Un intensivo è il tempo e il luogo del perdere, non del guadagnare

Dal 6 all’8 giugno il prossimo intensivo del Sentiero contemplativo sul tema: “Nel mondo, ma non del mondo e l’esperienza della compassione“.
Che i partecipanti abbiano partecipato a dieci intensivi o a nessuno, la sfida di tutti è la stessa: disporre il proprio interiore ad un’esperienza fondata sulla sottrazione, sul lasciar andare, sull’accogliere, sul flettersi, sulla disponibilità a non ancorarsi a sé essendo disposti a lasciare il molo del proprio attracco.
La disposizione interiore deve essere simile a quando dalla città, o dal paese, imboccate una strada che rapidamente vi porta in campagna incontro alla prima vegetazione sparsa e poi, man mano, sempre più fitta fino a divenire un bosco d’alto fusto, con le piante distanziate tra loro, la penombra, il terreno piano che favorisce il passo rilassato, la voce degli uccelli in lontananza.
Potete fermarvi da qualche parte e semplicemente stare.
Tre giorni insieme saranno uno stare, un risiedere, un semplice fluire: dall’alzata del mattino alla sera il silenzio accompagnerà le nostre esperienze, la vicinanza degli altri sarà discreta, la consapevolezza pervadente e priva di sforzo.
Giorni senza essere protesi da nessuna parte; giorni di stare.
Ciascuno porterà sé: pesante o leggero che sia quel carico, diverrà semplicemente quel che è.
Non guadagnerete niente.


 

Il dolore non è diverso da colui che soffre dice J.Krishnamurti, ma è una tesi discutibile

Questo è il brano di Krishnamurti che Piero ci propone:
Quando c’è il dolore non c’è l’amore. Come può esserci amore nel momento in cui soffrite e siete tutti presi dalla vostra sofferenza? … Che cos’è il dolore? È per caso autocompassione? Vi prego di domandarvelo. Non stiamo dicendo che lo è o che non lo è … Che il dolore sia provocato dalla solitudine – dal sentirsi disperatamente soli e isolati? … Possiamo osservare il dolore come concretamente si presenta in noi e restare con esso, tenerlo con noi e non distogliercene? Il dolore non è diverso da colui che soffre. La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose. Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa. E con la fine del dolore c’è la passione; non il desiderio, non l’eccitazione dei sensi, ma la passione” (da Washington D.C. Talks 1985)

1 – Il dolore non è diverso da colui che soffre: è un’affermazione ad effetto ma anche molto opinabile.
Noi diremmo: è solo dolore, un fatto che viene prodotto in assenza di una comprensione, va considerato in qualità di simbolo che ci indica altro con cui non ci siamo sufficientemente confrontati.
2 – La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose: è così, cerchiamo di distogliere l’attenzione, di rimuovere la consapevolezza da quel soffrire impegnandoci in situazioni che ci permettano di non vederlo e non sentirlo. E’ il nostro modo di farci male, di complicare le cose, di ritardare i processi.
3 – Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa: è un’affermazione corretta ma anche molto discutibile.
Contemplare significa osservare senza identificazione. Tenerlo stretto, non sfuggirgli sembra alludere ad esservi identificati.
Leggendo l’intenzione con cui la frase è stata pronunciata, si può dire che Krishnamurti volesse affermare che il dolore va accolto.
Si, il dolore va accolto e, accogliendolo, scompare. Contemplandolo scompare. Quindi è fatta, è finita qui?
Se ci fermassimo qui avremmo solo trovato un modo più sofisticato di rimuovere: non distogliendo lo sguardo, ma trascendendo compiamo sempre un’azione di rimozione perché non guardiamo alla ragione per cui quel dolore è sorto.
Quando c’è dolore, c’è sempre una causa che lo ha generato: bisogna osservare in sé che cosa preme per essere compreso, che cosa ci sollecita, che cosa a più riprese ci ha messo in difficoltà. Se osserviamo la causa esistenziale del nostro soffrire, potremo cambiare l’approccio a determinate situazioni della nostra vita, potremo trasformarci: questo processo di revisione ci condurrà ad una comprensione e sarà in virtù di questa che il nostro soffrire cesserà.
Riepilogando:
– osserviamo il dolore senza rimuoverlo;
– lo accogliamo;
– ne analizziamo l’origine;
– cambiamo degli aspetti del nostro vivere;
– contempliamo il processo che abbiamo vissuto.

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Il discernimento tra identità e coscienza

Dice Piero: “Comprendendo il gioco della mente attraverso l’identificazione e non aderendo più a ciò che racconta, come si comprende il sentire “reale” dettato dalla Coscienza rispetto al dire fasullo della mente?”
Quando la coscienza attiva un’esperienza in un ambito in cui ha delle comprensioni già conseguite, il processo è lineare: l’identità ha un certo margine di scelta, può decidere se realizzare quella intenzione nel modo A o nel modo B ma comunque, entrambi i modi, condurranno al risultato che alla coscienza è chiaro.
In questo caso nell’identità/mente non ci sono dubbi particolari ed essa non genera conflitti e problemi di discernimento.
Quando la coscienza si muove invece in ambiti in cui non è sorretta da comprensioni acquisite, il suo procedere è per tentativi: di esperienza in esperienza estrae i dati che le servono fino a quando non ha compreso ciò che le è necessario.
In questo caso, non essendo chiara l’intenzione della coscienza, l’identità/mente riceve una spinta non univoca, non chiara e quindi al suo interno si possono generare conflitti, incertezze, resistenze, opposizioni, approssimazioni.
La situazione durerà fino a quando, attraverso le esperienze, la coscienza non avrà ottenuto i dati che le necessitano.
Quando una mente è preda delle illusioni, delle fantasie, delle proiezioni, dei bisogni fittizi alle spalle di essa c’è sempre una coscienza che sta vivendo un processo di acquisizione di dati, di strutturazione di una certa comprensione.
La mente non si aggroviglia  a caso, lo fa quando non è sorretta da un sentire definito.
Quando la coscienza ha compreso la mente è sufficientemente chiara: quando la mente è chiara indica una coscienza che procede sui binari del compreso.

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L’identità e la sua scomparsa

Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.

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La frattura tra insegnamento e vita in non pochi “maestri”

Stiamo lavorando alla traduzione di un libro che parla della vita privata di J.Krishnamurti e prendo spunto da questo per affrontare una questione a mio parere mai abbastanza chiarita.
Ogni accompagnatore, insegnante, guida, “maestro” (virgoletto perché il termine non mi piace), ha una vita pubblica e una privata.
Se voi pensate che queste figure dovrebbero avere una solo vita, una coerenza che abbraccia il pubblico e il privato, perché altrimenti non hanno autorità per insegnare alcunché, temo non ci sia chiarezza su chi è che insegna.
Chi insegna? Chi accompagna? Chi orienta e guida?
Quella persona, quel portatore di nome, quella figura che noi diciamo aver trasceso l’umano?
O non è forse che quel portatore di nome è il veicolo di una spinta che lo precede, lo trascende e lo attraversa?
Quella spinta, quella tensione, quello ispirazione se preferite, opera per tutto il tempo, per tutto il giorno, per tutta la vita?
Sciocchezza considerevole.
Quella spinta opera quando c’è un contenitore adatto a contenerla.
Il veicolo, il portatore di nome diviene il mezzo della spinta quando qualcuno si presenta, bussa ed è disposto ad accogliere quella forza.
Il portatore di nome è lo strumento che sta tra la spinta e l’utente.
Quando non c’è contenitore che si dispone ad accogliere, il portatore di nome vive la sua giornata nella più assoluta ferialità e impara dalle esperienze e dalle relazioni come tutti.
Impara quello che gli è necessario imparare: se è qui, se è incarnato qualcosa da imparare certamente lo ha; se non avesse nulla da imparare nel mondo del divenire non sarebbe nemmeno incarnato.
Obbietterete che esistono incarnazioni di solo servizio, generate per trasmettere qualcosa all’umano: può darsi, ho dubbi consistenti in merito e la scena di Gesù il Cristo nell’orto del Getsemani simbolicamente dice molte cose in merito.
Agli occhi piuttosto disincantati di chi scrive, l’insegnate appare nella sua ferialità come una persona dedita alla via interiore che attraverso le esperienze modella consapevolmente e inconsapevolmente il proprio sentire nelle aree in cui questo ha comprensioni incomplete.

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Ancora sull’essere persi a se stessi e sulla consapevolezza di esserlo

Perdere la direzione appartiene alla cose: l’identificazione con i fatti, con le interpretazioni, con le emozioni è una delle condizioni che ci conduce, attraverso avvitamenti di varia natura, alla crisi, al ripensamento e al riposizionamento. Non considero dunque un problema il perdersi, né l’identificarsi.
Considero un problema l’imparare prevalentemente in questo modo così doloroso: sbattendo, confliggendo, procedendo nella inconsapevolezza, ferendo sé, l’altro, l’ambiente attorno a sé.
Molto, troppo spesso non ci accorgiamo di essere persi a noi stessi e reiteriamo comportamenti e situazioni che portano solo dolore.
Come accorgerci del nostro disorientamento aldilà della pretesa di essere nel giusto, dell’illusione di stare bene e che tutto vada bene?
La soluzione è così semplice da essere banale: osservando l’ambiente attorno a noi, quello più vicino, più intimo e le reazioni che produce in noi.
Come reagisce il nostro compagno, la nostra compagna? Cosa fanno/non fanno i nostri figli? Cosa dicono quei petulanti dei nostri genitori? Come si comporta con noi il nostro collega di lavoro? Come ci guarda il giornalaio? E la cassiera dell’ipermercato? E di fronte a tutto questo, qual’è la nostra reazione?
Quando sviluppiamo conflitto, ci siamo persi. Se risiediamo nel nostro sentire ci sono divergenze, non conflitti.
Quando ci sentiamo vittime, ci siamo persi. Se c’è la consapevolezza della realtà, c’è anche la chiara visione che nessuno è vittima.
Bastano questi due indicatori, non serve altro.
Dalla consapevolezza di essersi persi nasce poi ogni possibilità di ritorno, basta essere consapevoli di aver smarrito la via.

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Quando siamo persi a noi stessi

Molte zone delle Marche sono sott’acqua, molte persone hanno perduto molto, alcune la vita.
Ci sono responsabilità precise nel campo della programmazione urbanistica e ci sono responsabilità più generali, non imputabili ai soli cittadini marchigiani, quelle relative al cambiamento climatico.
Parlavo ieri mattina, dopo aver spalato per ore fango, con un terzista – un imprenditore che lavora in campagna per conto degli agricoltori – e convenivamo che nessuno è pronto a ciò che il cambiamento climatico comporta: non gli agricoltori, non gli amministratori, non i cittadini in genere: sembra che i nostri occhi non riescano a vedere l’evidente, a coglierne la portata e a indurci a reagire con prontezza e con la radicalità necessaria.
Osservo con molta attenzione i fatti del mondo, ieri le scene all’Olimpico di Roma, l’intervista a Di Battista del TG3 (di cui scrivo in questo post), i toni di una campagna elettorale irrealistica, pura propaganda di imbonitori di una massa impaurita.
Tutte le volte che l’umano è in preda alla paura e reagisce a questa con l’aggressività, produce mostri.
Quando siamo persi a noi stessi dovremmo evitare di accompagnarci ad altri altrettanto persi a sé stessi: dovremmo sederci e respirare; entrare in una libreria come quella della foto e sfogliare qualche libro che parli dell’essenziale; dovremmo non alimentare in noi ciò che ci oscura lo sguardo del sentire.
Dovremmo, ma a volte, guardando il mondo, mi coglie lo sconforto.

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Emmaus, l’esperienza interiore del determinante

Non ho mai provato particolare interesse per la sovrabbondanza simbolica pasquale e mi è sempre sembrato che i cattolici amassero questo eccesso barocco perché compensativo di qualcosa nel loro intimo.
Ma non è questione che mi riguardi.
Ciò che riguarda Gesù, riconosciuto dalla sua comunità come il Cristo, invece mi interessa e mi riguarda.
Voglio fare qui brevi considerazioni su alcune scene rappresentate nei vangeli.
Scena prima:
in un campo di olivi, con l’inutile vicinanza di alcuni suoi seguaci, un uomo soffre la fine del proprio cammino esistenziale: il senso del fallimento è vivido, la morte assai probabile.
Scena seconda:
quest’uomo non resiste, non si oppone e si consegna affinché un intero processo d’esistere possa giungere al termine.
Gesto grande, nobile ma non esclusivo: quanti prima e dopo di lui  hanno accettato di mettere a disposizione la propria vita fisica affinché altri fossero salvati, o in coerenza con un loro ideale, o nella speranza che questo potesse essere di insegnamento e di invito alla “conversione” per altri?
Scena terza:
quest’uomo muore solo. I discepoli sono lontani e disorientati: la dimensione escatologica e apocalittica che avevano senz’altro coltivato è miseramente fallita, il suo profeta morto, nessun Dio ha rivoltato la storia.
Scena quarta:
il protagonista, l’uomo che ha sperimentato in sé la pienezza dell’unione divina, il potere di insegnare e di guarire, la possibilità di accompagnare altri là dove lui risiedeva, quell’uomo umanamente e storicamente dato esce di scena.
Ora il determinante non è più ciò che storicamente è stato, il determinante è ciò che nell’intimo accadrà.
Scena quinta:
iniziano i simboli che parlano dell’interiore, il processo che avviene nell’intimo di coloro che l’hanno conosciuto e magari seguito:
-il sepolcro vuoto;
-l’incontro di Emmaus (1).
A posteriori, con il protagonista morto nelle sue apparenze fisiche, nell’intimo dei discepoli inizia a configurarsi una situazione nuova, avvenimenti e situazioni cominciano a focalizzarsi, la portata di un insegnamento impartito innanzitutto attraverso l’offerta di sé, del compreso e del vissuto in sé, fino all’offerta della propria vita fisica, comincia a delinearsi inconsciamente ma non può farsi spazio nel marasma della mente confusa e disorientata.
Quell’esempio di amore vivo ed operante; compreso, vissuto, spiegato, offerto inizia il suo processo di germogliamento e lo fa là dove quel seme è stato accolto e ha trovato terreno intimamente pronto a quella fecondazione.
Il sepolcro vuoto dice chiaramente che ciò che è stato non sarà più, che ciò che l’umano cerca lo troverà in un incontro di altra natura, in un incontro interiore.
Emmaus racconta in poche parole l’esperienza del determinante in modo mirabile: i disorientati, i fuggiaschi, i delusi, gli orfani vivono l’esperienza fondante come risonanza, sentono l’incontro con il determinante nelle loro vite squassarli e riempirli di amore, di devozione, di una certezza completamente nuova.
Ad Emmaus viene testimoniata la nascita, l’origine, il dispiegarsi dell’esperienza interiore che integra, supera e si lascia alle spalle l’esperienza storica: ad Emmaus viene sperimentata la fede/fiducia senza condizione.
Ciò che la mente dice: il fallimento, la non venuta del regno, il profeta morto insieme alla pregnanza dei giorni e delle esperienze vissute in quegli anni di vita intima con il maestro, ora non conta in sé, ha senso perché sostenuto da una profonda comprensione interiore: Emmaus è il simbolo della comprensione avvenuta.
La fede/fiducia è alimentata dalla comprensione: il determinante ha bussato alla mia porta ed ho aperto e aprirò nei giorni a venire, oltre il tempo.
Ciò che accade ad Emmaus è ciò che è sempre accaduto e sempre accadrà quando l’umano è pronto all’incontro con il determinate: attraverso una sperimentazione intensa di varia natura, all’umano diviene evidente che mai più la sua vita potrà essere quella di prima, tutto sarà visto e vissuto con altri occhi perché qualcosa irrimediabilmente è morto nel proprio intimo e qualcos’altro è germogliato.
Grande è la gratitudine per coloro che a questo appuntamento con noi stessi ci hanno condotto ma il sepolcro è vuoto e noi siamo chiamati ad una sequela, ad un processo, ad una vita che sappia incarnare il determinante nella ferialità dei giorni.

 (1) Luca 13Quello stesso giorno due discepoli stavano andando verso Emmaus, un villaggio lontano circa undici chilometri da Gerusalemme.
14Lungo la via parlavano tra loro di quel che era accaduto in Gerusalemme in quei giorni.

15Mentre parlavano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro.
16Essi però non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati.

17Gesù domandò loro:
– Di che cosa state discutendo tra voi mentre camminate?
Essi allora si fermarono, tristi.
18Uno di loro, un certo Clèopa, disse a Gesù:

– Sei tu l’unico a Gerusalemme a non sapere quel che è successo in questi ultimi giorni?
19Gesù domandò:
– Che cosa?
Quelli risposero:
– Il caso di Gesù, il Nazareno! Era un profeta potente davanti a Dio e agli uomini, sia per quel che faceva sia per quel che diceva.
20Ma i capi dei sacerdoti e il popolo l’hanno condannato a morte e l’hanno fatto crocifiggere.
21Noi speravamo che fosse lui a liberare il popolo d’Israele! Ma siamo già al terzo giorno da quando sono accaduti questi fatti.
22Una cosa però ci ha sconvolto: alcune donne del nostro gruppo sono andate di buon mattino al sepolcro di Gesù
23ma non hanno trovato il suo corpo. Allora sono tornate indietro e ci hanno detto di aver avuto una visione: alcuni angeli le hanno assicurate che Gesù è vivo.
24Poi sono andati al sepolcro altri del nostro gruppo e hanno trovato tutto come avevano detto le donne, ma lui, Gesù, non l’hanno visto.

25Allora Gesù disse:
– Voi capite poco davvero; come siete lenti a credere quel che i profeti hanno scritto!
26Il Messia non doveva forse soffrire queste cose prima di entrare nella sua gloria?

27Quindi Gesù spiegò ai due discepoli i passi della Bibbia che lo riguardavano. Cominciò dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti.
28Intanto arrivarono al villaggio dove erano diretti, e Gesù fece finta di continuare il viaggio.
29Ma quei due discepoli lo trattennero dicendo: ‘Resta con noi perché il sole ormai tramonta’. Perciò Gesù entrò nel villaggio per rimanere con loro.
30Poi si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunziò la preghiera di benedizione; lo spezzò e cominciò a distribuirlo.

31In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui spari dalla loro vista.
32Si dissero l’un l’altro: ‘Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?’.

33Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.
34Questi dicevano: ‘Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone’. 
35A loro volta i due discepoli raccontarono quel che era loro accaduto lungo il cammino, e dicevano che lo avevano riconosciuto mentre spezzava il pane.

Sull’origine del dolore

Discutevo ieri in un altro post sull’originale idea secondo cui la realtà, personale o collettiva, sarebbe spesso, a nostro giudizio, sbagliata.
Preciso che qui dolore e sofferenza sono sinonimi.
Individuerei l’origine del soffrire in due gangli:
– il non compreso nella coscienza;
– l’interpretazione della mente/identità.
Il non compreso nella coscienza genera determinate scene di apprendimento/verifica: là dove alla coscienza mancano dati ed informazioni, quello è soggetto ad indagine, a sperimentazione, a ripetuti tentativi di messa a fuoco.
Siccome durante i vari cicli incarnativi alla coscienza mancano sempre dati, perché se li avesse tutti – se fosse completa nelle sue comprensioni – non darebbe più luogo ad alcuna incarnazione, ecco che l’esistenza dell’umano conosce sempre e comunque qualche forma di sofferenza.
Un determinato sentire, di una data ampiezza, non genera solo scene congruenti, genera anche una immagine dell’attuatore di quelle scene: ovvero i tre corpi (mentale, astrale/emotivo e fisico) che realizzano la scena la interpretano anche.
Ad esempio, durante la giornata mi può accadere un determinato fatto ed io, lo scrivente, posso interpretarmi come vittima di qualcuno, o di qualcosa.
La vittima è colei che subisce un’ingiustizia e questa presunta condizione genera un ampio spettro di emozioni e pensieri conseguenti.
Da una non comprensione della coscienza deriva una certa scena la quale viene interpretata dall’identità in un certo modo: se la coscienza avesse un’altra comprensione di un dato fatto, genererebbe un’altra scena e questa sarebbe interpretata dalla mente in un altro modo.
C’è dunque l’ampiezza del sentire all’origine di tutto il processo.
La capacità di interpretazione propria dell’identità dipende dal modello interpretativo che questa adopera e questo, a sua volta, dipende dall’ampiezza del sentire: il classico serpente che si morde la coda.
Naturalmente la situazione non è bloccata, in qualunque punto del cerchio si intervenga la rotazione può essere cambiata:
– le esperienze della vita modificano il sentire;
– ciò che viene conosciuto, integrato come modello interpretativo, modifica la lettura/interpretazione dei fatti e quindi cambia sia l’insorgere della vittima, o d’altro, che il materiale psichico che solleva.
Conclusione: l’essere umano è uno e pienamente integrato, il conoscerne le dinamiche interne ci aiuterà a fluire con più leggerezza nella vita e con un minore tasso di dolore.
Nessuna vita è condannata alla sofferenza perché in ogni vita le esperienze modificano sia il sentire che l’interpretazione di esso.

Immagine di Gaia Lionello da http://goo.gl/mAS36f


 

Non è necessario lasciare tracce di sé

Ieri ho scritto questo post su un certo uso delle immagini e delle parole. Quella maniera sorge forse dalle qualità interiore della persona che redige quei materiali, forse dalla esigenza, propria del web, di usare linguaggi forti per impressionare il potenziale lettore e indurlo a leggerci.
Comunque stiano le cose pare che la necessità di fondo sia: “Esisto, dunque marco il territorio!”
Noi pensiamo che non sia necessario marcare il proprio territorio, che sia possibile transitare nella vita con passo molto leggero e non essere di ingombro a sé e al proprio prossimo.
E’ possibile vivere la pienezza della propria esistenza nella discrezione, nella riservatezza, nella leggerezza che sorge dall’aver compreso la propria irrilevanza.
Quando ci si può confinare consapevolmente, e senza frustrazione alcuna, in questa marginalità?
Quando si è compresa la propria irrilevanza dicevamo, ma va sottolineato che questa non sorge se si ritiene che il mondo sia un luogo pieno di ingiustizia: non sorge perché ci riterremmo autorizzati a lottare, o a protestare, contro quella che a noi appare l’oscenità del presente.
L’irrilevanza di sé nasce dunque dalla comprensione che tutto ciò che al mondo esiste è frutto del sentire individuale e collettivo: il sentire è il frutto delle comprensioni acquisite e queste derivano dalle esperienze vissute.
La nostra realtà personale e collettiva è generata da noi stessi, di conseguenza non esiste un nemico, né siamo vittime di alcuno.
A partire da queste acquisizioni possiamo alleggerire il nostro passo e transitare senza che nella polvere si vedano le nostre impronte.

Immagine di Marisa Gelardi, da: http://goo.gl/1pZhoC