coscienza

La coscienza crea la realtà

Per quanto ci sembri irreale, non siamo noi, piccoli portatori di nome, a creare la realtà.
Noi stessi siamo creati attimo dopo attimo, fotogramma dopo fotogramma, dal sentire di coscienza.
Tutte le scene che viviamo, tutti gli affetti, tutti i progetti, tutte le mansioni sono generate dal sentire.
Quale realtà crea la coscienza? Quella possibile, compatibilmente con le comprensioni acquisite e con quelle da acquisire.
Siamo dunque solo burattini? No, se comprendiamo che identità e coscienza sono unità inscindibile.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

discernimento

“Segui il tuo sentire!”

Quello riportato nel titolo è uno dei consigli più usati e più abusati, scodellato indistintamente a persone con una elevata capacità di discernimento, come a persone che nel discernimento difettano palesemente.
In sé l’affermazione è ineccepibile: l’umano dovrebbe seguire il proprio sentire di coscienza, senza sosta dovrebbe affidarsi alla parte più profonda di sé e su essa confidare.
Domanda: quanta è la capacità dei singoli di ascoltare e discernere chiaramente e consapevolmente l’indicazione esistenziale che sorge dal sentire?
Non molto alta, spesso decisamente bassa a mio parere. Le persone seguono a volte i loro istinti primari, altre le proprie sensazioni ed emozioni, altre quello che dice la loro mente: tutto questo ha relazione con il sentire, a volte lo esprime, altre lo vela o, addirittura, lo ottunde.
Allora, come si ascolta e decodifica il sentire che affiora dalla coscienza?
1- Facendo spazio dentro di sé: lasciando che sensazioni, emozioni, pensieri non occupino tutto lo spazio della consapevolezza;
2- disponendosi ad osservare, ascoltare, accogliere ciò che emerge dal silenzio di sé, da quegli spazi che si aprono tra pensiero e pensiero, tra pensiero ed emozione;
3- distaccandosi dall’identificazione con i propri vissuti, con i propri processi, con i propri dolori;
4- dubitando radicalmente di ciò che la propria mente dice e della lettura che diamo della realtà con la quale siamo identificati;
5- dandoci tempo, non prendendo decisioni affrettate, non obbedendo a degli impulsi;
6- osservando i propri comportamenti e abituandosi a leggerli nel loro portato simbolico;
7- analizzando i propri sogni e, con tutte le prudenze del caso, interpretandone il significato simbolico relativo ai processi dell’identità come a quelli della coscienza;
8- chiedendo consiglio, facendosi accompagnare, se necessario;
9 – osservando la realtà che ci accade nel quotidiano, in famiglia, sul lavoro: ogni fatto parla di noi e ci svela nei nostri meccanismi e nelle nostre sfide esistenziali.
Alla luce di questa consapevolezza diffusa di sé, di questo sguardo profondo sui processi, la capacità di ascolto del proprio sentire sarà divenuta sufficientemente nitida da permetterci di operare un discernimento sensato e delle scelte ponderate alla luce del reale e di ciò che esistenzialmente è bene per noi.


Immagine da http://goo.gl/TWZ7oZ

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

senza orizzonte

La nostra vita senza obbiettivi

Per molti anni ci siamo alimentati e dissetati alla fonte dell’amore che provavamo per il nostro partner: ci dava senso, esperienza, orizzonte.
Per tanto tempo il nostro lavoro è stato la nostra vita. Le nostre mansioni, la nostra funzione, le relazioni erano il nutrimento delle nostre giornate.
Quando tutto questo, e molto altro, viene meno, oscilliamo tra il non senso e la depressione che incombe.
Quando non abbiamo più adesioni a qualcosa e siamo privi di obbiettivi, di cosa si sostanzia il nostro vivere? Che cosa ci rimane?
Quello che abbiamo.
Quello che accade.
Quello che si presenta e ci chiede di essere vissuto.
Dobbiamo riconvertirci dall’essere protesi, dall’incessante edificazione di una interpretazione della realtà che ci gratifichi, al ciò che è, al ciò che accade.
Dal sogno dell’esserci, alla realtà dell’essere.

Immagine da http://goo.gl/t6xYtY



Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

Coloro che se ne vanno di loro volontà

Un nostra amica, scossa dal suicidio di una giovane donna, Silvia, mi chiede una parola. Che cosa l’ha portata alla determinazione di appendersi ad un albero con il suo foulard?
Non lo sapremo mai: anche quelli che la conoscevano, poco sapevano di lei.
Tutti, poco sappiamo del nostro prossimo. Tutti, senza eccezioni.
Perché? Perché ciò che vediamo e cogliamo non è ciò che è, ma ciò che per noi è necessario che sia.
Dunque dell’altro non cogliamo la sua realtà, ma il suo essere comparsa sul set del nostro film.
Se non si guarda la realtà in quest’ottica, si coltiva la pretesa di capire, di sapere, magari di essere responsabili di qualcosa.
Viviamo, lavoriamo, condividiamo la vita con delle persone e, alla fine, magari attraverso un gesto inaspettato e tragico come il loro suicidio, ci accorgiamo che di esse non conoscevamo niente.
La lezione? Ridimensionarci nella nostra pretesa assurda di conoscere l’altro da noi.
Silvia, ha posto fine alla propria vita in anticipo? Si, secondo le menti; no secondo la coscienza.
Nel disegno del proprio sentire, Silvia ha finito il proprio calendario nell’ultimo giorno previsto, come tutti.
A 41 anni è morta suicida; a 41 anni sarebbe comunque morta di altro.
Non è questo, evidentemente il nodo problematico: di fronte a qualcosa che la faceva soffrire – e se la faceva soffrire è perché quel qualcosa non l’aveva compreso – invece di affrontare la situazione, di continuare a vivere le esperienze e a lottare dentro di esse, si è arresa.
Evidentemente per lei la misura era piena; evidentemente doveva anche muovere la causa del morire suicida per apprendere dagli effetti di quella causa mossa, per comprendere che di fronte alle sfide del non compreso bisogna, da un lato saper lottare, dall’altro saper accettare il limite, il dolore, l’assurdità delle situazioni, la propria o altrui inadeguatezza.
Non sappiamo che cosa Silvia andrà ad imparare, sappiamo che la vita è apprendimento e bisogna trovare un modo di starci dentro senza farsi a pezzi, senza portare le situazioni al limite della sopportabilità del dolore.
Alla nostra amica che ha posto la questione: guardando Silvia, comprendi l’importanza del nostro cammino che cerca di offrire la prospettiva di un senso al vivere e al soffrire?
Quella vita così giovane e generosa che tu vedi scomparire al tuo sguardo e alla tua compagnia, non scompare invano: in tutti voi che l’avete conosciuta, in tutti noi che ne trattiamo, insinua un tarlo, una domanda, un dubbio, un invito ad andare più a fondo nella vita, nella conoscenza, nella ricerca di senso.
Non scompare invano per sé, perché la radice di quel gesto, e il gesto stesso produrranno processi e insegnamenti nella vita futura della sua coscienza.
Accogli, cara amica, il tuo dolore e il tuo sgomento ma non farti travolgere: impara da ciò che accade, senza indulgere su di te e sul tuo soffrire.

Immagine da http://goo.gl/zQew1R


scarabocchio

Quando un genitore muore e lascia dei figli piccoli

Accade che una madre, o un padre, debbano separarsi dai loro figli quando questi sono ancora piccoli e avrebbero bisogno di quella presenza al loro fianco.
Un genitore deve lasciare per diverse ragioni: perché muore; perché si separa in malo modo; perché emigra.
Qui ci interessa trattare il primo caso. Accade di morire giovani, con figli ancora piccoli.
Molte volte abbiamo detto che nessuno muore prima che il proprio calendario sia finito: non un giorno prima.
Ma chi resta, come fa? Come fanno quei bambini senza più quel volto, quella presenza, quelle attenzioni, quella mano che li accompagna?
Sono di quel genitore, quei figli? Sono di quella madre, di quel padre? Siete sicuri?
Oppure quella madre, quel padre sono stati gli strumenti attivi di un progetto esistenziale che li precede e che va ben oltre loro?
Un figlio è, dal nostro punto di vista, un progetto e un processo che contempla la presenza del genitore, ma non è da essa condizionato.
Cosa significa? Che quel progetto/processo proseguirà comunque, a prescindere dalla sopravvivenza di coloro che l’hanno avviato, perché quel processo è esistenziale e si sostanzia nella relazione, nelle esperienze, nel tempo, nella conoscenza, nella consapevolezza, nella comprensione: la scomparsa di quel genitore impatta nell’esistenza del figlio, ma non la stravolge nel suo impianto esistenziale.
Quell’impatto così duro è tale da condurre allo smarrimento, o non è invece una condizione orientante, esplicitante  e rivelante il processo stesso?
Un genitore morendo toglie qualcosa a quel figlio o, invece, dona qualcosa che, dal momento che accade, è già dentro l’ecologia di quel tracciato esistenziale che lo accoglie: non che lo subisce, ma che, nel profondo, lo accoglie perché anche quella separazione è la sua vita.
Dona il genitore, attraverso il trauma della separazione, una possibilità di conoscenza-consapevolezza-comprensione nuove alle proprie creature?
Quel seme che muore, nel tempo darà vita?
Noi, nella nostra limitata visione, diciamo che nulla accade a caso: né il nascere, né il morire, né il perdere una persona amata.
Coloro che rimangono saranno certamente i più adatti a prendere per mano quei figli e ad accompagnarli là dove essi non possono che andare; questo perché il processo esistenziale di ciascuno di noi non dipende dagli altri e sempre, nell’ambiente di relazione, trova le risorse necessarie al perseguimento del proprio scopo esistenziale.

Immagine da http://granellidipsicologia.com/2013/01/


 

realtà soggettiva

La realtà soggettiva, la realtà oggettiva

Vi invito vivamente a leggere e a riflettere su questa parole che giungono da una fonte quantomai autorevole, il Cerchio Firenze 77: qui potete scaricare l’intero testo in pdf.

FRANCOIS – Degli altri voi non vedete la realtà del loro essere, ma vedete quello che appare. Ciò significa che vedete, al massimo, quello che gli altri mostrano di sé.
Non solo, ma anche l’immagine che gli altri danno dl se stessi può essere da voi distorta, può essere esaltata o peggiorata.
Così che quando vi innamorate di qualcuno, vi innamorate di una immagine. Chissà se il vostro innamoramento potrebbe persistere se di chi amate conosceste non l’immagine, ma la realtà.

DALI – Il fatto che gli altri vi mostrano solo un’immagine, e non la realtà, è talmente vero che si può dire sia una pura coincidenza che, talvolta, le intenzioni degli altri corrispondano alle intenzioni che voi credete che gli altri abbiano.
Il più delle volte, invece, voi attribuite agli altri intenzioni che gli altri non hanno; oppure non vedete le loro vere intenzioni e su quello che voi pensate che gli altri siano, sull’immagine che di essi vi siete fatti, costruite la vostra relazione con loro, il vostro mondo. Non crediate che quello che io dico si riferisca a casi o persone limite: è cosa di tutti e di tutti i giorni.

KEMPIS – Quindi, gli altri non sono importanti per voi a condizione che riusciate a cogliere la loro vera realtà, il loro vero essere; ma sono importanti per le reazioni che in voi riescono a suscitare; e le suscitano solo se voi siete sensibili a quegli stimoli che essi volontariamente o involontariamente vi inviano.

DALI – Perciò gli altri sono per voi come una sorta di specchio; essi possono su voi solo ciò che voi permettete che possano. Ma non “permettere ” nel senso di ” concedere “, cioè come colui che ha un’autorità e che accondiscende a qualche richiesta; ma ” permettere ” nel senso di lasciare che gli altri abbiano presa su voi, essere in loro balìa; che poi, invece, è spesso essere in balia della propria immaginazione e della propria debolezza.

KEMPIS – Gli altri, per voi, non sono tanto creature reali quanto immagini costruite dalla vostra mente, spesso animate dalla vostra immaginazione. Ma sono proprio quelle immagini e proprio quel processo che le crea, che fa sì ch’esse meglio si adattino ai vostri bisogni evolutivi, che rende le relazioni degli uomini altamente produttive ai fini della maturazione della coscienza individuale. […]

CF77. Estratto dal libro “le Grandi verità ricercate dall’uomo” – Edizioni Mediterranee.
Tratto da: http://is.gd/R0WhfL

amore

La natura dell’amore

Vito Mancuso parla di amore come fenomeno che si sviluppa nella dipendenza, nel possesso, nella esclusività.
Alla fine del post trovate i brani salienti evidenziati e nel link l’intera intervista a Franco Calabrò in pdf.
Vito, nel parlare dell’amore, parla di ciò che noi chiamiamo affetto e che è, per sua natura, condizionato dai bisogni delle identità che condividono l’esperienza.
Se fosse solo questo, sarebbe una questione di termini e di niente altro. Ma Vito dice che è nella logica cosmica dell’amore essere l’agente che lega, che crea dipendenza e possesso.
Qui fa una notevole confusione e temo non abbia visto bene: l’amore attiva il processo dell’incontrarsi, dell’aggregarsi e attraverso quel processo conduce al superamento di ogni dipendenza e di ogni possesso.
L’amore è processo creativo innescato da una forza unitaria, non duale: quella forza, quando impatta con l’umano, diviene processo che da un punto conduce ad un altro punto, essendo tutto nell’umano soggetto al divenire e al tempo.
L’amore conduce due persone ad incontrarsi, ad innamorarsi, a vivere la stagione della maturità affettiva condizionata ancora dal bisogno uno dell’altro, da un certo tasso di dipendenza, da una possessività di vario grado: tutto questo è mosso da quella forza chiamata amore, ma non la esprime; certo, forse, per sommi tratti, la prefigura.
Siamo ancora lontani dall’amore perché ancora alto è il condizionamento che le identità introducono.
Molti di noi arrivano a miglior vita che mai hanno, se non per lampi e frammenti, vissuto l’esperienza dell’amore.
L’amore nulla ha a che fare con la dipendenza.
L’amore nulla ha a che fare con il possesso.
L’amore nulla a che fare con l’esclusività.
Quando la persona sperimenta l’amore non può dire: “Io amo!” perché l’amore non ha un soggetto, né un oggetto.
L’amore è un’esperienza che nella gratuità sorge e diviene sperimentabile, e nella gratuità tramonta e ci lascia dentro ai nostri piccoli attaccamenti.
L’amore è la forza che ci conduce ad incontrarci, ad intrigarci, a collaborare, a condividere e, mentre viviamo questi processi, ci rende liberi dalla dipendenza, dal possesso, da noi stessi.
Man mano che l’amore si innerva in noi, trasforma l’intero ambito del nostro vivere, delle nostre relazioni, del nostro essere.
Alla fine, quando la sua azione è giunta a maturità, l’amante e l’amato sono scomparsi come soggetti che possono affermare: “Io ci sono, io amo”.
L’esperienza dell’amore è, allora, universale e copre tutti gli esseri e tutte le creature.
La coppia non esiste più in quanto tale e i due, se hanno proceduto nella comprensione assieme, sono testimoni dell’amore senza nome che accade.


Intervista a Vito Mancuso di Paolo Calabrò
[…] Questo a significare che, quando parliamo dell’amore, parliamo certamente di un sentimento – è chiaro che la prima manifestazione dell’amore sia il sentimento, all’interno del mondo degli umani – ma questo sentimento a sua volta rimanda a quella logica di cui ho parlato finora: cioè quella logica cosmica che porta gli enti ad aggregarsi ad altri enti, quelli piccolissimi come quelli grandissimi.

Se si tratta di una cosa così innata e intrinseca a tutto ciò che esiste: perché è così difficile vivere liberamente e serenamente l’amore? Perché l’uomo rimane invischiato nelle tante autocensure e regolette morali tipiche della nostra cultura? Soprattutto: si può venirne fuori? È infine possibile vivere l’amore come libertà?

Comincerei col chiarire che è colpa della cultura soltanto in parte: è vero che sono tante le istanze culturali che tendono a trasformare il “fiore” dell’amore, sbocciato spontaneamente nel campo, in fiore di serra, e poi in pianta d’appartamento (​ride);​in una parola, a irregimentarlo. Però qui occorre chiedersi: com’è che queste regole sopravvivono al passare dei secoli, delle organizzazioni collettive e delle morali? Una parte va certamente addebitata alla società, che non è perfetta. Ma a mio avviso tutto nasce ancor più a monte, da quel sentimento delicatissimo e peculiare che è l’amore e che non è indipendenza. Se lo si guarda più da vicino si scopre che il senso del precetto, della legge, della convenzione, non nasce semplicemente dall’imposizione eteronoma di una società cattiva: esso sorge piuttosto dalla dimensione più viva che è alla radice del fenomeno dell’amore, che è un fenomeno di dipendenza: si vuole che l’altro – o l’altra – dipenda da noi. E il legame (o il legaccio, se vogliamo evidenziarne l’aspetto negativo) è già insito in esso: ciò spiega come mai gli esseri umani, ancora oggi, si leghino tra di loro. In passato c’era il clan che assegnava a ciascuno il marito o la moglie, e c’era tutta una struttura sociale che in maniera pervasiva legava il singolo dalla nascita alla morte: non c’era spontaneità nell’amore, i matrimoni erano programmati eccetera eccetera. Ma oggi non è più così, almeno in Occidente: e tuttavia gli esseri umani sentono ancora il bisogno di legarsi. Perché dunque è così difficile ritrovare quella spontaneità originaria, oggi, dove la libertà individuale lo permetterebbe? Perché si tratta di un equilibrio delicato, perché se c’è l​’amore -​vorrei precisare che non sto parlando d​egli amori (che è tutto un altro campo, anch’esso a suo modo interessante per l’esplorazione intellettuale), dell’avventura, quella di cui canta Battisti, dove meno legacci ci sono, meglio è – insomma, se c’è l’amore, cioè quel sentimento assoluto che provoca un’attrazione irresistibile, allora c’è, per così dire a​automaticamente anche il desiderio del possesso, dell’esclusività. Quando questa cosa viene meno, si può probabilmente dire che anche l’amore, nel senso più pieno, sia venuto meno (del resto non c’è da sorprendersi: l’amore è energia, è qualcosa che va e che viene), o che forse sia entrato in una nuova fase del suo sviluppo. […]


Primi passi nel Sentiero contemplativo

Ciclo di incontri introduttivi alla visione della vita, di sé, delle relazioni proposta dal Sentiero contemplativo.
Il percorso formativo è rivolto:
– a coloro che vogliono introdursi alla conoscenza di sé e sono disposti ad affrontare il proprio vittimismo, a divenire artefici della propria vita, a trovare l’essenza del proprio essere che si svela solo nell’accoglienza piena del proprio limite;
– a coloro che, nella piena espressione di sé, sono disposti a scoprire la propria irrilevanza;
– a coloro che già frequentano il gruppo L’essenziale e sentono la necessità di formarsi maggiormente sui temi di base della via interiore e del Sentiero contemplativo.

Il percorso è normalmente costituito da 3 o 4 incontri dopo i quali si può frequentare il gruppo di approfondimento L’essenziale.

Conduzione: Roberto Olivieri.
Le date verranno decise insieme ai partecipanti.
La durata di ogni incontro sarà di 90-120 minuti.
Il percorso è gratuito e si svolge presso l’Eremo dal silenzio a San Costanzo (PU); inizia quando c’è un numero sufficiente di partecipanti.

Per informazioni: eremo@contemplazione.it
Il calendario di Primi passi attualmente in corso.

Le persone che si iscrivono incontrano preliminarmente e individualmente il conduttore: senza questo incontro l’iscrizione non avrà seguito.
Dopo essersi iscritti occorre fissare una data per l’incontro individuale scrivendo a eremo@contemplazione.it, o telefonando al 327 3967523.

Per iscriversi compilare il modulo sottostante.

Immagine da http://is.gd/mTXel9


Tutti procediamo assieme collaborando, cooperando, condividendo

Potremmo imparare qualcosa senza l’altro da noi?
Potremmo divenire persone diverse e migliori se non incontrassimo tutti i giorni qualcuno di diverso da noi che ci svela nei nostri limiti, che si svela nei suoi, che a volte ci è di esempio positivo, altre negativo?
Potremmo respirare senza l’aria?
Potremmo mangiare senza l’orto e chi lo coltiva?
Potremmo conoscere la dolcezza di un bambino che ci chiama se non avessimo aperto la nostra vita a lui?
Potremmo vedere il nostre egoismo se non incontrando qualcuno che ci chiede qualcosa?
Tutta la nostra vita è il frutto gratuito della relazione: sebbene noi si sia dato un prezzo ad ogni cosa, molte ancora sfuggono alla nostra ossessione di dividere, catalogare, valutare, giudicare. Non si compra, non si vende la possibilità di imparare.
Se osserviamo attentamente, quello che ci conduce nella vita è la possibilità di apprendere e trasformarci attraverso la relazione con ciò che ci è prossimo: dall’insalata che mangiamo, al nostro partner, al nostro collega di lavoro.
Abbiamo eretto su di un piedistallo la competizione, il giudizio, l’affermazione e non vediamo quanto essi avvelenino il nostro animo.
Non vediamo l’evidente: non si può procedere che assieme.
Se osassimo aprire gli occhi su questo, le nostre parole d’ordine diverrebbero: collaborazione, cooperazione, condivisione. Nella vita personale come in quella sociale.

Immagine da http://www.enghea.org/wordpress/?p=1604