La natura dell’identità

La coscienza manifesta in una vita non tutto lo spettro del suo sentire (l’insieme delle comprensioni derivate dalle esperienze delle varie vite-rappresentazioni) ma solo quella parte/porzione di sentire che deve essere completata, ovvero quelle comprensioni che non sono giunte a maturità o sono assenti.
In una vita ciascuno di noi manifesta prioritariamente il non compreso : lo scopo del vivere infatti è il conseguimento di comprensioni, non la manifestazione di esse.
Questa è la ragione per cui appariamo così limitati e ottusi: ciò con cui ci confrontiamo non ci è chiaro, non lo conosciamo, la coscienza si confronta con qualcosa che non sa, su cui non possiede dati.
Ogni coscienza/individualità è generalmente più ampia di quanto in una vita appaia, questa è la ragione per cui mai bisognerebbe giudicare, non sapendo in effetti chi è  quella persona che abbiamo davanti, quale il sentire che la caratterizza.
La coscienza realizza le scene del proprio apprendimento attraverso i suoi veicoli transitori: la mente, l’emozione, il corpo fisico.
I tre veicoli generano l’immagine di sé, l’identità, l’io: sono i tre veicoli, sulla base delle loro caratteristiche – ad esempio la memoria, i sensi, la capacità riflessiva – che generano l’immagine di sé, non è la coscienza che genera l’identità, questa non è un corpo, un veicolo, ma la risultante della relazione tra mente-emozione-corpo-coscienza.
L’identità è una sorta di derivato, di risultante, di prodotto del rapporto tra coscienza e veicoli.
La coscienza è la regista, i veicoli l’attore; siccome i veicoli danno luogo all’identità, noi diciamo che l’identità è l’attore.
Bisogna considerare che se i veicoli non sono stimolati e condotti dalla coscienza, l’identità non sorge o sorge in maniera residuale; si può dire quindi che l’identità rappresenta, nel tempo e nello spazio, nell’incarnazione, l’aspetto visibile di alcuni processi di comprensione con cui la coscienza si sta misurando.
La personalità rappresenta e manifesta invece uno spettro più ampio del sentire e dei processi esistenziali di una vita.
L’identità è anche la rappresentazione di come la persona si comprende, dell’immagine che ha di sé, di come interpreta il proprio cammino esistenziale, di come desidera essere.
Ciò che viene vissuto dall’identità svela ciò su cui la coscienza sta lavorando, ciò che non ha compreso, o ha compreso parzialmente. I nostri conflitti, le paure, le resistenze, gli abbandoni, le fughe, i fideismi tutto parla dei processi della coscienza.
Alcune dinamiche dell’identità parlano soltanto dei fantasmi che la popolano ma, anche in questo caso, la presenza di fantasmi denuncia un processo di comprensione non compiuto.
Quando in un determinato ambito la coscienza ha compreso, la mente/identità non genera fantasmi essendo il segnale forte e chiaro.
Guardando una persona possiamo vedere sia il messaggio – la lettura/interpretazione di sé che essa proietta – sia aspetti del sentire che sono soggetti a verifica ed approfondimento, sia elementi del sentire compiuti.
Se entriamo dentro questa visione complessa di noi e di tutti i viventi, forse ci rimarrà più difficile identificarci con le dinamiche identitarie nostre e del nostro prossimo; forse, di fronte a qualunque manifestazione saremo indotti a portare lo sguardo più a fondo, sui processi esistenziali, sulla relazione coscienza-veicoli: forse ci ricorderemo che l’identità è solo un prodotto dei processi, non una realtà.

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Crescere i figli senza farne dei “viziati”

Prendo spunto da questo bel post di un’amica comparso su Comunità del Sentiero contemplativo.
Voglio qui affermare poche, semplici tesi senza la pretesa di esaurire il tema.
– Un figlio quando nasce ha già un percorso esistenziale, uno scopo esistenziale prefigurato: la coscienza lo porta nella famiglia e nell’ambiente sociale in cui potrà affrontare ciò che esistenzialmente è per lui rilevante, disponendolo a quelle sfide, a quelle scene, a quelle opportunità che ne trasformeranno e amplieranno il sentire. Non voglio dire che un figlio ha il proprio destino segnato, è un’espressione che non userei mai, ma che gli ambiti esistenziali generali di quella vita sono, nelle loro linee di fondo, dati già prima della nascita, al concepimento: non si concepisce un ammasso di cellule organizzate, ma un percorso, un processo esistenziale.
E’ importante che i genitori comprendano che un figlio non è loro, che è un essere che tutti i giorni e tutti gli anni dispiegherà la ragione del proprio esserci e si confronterà con ciò che è necessario ai suoi processi interiori.
Qualsiasi siano gli “errori” e le inadeguatezze dei genitori, ciascuna di queste sarà un’occasione di conoscenza e di trasformazione per loro e per le creature che hanno generato: in quest’ottica non esistono errori, ma solo opportunità.
– I genitori creano un ambiente ed un’atmosfera familiari attraverso le loro disposizioni interiori, le loro scelte, le loro preferenze, le cose dette e quelle non dette, le esperienze proposte e quelle negate.
I genitori nutrono i figli di ciò che essi sono ed hanno compreso: è il loro compreso che genera l’ambiente e l’atmosfera familiare.
La famiglia è un ecosistema e il suo equilibrio è la risultante dei vari sentire e dei molteplici conflitti tra le identità e interni ad esse.
Quanta consapevolezza dei processi interiori c’è nella famiglia?
Quanta capacità di affrontarli, osservarli, risolverli senza rimuoverli?
Quanta attenzione reciproca tra i suoi membri?
Quanto rispetto, dedizione, accudimento reciproci?
Quanta capacità di tacere, osservare, discernere è testimoniata dai genitori?
Quanta volontà sana e non nevrotica pervade l’organismo familiare?
Quanta capacità di altruismo e accoglienza ne illumina le scelte e gli indirizzi nel vivere quotidiano?
Non è mio interesse definire che cosa sia un figlio “viziato” ma direi che è qualcuno cresciuto in un ambiente in cui alcune delle voci soprannominate erano carenti o distorte.
Concludo ribadendo che qualsiasi “errore”i genitori compiano questo creerà l’humus per la crescita dei loro figli e alla lunga, in una ottica esistenziale, rappresenterà per loro una possibilità anche quando apparentemente gli ha ostacolati: la sfida vera dei genitori è quella di esprimere vite, le loro, portatrici di senso, di creatività, di pienezza, di consapevolezza, di generosità.
I figli seguiranno.

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I nostri insegnanti: l’egoismo, l’ignoranza, la paura

Ad ogni angolo c’è qualcuno che insegna qualcosa, o pensa di farlo, o gli attribuiamo quel gesto.
Ci sono insegnanti interiori che non riconosciamo nella loro funzione; ad esempio, consideriamo il nostro egoismo come un limite ma non come un insegnante, una possibilità di apprendimento che ci viene offerta.
Non voglio discutere qui dell’egoismo, dell’ignoranza o della paura ma della loro funzione pedagogica.
Se non c’è consapevolezza della natura egoistica del nostro vivere, questa produrrà scene su scene condizionate dal suo essere: le scene costituiranno un processo e questo determinerà una trasformazione del nostro essere egoisti, magari passando per situazioni in cui sperimenteremo l’egoismo degli altri su di noi.
Se c’è consapevolezza, avremo la possibilità di vederci, di interrogarci, di collaborare con le situazioni della vita in cui il nostro egoismo viene posto in risalto.
In entrambi i casi vivremo una trasformazione e il nostro egoismo ci avrà insegnato qualcosa: praticandolo avremo imparato a superarlo.
Qual’è la differenza tra il vivere dei processi consapevolmente e inconsapevolmente?
Il tasso di dolore dei due processi: la consapevolezza molto spesso ci permette di limitare la sofferenza che proviamo mentre stiamo apprendendo qualcosa.
Vivere ciò che siamo, consapevolmente o inconsapevolmente, ci conduce comunque oltre noi stessi.
Questo accade senza fine e certamente oltre il tempo di quella che chiamiamo “la nostra vita attuale”.
Se osservate bene, questa è la radice della compassione: se tutto e tutti sono in trasformazione, come è possibile un giudizio sui processi e sui passi di questa?

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Il cammino di tutti i giorni e lo scacco del proprio esserci

A me sembra che ci sia un equilibrio nella vita tra le conferme alla nostra visione identitaria e le smentite a questa. In altri termini, nel quotidiano troviamo conferme e smentite al nostro esserci come portatori di un nome.
Senza conferme saremmo smarriti; senza smentite rimarremmo immobilizzati dalla nostra presunzione di sapere, conoscere, esserci.
Se questo può essere per la vita nel “mondo”, diverso è all’interno di un cammino spirituale.
Definiamo cammino spirituale quello che ci conduce dalla focalizzazione sul nostro esserci a quella sull’essere: la transizione dalla visione identitaria ed egoica a quella neutrale e impersonale, al ciò che è.
Constato tutti i giorni quanta confusione e quanto equivoco ci sia in merito a questo tema: le persone chiedono ad un cammino spirituale quello che mai potrà dare: la conferma di sé e del proprio esserci.
Sgomberiamo il campo da un equivoco: non sto dicendo che nella via spirituale l’identità viene negletta ed umiliata, ma che viene utilizzata come piede di porco per scardinare la porta che occlude la libertà.
La conoscenza, consapevolezza, comprensione delle proprie dinamiche identitarie sono ingredienti fondamentali per accedere a spazi di consapevolezza non condizionati: conoscere l’identità per superarla, per eliminare il filtro che essa costituisce nel tentativo di definirsi e che è l’elemento che vela la realtà dell’essere.
Conoscere dunque il filtro per non esserne condizionati.
Qualunque fatto della giornata viene piegato e usato nell’ottica di svelare il canto del proprio esserci e della resistenza a lasciare che qualcosa di più vasto si affermi.
Questo è una via spirituale: coloro che camminano con noi, il partner, i figli, i colleghi di lavoro tutti svelano il gioco tra esserci ed essere in noi.
Per poter affrontare questa dinamica interiore occorre aver risolto, almeno nelle sue principali basi, le questioni dell’immagine di sé e del proprio diritto ad esserci, altrimenti si porta nella via spirituale una aspettativa che essa non può, se non in maniera secondaria, risolvere.

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Nessuno procede da solo: il “prendersi cura”

Pur essendo la realtà soggettiva, il film personale, la trasformazione del sentire avviene nella relazione con l’altro da sé.
Quest’altro è la natura, l’ambiente nel quale si svolge la rappresentazione che chiamiamo vita; è il nostro partner, i nostri figli, i nostri genitori, il nostro collega di lavoro, il vicino di casa.
Nessuno procede nel cammino della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione da solo: la vita è un grande processo comunitario, perché rimane così complesso alla persona di questo tempo comprenderlo?
E perché anche quando lo comprende non riesce a sviluppare una adeguata prassi comunitaria e rimane “protetta” dietro un velo, una sorta di riserva oltre la quale è pericoloso andare?
Perché è così difficile la pratica del “prendersi cura”?
E’ la paura di perdere che ci trattiene? Il non voler affrontare la fatica dell’incontro? E’ la stanchezza dovuta alla troppa esposizione che, una volta concluso ciò che dobbiamo fare, ci conduce ad un isolamento per ritrovarci e rigenerarci?
L’incontrare l’altro è un gesto semplice, non è necessario nulla di eclatante: un saluto, una piccola cortesia, una riga, uno squillo, una minuta collaborazione.
Questi piccoli gesti avviano una danza che non ci travolgerà, che potremo gestire secondo le nostre necessità, ma avremo aperto un canale di comunicazione, un flusso, un processo: avremo oltrepassato il muro.
“Prendersi cura” è la chiave.

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Chi cambia la realtà?

Tutti coloro che hanno in sé comprensioni nuove.
Come si formano le comprensioni? Attraverso le esperienze e l’acquisizione di un nuovo sguardo che da queste germoglia fino a maturare in comprensione.
Le comprensioni acquisite genereranno nuove esperienze e nuovi punti di vista e questi ancora nuove comprensioni.
Dunque la realtà non è cambiata da coloro che hanno capito qualcosa: filosofi, politici, uomini di cultura, economisti; il loro aver capito può generare cambiamenti transitori ma non il cambiamento del paradigma.
Qual’è la differenza tra capito e compreso? Il capito è iscritto nella mente/identità, il compreso nella coscienza. Il compreso produce coerenze personali, il capito no.
La natura di una società predatrice (di persone, di risorse, di relazioni) cambia perchè nell’intimo di un numero rilevante di persone avviene un mutamento nel loro paradigma personale, nel modo in cui si rapportano con sé, con l’altro, con l’ambiente, con la tecnologia.
Il cambiamento intimo è la conseguenza del compreso, di ciò che si è iscritto in modo indelebile nel sentire; il compreso è preceduto dal capito e questo è generato dalle esperienze.
Il cambiamento nelle persone avviene nel silenzio e nella riservatezza, comunque in un ambito che non ha risonanza sociale. Nessun giornale titolerà mai: “Il Tale ha compreso che non può più considerarsi vittima!”
Il cambiamento indotto dalle comprensioni è come il lievito nella massa: apparentemente immobile, nel tempo cambia la natura degli elementi di cui è parte e introduce nell’ambiente l’evidenza della sua presenza.
Discreta e silenziosa è la presenza delle persone che hanno comprensioni nuove, privo di desiderio di mostrarsi il loro cammino.
Nell’intimo esse sanno che cambiando il proprio sguardo tutto il mondo diviene nuovo; cambiando il proprio modo di relazionarsi, ognuna delle loro relazioni cambia; cambiando le proprie domande e le proprie risposte, anche le domande e le risposte degli altri cambiano.
Le comprensioni nuove sono dunque il nucleo saldo di ogni cambiamento personale e sociale e sono precedute dalla conoscenza e dalla consapevolezza:
persone con nuove comprensioni, persone con nuova conoscenza, persone con nuova consapevolezza possono far fiorire una nuova stagione per tutti.

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L’importanza dell’identificazione e della disidentificazione

C’è identificazione quando attribuiamo a noi stessi un pensiero, un’emozione, un’azione.
Se non ci fosse identificazioni non si attiverebbero i processi esistenziali: la vita è un’immensa officina proprio perchè la persona è capace di dire: “Questo è mio!”
I processi attivati permettono di confrontarsi con il proprio limite di comprensione e di superarlo.
Mano a mano che la comprensione si amplia, la persona sente in sé che quel continuo appropriarsi della realtà genera spesso dolore, frustrazione, mancanza di senso: spinta dal disagio interiore comincia a mettere in dubbio la legittimità dell’attribuirsi ciò che accade e, nel tentativo di scoprire un’altra possibilità di lettura del proprio esistere, inizia il lungo cammino della disidentificazione.
Disidentificarsi è lasciare che un pensiero, un’emozione, un’azione siano solo fatti che accadono, non i propri fatti, solo fatti.
La capacità di superare l’identificazione, e di aprirsi alla realtà come semplice accadere, è fondamentale se si vuole scendere nell’intimo del vivere.
Siamo in presenza di un vero paradosso: scopriamo la vita solo quando non l’attribuiamo più a noi stessi!
Fino a quando esiste il “nostro” pensiero, il “nostro” bisogno, il “nostro” punto di vista non vediamo altro che le pareti della nostra officina, di quello che non abbiamo compreso: quando quel “nostro” scompare allora affiora ciò che è sempre stato lì, la semplice realtà che non è né nostra né dell’altro, semplicemente è.
Se la persona non fosse passata per l’identificazione non sarebbe giunta a scoprire il reale: se non avesse sperimentato il reale non potrebbe comprendere l’importanza dell’illusione, unica chiave al “ciò che è”.

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L’impatto delle parole, la fragilità e la sfida che ci attende

Ci sono persone che usano espressioni forti, dirette e si trovano a loro agio: per me non è così.
Per me la parola è una forza, la risultante di una pressione emotiva e di un portato concettuale: quando si impatta nel mio interiore genera effetti di varia natura, quando è dura è come il vento sulla sabbia, debbo chiudermi, proteggermi e aspettare che passi.
Credo che inevitabilmente tutti ci confrontiamo con parole e gesti, nostri o altrui, di forte impatto: non muovo una critica a questo, è un dato di realtà; sottolineo che lungo la via interiore ciò che ieri era considerato normale, oggi diviene da evitare; ciò che poteva essere fatto o detto in un’altra stagione, oggi è impraticabile.
La nostra ricettività verso ogni accadere cambia con il cambiare delle comprensioni e dell’ampliamento del sentire; questa è la ragione per cui, ad esempio, molte persone della via divengono vegetariane: come a loro risulta impraticabile cibarsi di un animale così ad altri, o in una stagione successiva, risulta difficile reggere il tono polemico, derisorio, aspro, irriverente, umiliante.
Ancora più a fondo: mentre un tempo potevamo girarci da un’altra parte quando vedevamo venire verso di noi un immigrato con la sua mercanzia, oggi lo andiamo ad incontrare.
Si osserverà che la persona di “ampio” sentire dovrebbe essere anche quella più stabile e meno vulnerabile al mondo: è una tesi discutibile, ad ampio sentire corrisponde ricettività altrettanto ampia, consapevolezza vivida delle implicazioni di ogni fatto e delle conseguenze che inevitabilmente genera.
Un sentire di quella natura coglie i processi, sa che essi appartengono ai protagonisti che li attuano e ne legge la portata formativa, sente in sé come fosse un sensore l’impatto dei fatti.
La persona della via non diviene un fungo, né un superuomo inattaccabile dai condizionamenti: diviene come una membrana sottile, fragile e vulnerabile esposta ai venti che può gestire perchè conosce e comprende la natura di quei fatti e il loro procedere.
Sono la conoscenza e la comprensione che ci permettono di non soccombere.

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Con passo leggero

Attraversare la realtà dei piccoli fatti quotidiano, degli incontri, delle relazioni come si fosse privi di peso, senza impatto.
Quanto impatta un’emozione forte, un groviglio di pensieri, un’opposizione?
Quanto è lieve e trasparente la persona che con la consistenza di un velo attraversa la realtà e da essa si fa attraversare?
La via del perdere è anche la possibilità, passo dopo passo, di perdere consistenza: si diviene fragili e vulnerabili ma, nel contempo, la consapevolezza di essere solo vita e nulla di distinto da essa apre all’esperienza sconfinata dell’essere.
L’essere non ha né forma né peso, non impatta: è tutta la realtà, non qualcosa di distinto da essa.

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