Chi cambia la realtà?

Tutti coloro che hanno in sé comprensioni nuove.
Come si formano le comprensioni? Attraverso le esperienze e l’acquisizione di un nuovo sguardo che da queste germoglia fino a maturare in comprensione.
Le comprensioni acquisite genereranno nuove esperienze e nuovi punti di vista e questi ancora nuove comprensioni.
Dunque la realtà non è cambiata da coloro che hanno capito qualcosa: filosofi, politici, uomini di cultura, economisti; il loro aver capito può generare cambiamenti transitori ma non il cambiamento del paradigma.
Qual’è la differenza tra capito e compreso? Il capito è iscritto nella mente/identità, il compreso nella coscienza. Il compreso produce coerenze personali, il capito no.
La natura di una società predatrice (di persone, di risorse, di relazioni) cambia perchè nell’intimo di un numero rilevante di persone avviene un mutamento nel loro paradigma personale, nel modo in cui si rapportano con sé, con l’altro, con l’ambiente, con la tecnologia.
Il cambiamento intimo è la conseguenza del compreso, di ciò che si è iscritto in modo indelebile nel sentire; il compreso è preceduto dal capito e questo è generato dalle esperienze.
Il cambiamento nelle persone avviene nel silenzio e nella riservatezza, comunque in un ambito che non ha risonanza sociale. Nessun giornale titolerà mai: “Il Tale ha compreso che non può più considerarsi vittima!”
Il cambiamento indotto dalle comprensioni è come il lievito nella massa: apparentemente immobile, nel tempo cambia la natura degli elementi di cui è parte e introduce nell’ambiente l’evidenza della sua presenza.
Discreta e silenziosa è la presenza delle persone che hanno comprensioni nuove, privo di desiderio di mostrarsi il loro cammino.
Nell’intimo esse sanno che cambiando il proprio sguardo tutto il mondo diviene nuovo; cambiando il proprio modo di relazionarsi, ognuna delle loro relazioni cambia; cambiando le proprie domande e le proprie risposte, anche le domande e le risposte degli altri cambiano.
Le comprensioni nuove sono dunque il nucleo saldo di ogni cambiamento personale e sociale e sono precedute dalla conoscenza e dalla consapevolezza:
persone con nuove comprensioni, persone con nuova conoscenza, persone con nuova consapevolezza possono far fiorire una nuova stagione per tutti.

Immagine tratta da: http://www.goodwillteam.it/whats-up/makers/


L’importanza dell’identificazione e della disidentificazione

C’è identificazione quando attribuiamo a noi stessi un pensiero, un’emozione, un’azione.
Se non ci fosse identificazioni non si attiverebbero i processi esistenziali: la vita è un’immensa officina proprio perchè la persona è capace di dire: “Questo è mio!”
I processi attivati permettono di confrontarsi con il proprio limite di comprensione e di superarlo.
Mano a mano che la comprensione si amplia, la persona sente in sé che quel continuo appropriarsi della realtà genera spesso dolore, frustrazione, mancanza di senso: spinta dal disagio interiore comincia a mettere in dubbio la legittimità dell’attribuirsi ciò che accade e, nel tentativo di scoprire un’altra possibilità di lettura del proprio esistere, inizia il lungo cammino della disidentificazione.
Disidentificarsi è lasciare che un pensiero, un’emozione, un’azione siano solo fatti che accadono, non i propri fatti, solo fatti.
La capacità di superare l’identificazione, e di aprirsi alla realtà come semplice accadere, è fondamentale se si vuole scendere nell’intimo del vivere.
Siamo in presenza di un vero paradosso: scopriamo la vita solo quando non l’attribuiamo più a noi stessi!
Fino a quando esiste il “nostro” pensiero, il “nostro” bisogno, il “nostro” punto di vista non vediamo altro che le pareti della nostra officina, di quello che non abbiamo compreso: quando quel “nostro” scompare allora affiora ciò che è sempre stato lì, la semplice realtà che non è né nostra né dell’altro, semplicemente è.
Se la persona non fosse passata per l’identificazione non sarebbe giunta a scoprire il reale: se non avesse sperimentato il reale non potrebbe comprendere l’importanza dell’illusione, unica chiave al “ciò che è”.

Immagine tratta da: http://goo.gl/dHEI6H


 

L’impatto delle parole, la fragilità e la sfida che ci attende

Ci sono persone che usano espressioni forti, dirette e si trovano a loro agio: per me non è così.
Per me la parola è una forza, la risultante di una pressione emotiva e di un portato concettuale: quando si impatta nel mio interiore genera effetti di varia natura, quando è dura è come il vento sulla sabbia, debbo chiudermi, proteggermi e aspettare che passi.
Credo che inevitabilmente tutti ci confrontiamo con parole e gesti, nostri o altrui, di forte impatto: non muovo una critica a questo, è un dato di realtà; sottolineo che lungo la via interiore ciò che ieri era considerato normale, oggi diviene da evitare; ciò che poteva essere fatto o detto in un’altra stagione, oggi è impraticabile.
La nostra ricettività verso ogni accadere cambia con il cambiare delle comprensioni e dell’ampliamento del sentire; questa è la ragione per cui, ad esempio, molte persone della via divengono vegetariane: come a loro risulta impraticabile cibarsi di un animale così ad altri, o in una stagione successiva, risulta difficile reggere il tono polemico, derisorio, aspro, irriverente, umiliante.
Ancora più a fondo: mentre un tempo potevamo girarci da un’altra parte quando vedevamo venire verso di noi un immigrato con la sua mercanzia, oggi lo andiamo ad incontrare.
Si osserverà che la persona di “ampio” sentire dovrebbe essere anche quella più stabile e meno vulnerabile al mondo: è una tesi discutibile, ad ampio sentire corrisponde ricettività altrettanto ampia, consapevolezza vivida delle implicazioni di ogni fatto e delle conseguenze che inevitabilmente genera.
Un sentire di quella natura coglie i processi, sa che essi appartengono ai protagonisti che li attuano e ne legge la portata formativa, sente in sé come fosse un sensore l’impatto dei fatti.
La persona della via non diviene un fungo, né un superuomo inattaccabile dai condizionamenti: diviene come una membrana sottile, fragile e vulnerabile esposta ai venti che può gestire perchè conosce e comprende la natura di quei fatti e il loro procedere.
Sono la conoscenza e la comprensione che ci permettono di non soccombere.

Immagine tratta da: http://goo.gl/naQKkF


Con passo leggero

Attraversare la realtà dei piccoli fatti quotidiano, degli incontri, delle relazioni come si fosse privi di peso, senza impatto.
Quanto impatta un’emozione forte, un groviglio di pensieri, un’opposizione?
Quanto è lieve e trasparente la persona che con la consistenza di un velo attraversa la realtà e da essa si fa attraversare?
La via del perdere è anche la possibilità, passo dopo passo, di perdere consistenza: si diviene fragili e vulnerabili ma, nel contempo, la consapevolezza di essere solo vita e nulla di distinto da essa apre all’esperienza sconfinata dell’essere.
L’essere non ha né forma né peso, non impatta: è tutta la realtà, non qualcosa di distinto da essa.

Immagine tratta da: http://spaceintext.wordpress.com/2011/page/34/


 

Eco, Scalfari, la memoria, internet, le nuove generazioni

Qualche considerazione in merito a ciò che Umberto Eco ed Eugenio Scalfari hanno affermato negli ultimi due numeri dell’Espresso in merito alle nuove generazioni.
Eco afferma che i giovani vivono in una sorta di presente senza tempo privi di memoria storica e di capacità di ricordare e afferma che uno dei principali compiti della formazione è fornire le condizioni per un uso appropriato e pieno della memoria.
Scalfari sostiene che la madre di molti mali è internet che con la facilità di accesso all’immensa dotazione di dati di cui dispone non favorisce l’impegno, l’applicazione, lo sviluppo della volontà, delle capacità cognitive e interiori nei suoi utilizzatori.
Entrambi non considerano che affinché ci sia apprendimento deve esserci interesse.
Condivido la necessità di esercitare la memoria; condivido la necessità di non estrarre informazioni solo dal web ma anche dai libri frequentando le biblioteche, o dai giornali imparando a leggerli.
Penso che scarsi saranno i risultati se quello che invitiamo a leggere, a studiare, ad imparare a memoria non tocca l’interesse, l’interiorità dello studente.
Sta parlando la scuola, e la società contemporanea, all’interiore degli allievi? Non credo.
Stanno parlando gli insegnanti, i genitori all’interiore dei loro allievi e figli? Non credo.
Se vedo una crisi questa è, dal mio punto di vista, degli educatori innanzitutto, della società adulta così priva di interiore, di anima si sarebbe detto un tempo.
C’è una domanda interiore ed esistenziale in tutte le persone ma a questa non rispondono né la filosofia, né la pedagogia, né la didattica di questo tempo.
Non vedo la crisi di una generazione, non vedo neppure una grande minaccia in internet: vedo la crisi di un sistema basato sull’accumulazione dei saperi e dei beni.
Mi sembra che il futuro della formazione sia nelle mani di tutti: siamo chiamati a ridefinire il senso del nostro vivere ampiamente smarrito; la formazione non riguarda solo i giovani riguarda tutti noi che siamo largamente persi a noi stessi.
Il pericolo che vedo è soprattutto nella incapacità del mondo “adulto” di divenire consapevole della fine di una cultura, di una filosofia, di un modo di produrre, lavorare, consumare, di una disposizione nelle relazioni tra individui: questa cecità è il pericolo; è questa incapacità di sguardo che confina le nuove generazioni in un limbo, in una atemporalità, in una condizione esistenziale passiva essendo difficile appassionarsi alle sorti di un cadavere.
La pretesa di noi “adulti” di insegnare ai giovani ad appassionarsi alla realtà è patetica.
C’è qualcosa che possono fare assieme adulti e giovani: mettere in discussione i valori per cui viviamo.
Non c’è in me alcun pessimismo, so che ogni crisi di sistema produce dolore, so anche che molte sono le forze creative, le intelligenze, le sensibilità che allevano il nuovo.

La foto è tratta da: http://goo.gl/Dac8fX

La differenza tra condizionamento e libertà

Vorrei esprimere attraverso una metafora la differenza tra una vita condizionata dalla mente, dall’emozione, dagli istinti, dai bisogni e una vita libera da questi condizionamenti: nella vita condizionata è come ascoltare la radio con continue variazioni di segnale e quindi  con il parlato o la musica che vanno e vengono, pieni di rumori che si accavallano, distorsioni continue che si alternano a pochi momenti di chiarezza.
La vita senza condizionamento è come una radio con un buon segnale stabile e chiaro all’ascolto: la persona vive quella condizione senza fatica particolare, il quotidiano diviene un cammino apprezzato in ogni aspetto del suo essere. Quando sopraggiungono delle difficoltà queste vengono accolte dentro la chiarezza di un interiore che non si lascia travolgere dal frastuono delle emozioni e dei pensieri.
Forse vi chiederete come io ascolto la radio, con o senza disturbi: in realtà ascolto semplicemente la radio.
Se c’è disturbo quella è la radio; se c’è chiarezza quella è la radio.
Non è una maniera per cavarsi d’impiccio, la scelta non è tra condizionamento e libertà, il titolo di questo post trae in inganno: ad un certo punto del cammino c’è semplice e radicale accoglienza di ciò che accade.
Questa accoglienza radicale conduce oltre la dicotomia condizionamento-libertà: è l’accettazione che ci libera dal segnale disturbato e ci porta oltre l’ideale del segnale chiaro.
L’accoglienza non si cura più di tanto della qualità del segnale e proprio perchè non se ne cura chiarifica il segnale.

L’immagine è tratta da: http://www.leradiodisophie.it/la_radio_in_casa.htm

Le due menti, un racconto per adulti e bambini, da “Piccolo albero”, Forrest Carter, Salani

Nonna disse anche che tutti quanti hanno due menti.
Una ha a che fare con le necessità della vita fisica, e di essa bisogna servirsi per capire come procurarsi un tetto, cibo e quant’altro occorre al corpo. Bisogna usarla per sposarsi e avere figli e cose simili. Di quella mente abbiamo bisogno per andare avanti. Ma ne abbiamo una seconda che non ha niente a che fare con cose del genere. Questa, disse la nonna è la mente dello spirito.
Della mente del corpo ci si serve per pensare in maniera avida e abietta: se per esempio approfitti sempre della gente e pensi di ricavarne benefici materiali, in tal caso devi contrarre la mente dello spirito tanto da ridurla alle dimensioni di una noce di hickory.

Quando il tuo corpo muore, mi spiegò la nonna, con lui muore la mente del corpo, e se per tutta la tua esistenza non hai fatto che pensare a quel modo ti ritrovi con uno spirito non più grande di una noce di hickory, perchè la mente dello spirito è quel che sopravvive quando tutto il resto muore.
E quando rinasci, com’è inevitabile, allora eccoti lì, nato con una mente dello spirito piccola come una noce di hickory, e in pratica non capisce niente di niente.
E capita che si riduca alle dimensioni di un pisello, e che magari scompare se la mente del corpo vivente ha il sopravvento: In tal caso il tuo spirito lo perdi del tutto.
E’ così che diventi una persona morta, e secondo la nonna era facile scoprire le persone morte. Le persone morte, mi spiegò, quando guardano una donna non vedono che porcherie; quando guardano altri individui non vedono che cattiveria; quando vedono un albero non vedono che legname e profitto; mai bellezza. Morti che camminano, disse la nonna.
La mente dello spirito è come un qualsiasi muscolo. Se te ne servi diventa più grande e più forte, e l’unica maniera per ottenere questo risultato è di servirsene per comprendere, ma è impossibile spalancarle la porta finchè non la smetti di essere avido e meschino con la tua mente del corpo. Allora la comprensione comincia a prendere piede, e più ti sforzi di comprendere più grande diventa.
Com’è ovvio, comprensione e amore sono tutt’uno; a parte il fatto che troppe volte la gente va indietro anzichè avanti, fingendo di amare cose che non capisce. Il che è impossibile.
Mi resi perfettamente conto che già mi sforzavo di capire in pratica chiunque, perchè non volevo certo ridurmi con uno spirito piccolo come una noce di hickory.

da: Piccolo albero, Forrest Carter, Salani

 

Pratica della meditazione/consapevolezza simultanea

L’8 dicembre, all’Eremo dal silenzio, nel contesto del percorso “Pratica del Sentiero contemplativo”, esperienza della natura profonda della meditazione.
La consapevolezza simultanea del corpo, delle sensazioni, delle emozioni, del pensiero, del sentire genera l’esperienza unitaria di sé, dell’altro, dell’ambiente.
Nella dimensione unitaria dell’esistere il soggetto scompare e ciò che rimane è la realtà senza attribuzione.
Inizio ore 9,20;
12-14 pranzo al sacco, fraternità, riposo (chi lo desidera può terminare alle 12);
ore 14-15 commento dei partecipanti ad alcuni brani del libro “L’essenziale”
ore 15-16 lettura simbolica dei lavori artistici eseguiti l’incontro precedente.
Portare tappetino, sgabello o cuscino da meditazione, coperta pesante.
I partecipanti che provengono da Fano o da Senigallia e Marotta possono tornare a casa per il pranzo e poi rientrare.
Confermare la propria partecipazione qui.

La foto è di Hanz Maier tratta da www.ilpost.it

Trattare ogni aspetto del quotidiano come se fosse il primo e l’ultimo

Se la consapevolezza illuminasse ogni aspetto del esistere le nostre giornate traboccherebbero di senso.
Quella consapevolezza darebbe luogo ad una profonda ecologia interiore: i pensieri, le emozioni, le azioni si allineerebbero senza fatica con il sentire.
Ogni aspetto che si presenta alla nostra attenzione è il primo e l’ultimo: viverlo senza presenza è non vivere.
Senza consapevolezza non siamo nella vita ma, tuttalpiù, nel pensiero di essa.
Come  fare? Affinché ciò che accade (pensiero, emozione, azione) illumini l’essere, è necessario che non sia connesso al passato e proiettato sul futuro: ciò che accade è ora e mai più.
E’ presente senza tempo.
Per poter entrare in quella dimensione la consapevolezza deve appoggiare innanzitutto sull’elemento corporeo: se l’essere corpo è presente, anche l’accadere senza tempo lo è.

Foto: http://fqwimages.com/, autore Fong Qi Wei