realtà soggettiva

La realtà soggettiva, la realtà oggettiva

Vi invito vivamente a leggere e a riflettere su questa parole che giungono da una fonte quantomai autorevole, il Cerchio Firenze 77: qui potete scaricare l’intero testo in pdf.

FRANCOIS – Degli altri voi non vedete la realtà del loro essere, ma vedete quello che appare. Ciò significa che vedete, al massimo, quello che gli altri mostrano di sé.
Non solo, ma anche l’immagine che gli altri danno dl se stessi può essere da voi distorta, può essere esaltata o peggiorata.
Così che quando vi innamorate di qualcuno, vi innamorate di una immagine. Chissà se il vostro innamoramento potrebbe persistere se di chi amate conosceste non l’immagine, ma la realtà.

DALI – Il fatto che gli altri vi mostrano solo un’immagine, e non la realtà, è talmente vero che si può dire sia una pura coincidenza che, talvolta, le intenzioni degli altri corrispondano alle intenzioni che voi credete che gli altri abbiano.
Il più delle volte, invece, voi attribuite agli altri intenzioni che gli altri non hanno; oppure non vedete le loro vere intenzioni e su quello che voi pensate che gli altri siano, sull’immagine che di essi vi siete fatti, costruite la vostra relazione con loro, il vostro mondo. Non crediate che quello che io dico si riferisca a casi o persone limite: è cosa di tutti e di tutti i giorni.

KEMPIS – Quindi, gli altri non sono importanti per voi a condizione che riusciate a cogliere la loro vera realtà, il loro vero essere; ma sono importanti per le reazioni che in voi riescono a suscitare; e le suscitano solo se voi siete sensibili a quegli stimoli che essi volontariamente o involontariamente vi inviano.

DALI – Perciò gli altri sono per voi come una sorta di specchio; essi possono su voi solo ciò che voi permettete che possano. Ma non “permettere ” nel senso di ” concedere “, cioè come colui che ha un’autorità e che accondiscende a qualche richiesta; ma ” permettere ” nel senso di lasciare che gli altri abbiano presa su voi, essere in loro balìa; che poi, invece, è spesso essere in balia della propria immaginazione e della propria debolezza.

KEMPIS – Gli altri, per voi, non sono tanto creature reali quanto immagini costruite dalla vostra mente, spesso animate dalla vostra immaginazione. Ma sono proprio quelle immagini e proprio quel processo che le crea, che fa sì ch’esse meglio si adattino ai vostri bisogni evolutivi, che rende le relazioni degli uomini altamente produttive ai fini della maturazione della coscienza individuale. […]

CF77. Estratto dal libro “le Grandi verità ricercate dall’uomo” – Edizioni Mediterranee.
Tratto da: http://is.gd/R0WhfL

amore

La natura dell’amore

Vito Mancuso parla di amore come fenomeno che si sviluppa nella dipendenza, nel possesso, nella esclusività.
Alla fine del post trovate i brani salienti evidenziati e nel link l’intera intervista a Franco Calabrò in pdf.
Vito, nel parlare dell’amore, parla di ciò che noi chiamiamo affetto e che è, per sua natura, condizionato dai bisogni delle identità che condividono l’esperienza.
Se fosse solo questo, sarebbe una questione di termini e di niente altro. Ma Vito dice che è nella logica cosmica dell’amore essere l’agente che lega, che crea dipendenza e possesso.
Qui fa una notevole confusione e temo non abbia visto bene: l’amore attiva il processo dell’incontrarsi, dell’aggregarsi e attraverso quel processo conduce al superamento di ogni dipendenza e di ogni possesso.
L’amore è processo creativo innescato da una forza unitaria, non duale: quella forza, quando impatta con l’umano, diviene processo che da un punto conduce ad un altro punto, essendo tutto nell’umano soggetto al divenire e al tempo.
L’amore conduce due persone ad incontrarsi, ad innamorarsi, a vivere la stagione della maturità affettiva condizionata ancora dal bisogno uno dell’altro, da un certo tasso di dipendenza, da una possessività di vario grado: tutto questo è mosso da quella forza chiamata amore, ma non la esprime; certo, forse, per sommi tratti, la prefigura.
Siamo ancora lontani dall’amore perché ancora alto è il condizionamento che le identità introducono.
Molti di noi arrivano a miglior vita che mai hanno, se non per lampi e frammenti, vissuto l’esperienza dell’amore.
L’amore nulla ha a che fare con la dipendenza.
L’amore nulla ha a che fare con il possesso.
L’amore nulla a che fare con l’esclusività.
Quando la persona sperimenta l’amore non può dire: “Io amo!” perché l’amore non ha un soggetto, né un oggetto.
L’amore è un’esperienza che nella gratuità sorge e diviene sperimentabile, e nella gratuità tramonta e ci lascia dentro ai nostri piccoli attaccamenti.
L’amore è la forza che ci conduce ad incontrarci, ad intrigarci, a collaborare, a condividere e, mentre viviamo questi processi, ci rende liberi dalla dipendenza, dal possesso, da noi stessi.
Man mano che l’amore si innerva in noi, trasforma l’intero ambito del nostro vivere, delle nostre relazioni, del nostro essere.
Alla fine, quando la sua azione è giunta a maturità, l’amante e l’amato sono scomparsi come soggetti che possono affermare: “Io ci sono, io amo”.
L’esperienza dell’amore è, allora, universale e copre tutti gli esseri e tutte le creature.
La coppia non esiste più in quanto tale e i due, se hanno proceduto nella comprensione assieme, sono testimoni dell’amore senza nome che accade.


Intervista a Vito Mancuso di Paolo Calabrò
[…] Questo a significare che, quando parliamo dell’amore, parliamo certamente di un sentimento – è chiaro che la prima manifestazione dell’amore sia il sentimento, all’interno del mondo degli umani – ma questo sentimento a sua volta rimanda a quella logica di cui ho parlato finora: cioè quella logica cosmica che porta gli enti ad aggregarsi ad altri enti, quelli piccolissimi come quelli grandissimi.

Se si tratta di una cosa così innata e intrinseca a tutto ciò che esiste: perché è così difficile vivere liberamente e serenamente l’amore? Perché l’uomo rimane invischiato nelle tante autocensure e regolette morali tipiche della nostra cultura? Soprattutto: si può venirne fuori? È infine possibile vivere l’amore come libertà?

Comincerei col chiarire che è colpa della cultura soltanto in parte: è vero che sono tante le istanze culturali che tendono a trasformare il “fiore” dell’amore, sbocciato spontaneamente nel campo, in fiore di serra, e poi in pianta d’appartamento (​ride);​in una parola, a irregimentarlo. Però qui occorre chiedersi: com’è che queste regole sopravvivono al passare dei secoli, delle organizzazioni collettive e delle morali? Una parte va certamente addebitata alla società, che non è perfetta. Ma a mio avviso tutto nasce ancor più a monte, da quel sentimento delicatissimo e peculiare che è l’amore e che non è indipendenza. Se lo si guarda più da vicino si scopre che il senso del precetto, della legge, della convenzione, non nasce semplicemente dall’imposizione eteronoma di una società cattiva: esso sorge piuttosto dalla dimensione più viva che è alla radice del fenomeno dell’amore, che è un fenomeno di dipendenza: si vuole che l’altro – o l’altra – dipenda da noi. E il legame (o il legaccio, se vogliamo evidenziarne l’aspetto negativo) è già insito in esso: ciò spiega come mai gli esseri umani, ancora oggi, si leghino tra di loro. In passato c’era il clan che assegnava a ciascuno il marito o la moglie, e c’era tutta una struttura sociale che in maniera pervasiva legava il singolo dalla nascita alla morte: non c’era spontaneità nell’amore, i matrimoni erano programmati eccetera eccetera. Ma oggi non è più così, almeno in Occidente: e tuttavia gli esseri umani sentono ancora il bisogno di legarsi. Perché dunque è così difficile ritrovare quella spontaneità originaria, oggi, dove la libertà individuale lo permetterebbe? Perché si tratta di un equilibrio delicato, perché se c’è l​’amore -​vorrei precisare che non sto parlando d​egli amori (che è tutto un altro campo, anch’esso a suo modo interessante per l’esplorazione intellettuale), dell’avventura, quella di cui canta Battisti, dove meno legacci ci sono, meglio è – insomma, se c’è l’amore, cioè quel sentimento assoluto che provoca un’attrazione irresistibile, allora c’è, per così dire a​automaticamente anche il desiderio del possesso, dell’esclusività. Quando questa cosa viene meno, si può probabilmente dire che anche l’amore, nel senso più pieno, sia venuto meno (del resto non c’è da sorprendersi: l’amore è energia, è qualcosa che va e che viene), o che forse sia entrato in una nuova fase del suo sviluppo. […]


Primi passi nel Sentiero contemplativo

Ciclo di incontri introduttivi alla visione della vita, di sé, delle relazioni proposta dal Sentiero contemplativo.
Il percorso formativo è rivolto:
– a coloro che vogliono introdursi alla conoscenza di sé e sono disposti ad affrontare il proprio vittimismo, a divenire artefici della propria vita, a trovare l’essenza del proprio essere che si svela solo nell’accoglienza piena del proprio limite;
– a coloro che, nella piena espressione di sé, sono disposti a scoprire la propria irrilevanza;
– a coloro che già frequentano il gruppo L’essenziale e sentono la necessità di formarsi maggiormente sui temi di base della via interiore e del Sentiero contemplativo.

Il percorso è normalmente costituito da 3 o 4 incontri dopo i quali si può frequentare il gruppo di approfondimento L’essenziale.

Conduzione: Roberto Olivieri.
Le date verranno decise insieme ai partecipanti.
La durata di ogni incontro sarà di 90-120 minuti.
Il percorso è gratuito e si svolge presso l’Eremo dal silenzio a San Costanzo (PU); inizia quando c’è un numero sufficiente di partecipanti.

Per informazioni: eremo@contemplazione.it
Il calendario di Primi passi attualmente in corso.

Le persone che si iscrivono incontrano preliminarmente e individualmente il conduttore: senza questo incontro l’iscrizione non avrà seguito.
Dopo essersi iscritti occorre fissare una data per l’incontro individuale scrivendo a eremo@contemplazione.it, o telefonando al 327 3967523.

Per iscriversi compilare il modulo sottostante.

Immagine da http://is.gd/mTXel9


Tutti procediamo assieme collaborando, cooperando, condividendo

Potremmo imparare qualcosa senza l’altro da noi?
Potremmo divenire persone diverse e migliori se non incontrassimo tutti i giorni qualcuno di diverso da noi che ci svela nei nostri limiti, che si svela nei suoi, che a volte ci è di esempio positivo, altre negativo?
Potremmo respirare senza l’aria?
Potremmo mangiare senza l’orto e chi lo coltiva?
Potremmo conoscere la dolcezza di un bambino che ci chiama se non avessimo aperto la nostra vita a lui?
Potremmo vedere il nostre egoismo se non incontrando qualcuno che ci chiede qualcosa?
Tutta la nostra vita è il frutto gratuito della relazione: sebbene noi si sia dato un prezzo ad ogni cosa, molte ancora sfuggono alla nostra ossessione di dividere, catalogare, valutare, giudicare. Non si compra, non si vende la possibilità di imparare.
Se osserviamo attentamente, quello che ci conduce nella vita è la possibilità di apprendere e trasformarci attraverso la relazione con ciò che ci è prossimo: dall’insalata che mangiamo, al nostro partner, al nostro collega di lavoro.
Abbiamo eretto su di un piedistallo la competizione, il giudizio, l’affermazione e non vediamo quanto essi avvelenino il nostro animo.
Non vediamo l’evidente: non si può procedere che assieme.
Se osassimo aprire gli occhi su questo, le nostre parole d’ordine diverrebbero: collaborazione, cooperazione, condivisione. Nella vita personale come in quella sociale.

Immagine da http://www.enghea.org/wordpress/?p=1604


separazione

La separazione: il processo nostro, le responsabilità dell’altro

Ogni volta che i cammini delle persone si separano, sempre si ripete un copione che ricalca schemi logori; sempre, o quasi, la nostra attenzione è principalmente rivolta alle responsabilità dell’altro e, solo in seconda battuta, alle nostre.
L’altro con cui abbiamo camminato assieme diviene colui, o colei, che non è stato attento, non ha provveduto, ha prevaricato, ha eroso le basi dello stare assieme.
Nella fase della separazione dimentichiamo facilmente che con l’altro avevamo aperto un’officina esistenziale e che in quella noi facevamo il nostro lavoro, l’altro il suo.
A noi competeva interrogarci e lavorare sulle nostre reazioni, sulle nostre paure, sulle nostre resistenze, sui nostri limiti; all’altro spettava interrogarsi su ciò che la nostra presenza, il nostro modo di essere, il nostro limite suscitava in lui/lei.
Quando i due aprono l’officina comune di una relazione (sentimentale, amicale, comunitaria non importa) riconoscono che ci sono le condizioni per svolgere del lavoro assieme, che ci sono basi comuni, condivise, potenzialmente produttive.
Se non ci sono le condizioni di base non si apre l’officina ma, se questa viene aperta, allora ciò che spetta ai due, nel tempo, è qualcosa di molto articolato e complesso: la capacità di vedersi consapevolmente nelle mille piccole, o grandi, reazioni e dinamiche indotte dalla presenza dell’altro nella propria vita.
Senza sosta l’altro mette a nudo il nostro limite, il nostro giudizio, la nostra aspettativa.
Come lo fa? Semplicemente mostrando se stesso, nei limiti e nelle possibilità che lo caratterizzano come altro da noi.
Quando i due si separano, che senso ha dire: “Perché tu sei così!”, “Perché hai detto e fatto quello!”
Non è mille volte più importante riflettere sul perché non ha funzionato? Sul perché ad un certo punto abbiamo perso di vista il cammino comune e abbiamo cominciato a dare importanza ai dettagli, alle piccole ferite egoiche, al limite dell’altro che si mostrava a noi e non al limite nostro che si mostrava all’altro?
Non possiamo dunque dire niente all’altro, non possiamo imputargli responsabilità, non possiamo aiutarlo a capire anche le sue responsabilità?
Si, possiamo farlo, ma solo dopo aver esposto a noi stessi e all’altro le nostre responsabilità e la comprensione che abbiamo realizzato delle esperienze comuni: solo allora possiamo dire che, forse, quella modalità dell’altro non ci ha aiutati, che quell’attitudine in certi momenti ci ha appesantiti. Possiamo dire limitandoci agli aspetti esistenziali e generali, senza mai puntare il dito: perché?
Per una ragiona banale: ciò che abbiamo vissuto dell’altro non è ciò che l’altro è, ma ciò che è stato necessario che apparisse a noi affinché apprendessimo il necessario per i nostri processi interiori.
L’altro che abbiamo vissuto era il collaboratore efficace interno ai nostri processi: la questione centrale, e reale, è costituita dalle possibilità di apprendimento che ha portato, non dal perché o dal come l’ha portata: il perché e il come erano i mezzi più funzionali al raggiungimento della comprensione a noi necessaria.
La scena è nostra, sul palcoscenico accadono le rappresentazioni importanti per noi: la realtà non è oggettiva, ma squisitamente soggettiva.
Ciascuno dei due attori vive il proprio film personale funzionale agli apprendimenti che gli sono necessari. Là dove uno è l’attore principale, l’altro è la comparsa e viceversa.
Che cosa farà l’altro? Ci riguarda? Si interrogherà, comprenderà? Cambierà? Siete sicuri che ci riguarda, che dobbiamo occuparcene? O non è questione sua, perché sua è la vita e solo al suo sentire risponde?
Concludo.
Ci sono officine, a parer di chi scrive, che non possono essere che chiuse perché troppo faticose.
Ce ne sono altre che è semplicemente sbagliato chiuderle perché non hanno ancora esaurito il loro potenziale creativo.
Ce ne sono altre ancora che è ineluttabile chiudere, perché non abbiamo il coraggio di affrontare ciò che svelano di noi.
Infine, le ultime officine che non possono non essere chiuse, sono quelle che non avevano i presupposti per essere aperte: uno dei due, o tutti e due, non avevano ben guardato in se stessi quando avevano detto si: questo non toglie che non abbiano comunque imparato il necessario.

perdere

L’arte ineffabile di ricominciare nella vita e nella via spirituale

Quando si ricomincia? Quando qualcosa che c’era è stato perduto, ha cambiato forma, ha preso una nuova direzione.
Si ricomincia senza sosta negli affetti, nel lavoro, nella via spirituale.
Non muore, in qualche modo,  tutti i giorni il rapporto con chi ci sta a fianco? Non entra in crisi e ci costringe a riposizionarlo, a rivederlo, a reinterpretarlo?
Non ci costringe senza sosta la vita ad interrogarci, producendo in noi, spesso, una crisi di orientamento, di posizionamento? E poi non seguono una catarsi e infine una rinascita?
Non è così per tutti, in tutte le stagioni della vita?
L’arte ineffabile di ricominciare ha bisogno di un’altra arte, quella del lasciar andare.
Avevo un progetto, una direttrice di sviluppo, un ordine interiore costruito nel tempo e posso, debbo, essere disposto a perderlo.
In un attimo, per le ragioni più varie ma sempre esistenziali, la vita mi sfila il previsto e il prevedibile: zero mi rimane!
Posso lamentarmi per la perdita, o rimboccarmi le maniche.
In una via spirituale non c’è scelta: ci si rimbocca le maniche. Si analizza la situazione, le sue cause, i propri errori e poi si va avanti.
Zero è la nostra piattaforma, il nostro campo base.
Zero è non avere niente di solido per l’appoggio, di dato a priori: è accettare l’impermanenza come ossatura del vivere.
Cambiano le situazioni, accogliamo il nuovo che viene, che c’è e su quello costruiamo le nuove scene, ricominciamo.
Il vento ci porta dove vuole: visti e superati i piccoli attriti, le piccole resistenze della nostra umanità, assecondiamo il movimento imposto dall’imponderabile.
Perdere, accettare, ricominciare.

Immagine da http://www.lessissexy.com/?p=2718


Alcune considerazioni sul male e sulla malattia

Quando ho tempo e risorse, leggo ciò che scrivono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi. Appartengono entrambi ad un mondo culturale molto lontano dal mio, ma li sento vicini nel sentire o, perlomeno, così mi pare che siano.
Ho seguito la discussione tra Mancuso e Veronesi sulla malattia e sul male (l’ultima, poco più di una settimana fa, ospiti di Fazio) e, in sincerità, mi è sembrato il dialogo di due ciechi che parlano della luce. Mi duole dire questo, lo faccio senza spirito polemico, senza pretesa di essere colui che ha visto la risposta; osservo con umiltà e con un dolore dentro questo girare attorno a questioni mal poste e come tali prive di risposta.
Da tempo volevo scrivere qualcosa sul male, su quello che gli umani chiamano male perché, dal mio punto di vista, esso non è altro che una lettura della realtà, una interpretazione: non un fatto, né una forza.
Semmai è un processo: anche la vita è un processo, non le mettiamo sopra un’etichetta univoca che la giudica, la definisce e non lo farei nemmeno nel caso del processo-male.
Il male è l’assenza del bene?
E cos’è il bene? Lo stato di salute fisica e mentale? L’unità dell’essere? La pace interiore e sociale?
Se desidero la pace, tutto ciò che non è pace rappresenta un problema.
Se sono consapevole che la pace è il frutto di un processo che dal conflitto conduce alla pace, allora mi si apre un mondo.
In questa ottica, il conflitto diviene una delle componenti del processo senza la quale non è perseguibile, né realizzabile la condizione di pace.
La pace assoluta contiene in sé tutti gli stati di pace relativi, limitati. La pace assoluta matura attraverso la pace relativa, l’assenza di pace.
Bene, male sono solo definizioni di condizioni che, in sé, sono processi, divenire, stati del sentire dove il più ampio contiene il più limitato.
Più a fondo, non esiste il processo del bene, né esiste il processo del male, esiste il processo del vivere la vita, del prendere forma e del dispiegarsi di questa ed, infine, del suo venire riassorbita.
Esistono dunque i fatti che vengono giudicati a seconda del paradigma di ognuno: il problema è lì, nel paradigma che considera la mancanza, il limite come male piuttosto che come condizione-dell’esistente-attraverso-la-quale-si manifesta-il-compimento.
Il compiuto contiene il limitato, il particolare, il frammento; l’assoluto contiene il relativo; la libertà contiene i mille gradi della non libertà.
Non esistono libertà e non libertà, esiste solo il processo della libertà: ogni non libertà prepara un grado superiore di libertà, anch’esso non libertà, fino a germogliare nella libertà assoluta che contiene in sé, che è costituita, da tutti i gradi di libertà possibili.
Se io sono nella condizione di manifestare un grado di libertà, di discernimento, di altruismo limitati, è questa una mia colpa? O non è invece lo stato dell’arte, ciò che mi svela, ciò che parla di me e mi indica la strada?
Il limite è il mio male, o la più grande delle mie possibilità?
Il limite, non denunciando una colpa, ma uno stato del sentire, cos’altro è se non il mio specchio più utile, più efficace, più trasparente, più trasformante?
Nel pensiero corrente il male viene associato alla malattia: la malattia è male. Giudicata, etichettata, archiviata, chiusa la discussione. Senza aver spiegato niente e aver capito e compreso niente. Ma pare su questo sia duro discutere, le resistenze interiori sono forti, i bastioni culturali a difesa, alti.
Sarebbe così semplice: come i fatti e i pensieri parlano di me, così pure i processi dei miei corpi parlano di me.
Scusate, ma di chi dovrebbero parlare? Pare non sia accettabile, pare sia più accettato parlare di origine ambientale, o sociale, o casuale della malattia. O di uno squilibrio non meglio definito nel sistema, magari di origine cromosomica. Si la chiave è lì, c’è un errore nel dna e così abbiamo risposto a tutto, quando non sappiamo rispondere a niente, tiriamo fuori la parola magica.
Ma non voglio parlare di ciò che non mi compete e su cui non ho competenze, mi sembra però evidente che il dna è anch’esso una risultante, il frutto di un processo.
Quando un programmatore, attraverso il linguaggio html, o altro, articola un programma, lo fa partendo da un’intenzione e da uno sviluppo di essa: quell’insieme di codici diviene poi qualcosa di fruibile ai sensi fisici umani passando attraverso una serie di mediatori. Se c’è qualcosa che ci appare come un errore nel codice, o l’ha fatto il programmatore contro la propria intenzione, oppure non è un errore, è un fatto, qualcosa di peculiare a quel programma.
La malattia è un errore? E’ un male? E’ una colpa?
La malattia è un fatto, un simbolo che narra la realtà. Quale realtà? La realtà esistenziale della persona.
La malattia non è un fatto esterno che si insinua nel nostro interno: parla di noi, dei nostri squilibri esistenziali, identitari, fisici, relazionali.
Noi e la malattia non siamo due, in sé non esiste alcuna malattia, se Roberto ha la febbre quella è la condizione esistenziale di Roberto quel giorno, quello è il Roberto di quel giorno. Quella febbre racconta qualcosa, svela qualcos’altro: è uno spot che illumina un particolare con l’intento di ricondurre a qualcosa che particolare non è, che ha caratteristiche esistenziali.
La stato che definiamo comunemente di malattia, sia fisica che psichica, è il principale indicatore, il più eclatante nel denunciare che in noi qualcosa non va: l’errore grossolano che commettiamo, è di considerare un organo, ammalato, un comportamento, sbagliato, senza cogliere il valore del sintomo che ci dice: “Sono il dito che indica la luna, il piccolo fatto che denuncia il processo!”.
Non abbiamo nessun paradigma maturo per leggere la malattia come simbolo esistenziale, ma molto è stato già fatto in alcune visioni alternative, ottusamente negate dai custodi ammuffiti dell’ortodossia.
Non abbiamo ancora gli strumenti, l’apertura mentale, l’umiltà, le comprensioni che che ci illuminino sul “dono” della malattia e del male.
Dono inteso come possibilità evolutiva, come chance di cambiamento presente e attiva, come simbolo ineludibile, come occasione che conduce a frutto.
Siamo lontani da questo, molto.
Per ora posso terminare qui; non volevo altro che avviare una riflessione; in me la visone è chiara, ma voglio che gli elementi di una evidenza si costituiscano nell’interiore di ciascuno come frutto di un processo sviluppato assieme. Se mi sarà possibile tornerò su questi argomenti in futuro.
Ho iniziato a scrivere questo post mosso dallo scoramento prodotto in me dal brano di Enzo Bianchi che sotto, in corsivo, riporto; in particolare dalla frase: “Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.”
Parole che mi procurano dolore nel loro essere così lontane dalla comprensione di un’evidenza.

Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre (Mc 1,29-39) può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio. Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi. Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8)
Brano tratto da: http://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/8942-come-gesu-cura-e-guarisce


andarsene

La morte di un figlio

La morte di un figlio è la morte di un mondo, del mondo che quei genitori hanno conosciuto dal momento che è nato.
Le febbri e le paure; i primi passi e le prime parole; il primo natale. Il momento di addormentarsi, le parole di una storia, il rimbocco delle coperte, il chiudere la porta senza far rumore.
Una moltitudine di momenti è inscritta nell’interiore dei genitori e ciò che si è impresso nel divenire del tempo, ora muore in un attimo.
Un genitore non è mai pronto per la morte di un figlio. Mai.
Perché? Perché il perdere è un processo, ha bisogno di tempo, di un lento lavoro di trasformazione e di comprensione che avviene nel sentire.
Quando un figlio se ne va nell’arco di poche ore, il genitore precipita in un abisso; quando il processo dell’andare via è progressivo e lento, nell’intimo del genitore accadono molte cose, lo sguardo pian piano si allarga, quella perdita annunciata può essere contestualizzata, assorbita non credo, è difficile.
Il risultato finale sarà sempre lacerante, ma di una natura diversa.
Ho usato, non a caso, l’espressione “quando un figlio se ne va”.
Un figlio viene, un figlio va: siamo coloro che pensano di avergli dato la vita, e certamente è così perché nostri erano quell’ovulo e quello spermatozoo, ma quel figlio non è mai stato nostro, siamo stati gli strumenti di un progetto esistenziale, il suo, che in noi ha trovato le condizioni ambientali ed esistenziali per poter accadere e manifestarsi.
Un figlio è della vita.
Un figlio è una coscienza che si incarna in un corpo, in un ambiente, in un tempo.
Un figlio non è mai dei genitori, è un processo esistenziale che procede a fianco dei loro processi esistenziali, perfettamente autonomo pur nella relazione profonda e nell’intreccio delle esistenze.
La piccola identità di un figlio che cresce non è autonoma, ma il progetto esistenziale lo è sempre e segue le propri logiche, il proprio tracciato esistenziale.
Quando un figlio se ne va obbedisce alle logiche di quel processo: non al caso obbedisce, non alla sfortuna, non alla malattia.
Un figlio non muore per caso, non per colpa di qualcuno.
La morte di un figlio non è un’ingiustizia, è il compimento di un processo di una coscienza che mai è stata nostra: ci ha accompagnato nei giorni e negli anni e, quando è stato il suo tempo, non un’ora prima, ha concluso il proprio ciclo.
Un figlio che muore non soffre, nessuno quando muore soffre né per il passaggio, né per la separazione: ciò che l’attende è molto più vasto di ciò che lascia, intriso di comprensione, di compassione, di un vivere e sperimentare nuovi.
Un genitore perde il proprio mondo conosciuto; non essendo mai pronto, precipita nell’abisso della mancanza, dell’amputazione, dell’ingiustizia.
Ci vorrà del tempo, la forza di reggere l’impatto, un lavoro su di sé teso a capire e a comprendere per non coltivare solo il rifiuto dell’apparente follia dell’esistenza.
Ci vorrà del tempo e il tentativo di accogliere il disegno dell’esistenza sul figlio andato e su di sé, che resta e che deve vivere questo dolore, questo passaggio, questo perdere una vita e non riuscire a trovarne un’altra.
Un’altra vita verrà e potrà essere piena di compassione e di comprensione, se quel genitore avrà aguzzato lo sguardo nella profondità del processo esistenziale che l’ha travolto, se non si stancherà di indagare il proprio sentire, se non si fermerà a risiedere nel proprio dolore.
Quando un figlio muore, quel figlio consegna ai genitori, attraverso un processo molto doloroso, una nuova vita fondata sulla conoscenza, sulla consapevolezza, sulla comprensione.

Immagine da http://goo.gl/vGb8Mr


 

collaborazione

Il terrorismo, la disgregazione, la via all’essenziale

C’è un dibattito ampio che coinvolge le persone con sensibilità religiose e laiche sulle scelte da fare, sui cambiamenti da operare per evitare che la mala pianta dell’intolleranza e della violenza si riproduca.
Le tesi sono molto articolate, dal mio punto di vista è particolarmente interessante quella che vede nei processi di disgregazione e di marginalizzazione sociale una delle origini.
Ma anche questa contiene un limite: le spaventose ingiustizie e l’iniquità intollerabile nella distribuzione della ricchezza servono a creare un clima di coltura ma, in sé, non posso scatenare ciò che non ha i presupposti per essere scatenato.
Se, esistenzialmente, a me non è necessaria l’esperienza della violenza, non la genererò. Se mi è necessaria, allora certamente l’ambiente nel quale sono inserito la favorisce e mi accompagna funzionale alla sua manifestazione.
Questa tesi, che sostengo, parte naturalmente da un presupposto: l’essere umano non è la conseguenza dell’ambiente nel quale cresce e si struttura ma, al contrario, è il fattore che quell’ambiente crea.
Una società prevaricatrice, iniqua, ingiusta fin nelle midolla non è generata da un manipolo di male intenzionati e di egoisti, è il frutto del sentire comune e ampiamente condiviso.
Il terrorismo, le esasperazioni spaventose del capitalismo (che pari per gravità e responsabilità sono) manifestano in modo eclatante un limite nel sentire individuale e collettivo: non sono l’origine, sono il frutto simbolico eclatante di un processo, di uno stato dell’interiore che riguarda tutti.
Qual’è la soluzione a mio parere?
Non continuare a dire sciocchezze sull’Islam; non limitarsi alla sola analisi sociologica dei fenomeni; non guardare al dito piuttosto che alla luna.
Qual’è la luna? Il deficit di sensibilità, di responsabilità, di altruismo che accomuna tanti di noi, la maggior parte di noi.
Cosa fare? Una cosa molto semplice: mettere al centro l’essenziale.
Cos’è essenziale? Il processo della conoscenza, il processo della consapevolezza, il processo della comprensione.
Questo essenziale non ha connotazione religiosa, né laica, precede semplicemente l’una e l’altra, è la cosa più naturale all’umano, è già quanto esso sta vivendo ma, siccome lo vive in modo inconsapevole, non sa governarlo e non sa eliminare da esso gli aspetti più dolorosi.
La conoscenza di sé e della vita è l’essenziale; la conoscenza delle relazioni e di ciò che esse portano, è l’essenziale; la consapevolezza dei processi mentre accadono, il vederli e il vedersi, è l’essenziale.
Dalla conoscenza e dalla consapevolezza coltivate come disposizioni centrali del proprio vivere, sorge la comprensione, il suo processo: ogni esperienza produce apprendimento e ciò che è appreso e compreso non verrà replicato tal quale, ma produrrà frutto nuovo, possibilità creativa nuova.
E’ così che si superano la violenza, l’intolleranza, l’egoismo sfrenato, la sopraffazione, la stupidità frutto dell’ignoranza di sé.
E’ un cambio di paradigma che questo tempo ci richiede: dalla centralità dell’egoismo e della persona/natura/merce, alla centralità del conoscere, dell’essere consapevoli, del comprendere attraverso la collaborazione, la condivisione, il rispetto.
Questa mi sembra la via per l’immediato e per il futuro, una via con un basso tasso di dolore.

Immagine da http://goo.gl/yfj4kF


Il principio di responsabilità nell’adulto-bambino

In questo articolo trovate l’epilogo della vicenda riguardante l’assenteismo di massa dei vigili urbani di Roma a capodanno.
Non voglio parlare delle manchevolezze nella coscienza dei membri di questo paese, sarebbe come infierire contro quel parente che ha un deficit mentale e pretendere che comprenda quel che non può.
Voglio invece considerare come un fatto che esistano adulti-bambini nella responsabilità: voglio considerare inoltre che questa può essere la caratteristica, purtroppo saliente, di una parte rilevante di un popolo.
Una coscienza che ha già sviluppato in sé le comprensioni necessarie al comportamento responsabile, non sceglie come teatro della propria rappresentazione questo paese, non per lavorarvi quel principio.
Ne consegue che, evidentemente, coloro che abitano qui, hanno bisogno di un tirocinio attorno all’esercizio della responsabilità: come avviene questo tirocinio?
Nel modo più doloroso: pagando il prezzo della propria irresponsabilità.
C’è un modo di procedere diverso, meno doloroso, più efficace?
Prendere atto che molti individui di un popolo hanno un problema serio con il principio di responsabilità e decidere che una sana pedagogia è quella che sa creare il giusto equilibrio tra educazione e sanzione.
Da tempo pensiamo solo a punire e, nei fatti, non puniamo nessuno; tra l’altro, se punisci qualcuno che non ha compreso quale sia il suo errore, quello rifarà esattamente ciò per cui l’hai punito.
Poco e niente abbiamo investito sul fronte dell’educazione: lo sviluppo di pedagogie e didattiche che in famiglia, a scuola, nella società in genere plasmino l’interiore, le comprensioni e i comportamenti.
Nel tempo, con gradualità, si dovrebbe cercare di convincere, di far crescere, di far emergere dall’intimo ciò che esiste in forma di embrione in ciascuno: è questa la funzione dell’educazione, funzione smarrita da tempo, soffocata dalla logica delle nozioni e delle quantità, a discapito della qualità della conoscenza, con la conoscenza e consapevolezza di sé al centro.