? No, se comprendiamo che identità e coscienza sono unità inscindibile.

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discernimento

“Segui il tuo sentire!”

Quello riportato nel titolo è uno dei consigli più usati e più abusati, scodellato indistintamente a persone con una elevata capacità di discernimento, come a persone che nel discernimento difettano palesemente.
In sé l’affermazione è ineccepibile: l’umano dovrebbe seguire il proprio sentire di coscienza, senza sosta dovrebbe affidarsi alla parte più profonda di sé e su essa confidare.
Domanda: quanta è la capacità dei singoli di ascoltare e discernere chiaramente e consapevolmente l’indicazione esistenziale che sorge dal sentire?
Non molto alta, spesso decisamente bassa a mio parere. Le persone seguono a volte i loro istinti primari, altre le proprie sensazioni ed emozioni, altre quello che dice la loro mente: tutto questo ha relazione con il sentire, a volte lo esprime, altre lo vela o, addirittura, lo ottunde.
Allora, come si ascolta e decodifica il sentire che affiora dalla coscienza?
1- Facendo spazio dentro di sé: lasciando che sensazioni, emozioni, pensieri non occupino tutto lo spazio della consapevolezza;
2- disponendosi ad osservare, ascoltare, accogliere ciò che emerge dal silenzio di sé, da quegli spazi che si aprono tra pensiero e pensiero, tra pensiero ed emozione;
3- distaccandosi dall’identificazione con i propri vissuti, con i propri processi, con i propri dolori;
4- dubitando radicalmente di ciò che la propria mente dice e della lettura che diamo della realtà con la quale siamo identificati;
5- dandoci tempo, non prendendo decisioni affrettate, non obbedendo a degli impulsi;
6- osservando i propri comportamenti e abituandosi a leggerli nel loro portato simbolico;
7- analizzando i propri sogni e, con tutte le prudenze del caso, interpretandone il significato simbolico relativo ai processi dell’identità come a quelli della coscienza;
8- chiedendo consiglio, facendosi accompagnare, se necessario;
9 – osservando la realtà che ci accade nel quotidiano, in famiglia, sul lavoro: ogni fatto parla di noi e ci svela nei nostri meccanismi e nelle nostre sfide esistenziali.
Alla luce di questa consapevolezza diffusa di sé, di questo sguardo profondo sui processi, la capacità di ascolto del proprio sentire sarà divenuta sufficientemente nitida da permetterci di operare un discernimento sensato e delle scelte ponderate alla luce del reale e di ciò che esistenzialmente è bene per noi.


Immagine da http://goo.gl/TWZ7oZ

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senza orizzonte

La nostra vita senza obbiettivi

Per molti anni ci siamo alimentati e dissetati alla fonte dell’amore che provavamo per il nostro partner: ci dava senso, esperienza, orizzonte.
Per tanto tempo il nostro lavoro è stato la nostra vita. Le nostre mansioni, la nostra funzione, le relazioni erano il nutrimento delle nostre giornate.
Quando tutto questo, e molto altro, viene meno, oscilliamo tra il non senso e la depressione che incombe.
Quando non abbiamo più adesioni a qualcosa e siamo privi di obbiettivi, di cosa si sostanzia il nostro vivere? Che cosa ci rimane?
Quello che abbiamo.
Quello che accade.
Quello che si presenta e ci chiede di essere vissuto.
Dobbiamo riconvertirci dall’essere protesi, dall’incessante edificazione di una interpretazione della realtà che ci gratifichi, al ciò che è, al ciò che accade.
Dal sogno dell’esserci, alla realtà dell’essere.

Immagine da http://goo.gl/t6xYtY



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Coloro che se ne vanno di loro volontà

Un nostra amica, scossa dal suicidio di una giovane donna, Silvia, mi chiede una parola. Che cosa l’ha portata alla determinazione di appendersi ad un albero con il suo foulard?
Non lo sapremo mai: anche quelli che la conoscevano, poco sapevano di lei.
Tutti, poco sappiamo del nostro prossimo. Tutti, senza eccezioni.
Perché? Perché ciò che vediamo e cogliamo non è ciò che è, ma ciò che per noi è necessario che sia.
Dunque dell’altro non cogliamo la sua realtà, ma il suo essere comparsa sul set del nostro film.
Se non si guarda la realtà in quest’ottica, si coltiva la pretesa di capire, di sapere, magari di essere responsabili di qualcosa.
Viviamo, lavoriamo, condividiamo la vita con delle persone e, alla fine, magari attraverso un gesto inaspettato e tragico come il loro suicidio, ci accorgiamo che di esse non conoscevamo niente.
La lezione? Ridimensionarci nella nostra pretesa assurda di conoscere l’altro da noi.
Silvia, ha posto fine alla propria vita in anticipo? Si, secondo le menti; no secondo la coscienza.
Nel disegno del proprio sentire, Silvia ha finito il proprio calendario nell’ultimo giorno previsto, come tutti.
A 41 anni è morta suicida; a 41 anni sarebbe comunque morta di altro.
Non è questo, evidentemente il nodo problematico: di fronte a qualcosa che la faceva soffrire – e se la faceva soffrire è perché quel qualcosa non l’aveva compreso – invece di affrontare la situazione, di continuare a vivere le esperienze e a lottare dentro di esse, si è arresa.
Evidentemente per lei la misura era piena; evidentemente doveva anche muovere la causa del morire suicida per apprendere dagli effetti di quella causa mossa, per comprendere che di fronte alle sfide del non compreso bisogna, da un lato saper lottare, dall’altro saper accettare il limite, il dolore, l’assurdità delle situazioni, la propria o altrui inadeguatezza.
Non sappiamo che cosa Silvia andrà ad imparare, sappiamo che la vita è apprendimento e bisogna trovare un modo di starci dentro senza farsi a pezzi, senza portare le situazioni al limite della sopportabilità del dolore.
Alla nostra amica che ha posto la questione: guardando Silvia, comprendi l’importanza del nostro cammino che cerca di offrire la prospettiva di un senso al vivere e al soffrire?
Quella vita così giovane e generosa che tu vedi scomparire al tuo sguardo e alla tua compagnia, non scompare invano: in tutti voi che l’avete conosciuta, in tutti noi che ne trattiamo, insinua un tarlo, una domanda, un dubbio, un invito ad andare più a fondo nella vita, nella conoscenza, nella ricerca di senso.
Non scompare invano per sé, perché la radice di quel gesto, e il gesto stesso produrranno processi e insegnamenti nella vita futura della sua coscienza.
Accogli, cara amica, il tuo dolore e il tuo sgomento ma non farti travolgere: impara da ciò che accade, senza indulgere su di te e sul tuo soffrire.

Immagine da http://goo.gl/zQew1R


scarabocchio

Quando un genitore muore e lascia dei figli piccoli

Accade che una madre, o un padre, debbano separarsi dai loro figli quando questi sono ancora piccoli e avrebbero bisogno di quella presenza al loro fianco.
Un genitore deve lasciare per diverse ragioni: perché muore; perché si separa in malo modo; perché emigra.
Qui ci interessa trattare il primo caso. Accade di morire giovani, con figli ancora piccoli.
Molte volte abbiamo detto che nessuno muore prima che il proprio calendario sia finito: non un giorno prima.
Ma chi resta, come fa? Come fanno quei bambini senza più quel volto, quella presenza, quelle attenzioni, quella mano che li accompagna?
Sono di quel genitore, quei figli? Sono di quella madre, di quel padre? Siete sicuri?
Oppure quella madre, quel padre sono stati gli strumenti attivi di un progetto esistenziale che li precede e che va ben oltre loro?
Un figlio è, dal nostro punto di vista, un progetto e un processo che contempla la presenza del genitore, ma non è da essa condizionato.
Cosa significa? Che quel progetto/processo proseguirà comunque, a prescindere dalla sopravvivenza di coloro che l’hanno avviato, perché quel processo è esistenziale e si sostanzia nella relazione, nelle esperienze, nel tempo, nella conoscenza, nella consapevolezza, nella comprensione: la scomparsa di quel genitore impatta nell’esistenza del figlio, ma non la stravolge nel suo impianto esistenziale.
Quell’impatto così duro è tale da condurre allo smarrimento, o non è invece una condizione orientante, esplicitante  e rivelante il processo stesso?
Un genitore morendo toglie qualcosa a quel figlio o, invece, dona qualcosa che, dal momento che accade, è già dentro l’ecologia di quel tracciato esistenziale che lo accoglie: non che lo subisce, ma che, nel profondo, lo accoglie perché anche quella separazione è la sua vita.
Dona il genitore, attraverso il trauma della separazione, una possibilità di conoscenza-consapevolezza-comprensione nuove alle proprie creature?
Quel seme che muore, nel tempo darà vita?
Noi, nella nostra limitata visione, diciamo che nulla accade a caso: né il nascere, né il morire, né il perdere una persona amata.
Coloro che rimangono saranno certamente i più adatti a prendere per mano quei figli e ad accompagnarli là dove essi non possono che andare; questo perché il processo esistenziale di ciascuno di noi non dipende dagli altri e sempre, nell’ambiente di relazione, trova le risorse necessarie al perseguimento del proprio scopo esistenziale.

Immagine da http://granellidipsicologia.com/2013/01/