A chi a occhi per vedere

Ho visto “La fabbrica di cioccolato”.
Ad un certo punto un bambino afferma: “Ma questo non ha senso!”
E l’altro bambino: “Ma il cioccolato non deve avere un senso!”
La vita del cioccolataio era un gesto puramente creativo.
Quattro dei cinque bambini sono metafora del mondo ingordo ed arrogante;
il quinto è curioso, attento, presente all’essenziale della vita, l’unico essenziale che veramente conta:
il gesto che crea, il gesto gratuito, il gesto senza scopo, pura tenerezza, puro gioco.
Il quinto bambino viene assorbito nel mondo magico del cioccolataio,
è metafora della vita vera oltre le fauci dell’appetito egoico.
Mentre guardavo il film ho capito il senso di una scena vissuta nel pomeriggio:
una conversazione con una persona in merito ad alcuni aspetti della nostra esperienza.
Nelle ore seguenti a quel colloquio era cresciuto in me un senso di disagio,
un senso di sbagliato, dove lo sbagliato ero io, naturalmente.
Stavo guardando questa cosa per comprenderla.
Poi abbiamo visto il film ed è diventato più chiaro.
Noi viviamo qui, nell’eremo, e questo è veramente un mondo a sé:
un mondo interiore privo dei parametri del “mondo”, costituito di una quotidianità,
di una piccolezza, di una insignificanza che, chi non la vive, difficilmente può comprendere.
Essenzialmente noi viviamo il “mondo” quando esso viene qui, nella forma di persone che capitano
per la nostra attività, o nella forma di notizie attraverso la televisione.
Ma noi siamo dentro la nostra piccola riserva, dentro questo spazio esistenziale
e quando il “mondo” viene è solo un piccolo tassello
in un sistema molto più grande che è il nostro quotidiano.
Quando noi usciamo di qui e andiamo nel mondo siamo noi il tassello
in un mondo molto grande che pulsa secondo un sentire altro dal nostro,
con altre priorità, con altri occhi.
Quando noi usciamo di qui siamo sperduti e smarriti come penso siano sperdute e smarrite
quelle balene o quei capodogli che di tanto in tanto, sempre troppo spesso, si spiaggiano.
Stanno lì, con i loro grandi corpi, fuori dal loro ambiente, al confine tra i mondi
e vivono il senso di una perdita irrimediabile.
Quando noi andiamo nel mondo viviamo il senso di questa perdita irrimediabile:
non la nostra, non siamo noi che perdiamo qualcosa.
Quando andiamo nel mondo si palesa ai nostri occhi la dimensione di quanto il mondo
sia perduto a sé stesso, di quanto sia lontano dalle poche cose che hanno importanza nella vita,
di quanto sia ammalato di niente.
Per noi l’esperienza del mondo è l’esperienza del niente.
Abbiamo paura e siamo fragili, questa vita ci rende estremamente fragili.
Qui, nella trascuranza, nella insignificanza, nella routine senza scampo,
ogni respiro, ogni movimento interiore è vita che canta se stessa.
Qui, osserviamo la vita accadere, o meglio, si rinnova il miracolo
di essere la vita che accade perdendo ogni definizione di sé.
Qui accadiamo con la vita che accade, non altro da essa, vita che accade.
Quando incontriamo il mondo fuori di qui, sul terreno del mondo,
è come un precipitare nelle sue viscere: sorge uno spavento e un ritrarsi per tornare a respirare;
allora, nel ritorno, ci sembra che quel grande corpo spiaggiato possa tornare
a riprendere il mare e fare ritorno a casa sua.
Dove è casa sua?
Dove la vita accade.
E dove accade la vita?
Dove sei consapevole del suo accadere.

Non dovremmo

Non vorremmo arrecare offesa,
non dovremmo.
Non c’è giustificazione
per un dolore inferto,
ma accade
e ci macera.
Da lì ripartiamo,
sapendo che qualunque gesto,
qualunque respiro
ha comunque una risonanza
nell’altro da noi.

L’ultima verità

Ozh-en stava tranquillo sul suo capitello decorato a fiori di loto, aspettando che entrasse uno dei tanti visitatori che, nel corso della giornata, delle giornate, dei mesi e degli anni, venivano a parlare con lui per porgli delle domande, in quanto la sua fama oramai si era così a lungo sparsa che da tutti i punti cardinali arrivavano degli individui a porgli dei quesiti.
La persona sulla porta ebbe un momento di esitazione e poi si fece avanti. “Mio Signore”, – disse – “mi hanno detto che tu sei molto saggio e sapiente, che è la stessa Parvati che ti mette in bocca la sua Realtà e la sua Verità, e allora ti prego, mio Signore, io tanto ho vissuto, tanto ho girato per il mondo, tante cose ho visto, tante cose ho imparato, tante altre cose ho imparato a non conoscere, e adesso mi piacerebbe tanto, mio Signore, che tu potessi dirmi infine la tua ultima verità. Ozh-en incominciò ad arricciare il naso, a stringere gli occhi, a storcere la bocca, a gonfiare le gote e persino a muovere le orecchie; assumendo, in tal modo, arie sempre più strane e, in qualche modo, anche spaventose; al punto tale che l’interlocutore, quasi atterrito, si alzò precipitosamente e si allontanò dalla grotta.
Di fianco a Ohz-en, una giovane ragazza che lo osservava gli si rivolse interrogativamente: “Mio saggio Signore, possibile mai che l’ultima verità sia così spaventosa da farti assumere quelle espressioni terribili!?”. “Ah, mia cara” – rispose Ohz-en con un sospiro di sollievo – non hai idea di come sia stato difficile per me sentirmi prudere il naso e non potere farci niente!”
Tratto dal volume 7 de: “l’Uno e i molti”, pag. 88, Cerchio Ifior

Il ritmo delle giornate

Ti rendi conto dell’importanza
del ritmo nelle tue giornate
solo quando lo perdi.
La presenza dei muratori,
che sempre osservi stupito
per la loro sapienza nel fare,
ha portato una perturbazione
in quel ritmo sempre uguale a se stesso.
Per la vita nell’eremo
il ritmo è come il ventre
per il bambino in gestazione:
nel ripetersi del conosciuto
ogni cosa scivola silenziosa
e l’attenzione torna e torna
su quel piccolo presente.

Questi giorni

Questi giorni pervasi
di quella intelligenza della realtà.
Alla fine ogni cellula è permeata
di quella apertura.
Troppo vasta.

Ogni giorno

Ogni giorno un tentativo.
Ti sembra che si ripeta sempre la stessa scena, ma non è vero.
La scena è simile ma ogni volta acquisisci nuovi dati.
Una lunga raccolta di dati:
un mosaico di piccole comprensioni.
Poi, un giono, quella scena non compare più.
Ogni piccola comprensione si è intessuta ad un’altra
ed hanno dato luogo ad un tessuto che, per quell’aspetto,
sul quel fronte di te, è compiuto.
Non ha molta importanza
che un altro fronte si apra
con un nuovo tessuto da tessere,
nuova trama, nuovo ordito.
Non ha molta importanza,
è il lavoro di ogni giorno.

All’imbrunire

All’imbrunire, mentre camminavo
uno degli ultimi pipistrelli
della stagione
mi volteggiava attorno.

Basterebbe ascoltare

Ciechi come talpe
pensiamo che oltre
emozione e pensiero
non ci sia vita.
Ottusi come pietre
da millenni discutiamo
di vuoto, nulla, assenza.
Basterebbe ascoltare.

Non avere paura

La possibilita’
di guardare in un volto
in una vita
e non avere paura.