L’interpretazione di sé e dell’altro

“Ecco perchè vi diciamo che l’unica interpretazione possibile, alla fin fine, è quella che ognuno fa di se stesso; ed ecco anche perchè vi diciamo così spesso che è difficile poter veramente comprendere gli altri; perchè ogni volta che vi mettete a cercare di comprendere gli altri comprendete qualche aspetto che vi ha colpito, quindi che a voi interessa, ma non comprendete l’altro nella sua totalità; comprendete soltanto quelle che sono le vostre spinte nell’interpretare un certo aspetto dell’altro.”
Tratto da “Sfumature di sentire”, pag.170, Cerchio Ifior

Il tempo nella vita dell’eremo

Giorno dopo giorno mi rendo conto che
i nostri ritmi, i nostri gesti, le nostre reazioni,
diventano sempre più lenti.
Il gesto si dilata e prende forma
in una condizione temporale
sempre meno definita:
lo spazio e il tempo
acquisiscono un altro spessore,
un altro senso, un’altra pregnanza.
Il tempo lento appare ed è metafora
del tempo immobile:
più è lento, più è significante
e pregno; raggiunge
il suo apice di senso quando è immobile.

E’ lì, accanto a noi

Impariamo da quelli più vicini
con cui condividiamo la casa, il lavoro.
Loro, nell’esserci a fianco
instancabilmente ci inducono
a vederci e ad andare oltre
ciò che siamo.
Ci inducono a quel gesto,
a quell’attenzione,
a superare quel giudizio,
alla pazienza,
all’esprimere ciò che siamo
o crediamo di essere.
Ci insegnano l’immanenza
e la trascendenza.
Ciò di cui abbiamo bisogno
è proprio lì, accanto a noi.

La consapevolezza dell’Uno

L’esperienza dell’unita’
prende corpo non nella consapevolezza di sé,
ma dell’altro da sé.
Quando l’attenzione si posa sull’altro
senza condizionamento,
ciò che sorge da quella osservazione
è il canto dell’Uno.
L’apparire molteplice,
il miracolo del differenziato,
esprime in sé il mistero dell’Uno.
L’Uno è un’esperienza
non esite concetto che possa descriverlo.
La vita dell’Uno è muta, è immobile,
si mostra come parola
e come creazione
che lo esprimono
ma non lo contengono.
L’Uno contiene ogni cosa,
lo stare che contiene tutto il movimento,
il silenzio che contiene tutta la parola.
Ti è possibile cogliere quell’essere che,
per un gioco percettivo,
appare come divenire:
se posi lo sguardo oltre
la percezione di movimento
provocata dallo scorrere della consapevolezza
davanti ai fotogrammi,
se guardi nella profondità del fotogramma,
quel mistero ti si dischiude.
Di chi è quella consapevolezza che scorre?
Forse puoi osare dire
che l’Uno osserva l’Uno,
è il suo gesto di consapevolezza.

Religiosità

I tempi sono maturi perchè il concetto di religione che fino a qua è stato portato avanti venga superato e si vada oltre alla religione così come attualmente è intesa.
Voi potete dire: “Ma, forse, il concetto di religione è diverso da paese a paese, da epoca a epoca”. Certamente, senza dubbio la manifestazione, l’esteriorità, la ritualità presente nelle varie religioni cambia, sia nel tempo che nello spazio, eppure quello che è diventato l’elemento portante di ogni religione è un elemento che accomuna tutte le religioni che esistono; questo elemento è la concezione che per poter comunicare con Dio sia necessario un tramite.(…)
E’ ovvio che il concetto di tramite dovrà sparire, in quanto ogni uomo arriverà a comprendere che, in realtà, può arrivare a Dio semplicemente passando attraverso se stesso.
In quel momento nessuna forma religiosa esteriore avrà più molto senso; ognuno sentirà non più una religione ma una religiosità personale che lo porterà a intrecciare il suo rapporto con Dio in una maniera più intima, diversa e più diretta.
Tratto da “Sfumature di sentire” vol.1, Cerchio Ifior, pag.164

L’esperienza dell’amore

Respirare è un gesto d’amore.
Camminare è un gesto d’amore.
Ascoltare è un gesto d’amore.
Parlare è un gesto d’amore.
Lavorare è un gesto d’amore.
Stare è un gesto d’amore.
Disporsi è un gesto d’amore.
Ma che cos’è l’amore?
E’ la vita che accade,
è quel gesto
privo di condizionamento
in cui si manifesta
tutta la pienezza d’essere
e tutta l’infinità gratuità.
Infinita mancanza di scopo,
puro gioco,
apertura incondizionata
dove nulla resiste.
Vento di bora.

Vivere il presente

Quando noi vi diciamo “vivete il presente” non vi diciamo di lavare i piatti concentrati nel lavare i piatti (anche perché concentrarsi nel lavare i piatti è una cosa noiosissima!) ma intendiamo dire che dovete vivere con tutte le vostre componenti attente su quello che state facendo e vivendo.
Questo non significa accettare “tutto” quello che fate o che vivete, ma significa essere consapevoli di ciò che vi sta accadendo in quel momento, quindi essere consapevoli che state lavando i piatti ma che ne fareste a meno e sarebbe molto meglio che li lavasse vostro marito o i vostri figli, che quindi, indubbiamente, siete egoisti perché demandereste ad un altro un compito da fare, però per voi sarebbe molto meglio andare a fare una passeggiata e togliervi dai piedi quei piatti noiosi… Essere consapevoli di questo e, allora, chiudere l’acqua, ragionare se il fatto che i piatti li laviate dopo tre ore porta danno a qualcuno e, se così non è, in piena coscienza, essere consapevoli che voi avete bisogno di andare a fare una passeggiata, uscire e abbandonare lì i piatti per fare ciò che voi sentite consapevolmente essere meglio per voi in quel momento.
State attenti: non “far ciò che più vi aggrada”, ma fare ciò che – senza nuocere ad altri – permette a voi di fare le vostre esperienze nel modo migliore.
“E se uno ha tanti desideri – dice la nostra amica – come faccio?” Eh, cara, se se ne hanno tanti questo molte volte succede perché l’individuo non ha ancora trovato quello giusto, altrimenti, se avesse trovato quello giusto, quello più importante, non ne avrebbe alcun altro. E allora, se uno ne ha tanti, signifiaca che la sua ricerca è ancora da portare a buon fine.
Dal volume “L’uno e i molti”, vol 5, Cerchio Ifior, pag 102

A chi a occhi per vedere

Ho visto “La fabbrica di cioccolato”.
Ad un certo punto un bambino afferma: “Ma questo non ha senso!”
E l’altro bambino: “Ma il cioccolato non deve avere un senso!”
La vita del cioccolataio era un gesto puramente creativo.
Quattro dei cinque bambini sono metafora del mondo ingordo ed arrogante;
il quinto è curioso, attento, presente all’essenziale della vita, l’unico essenziale che veramente conta:
il gesto che crea, il gesto gratuito, il gesto senza scopo, pura tenerezza, puro gioco.
Il quinto bambino viene assorbito nel mondo magico del cioccolataio,
è metafora della vita vera oltre le fauci dell’appetito egoico.
Mentre guardavo il film ho capito il senso di una scena vissuta nel pomeriggio:
una conversazione con una persona in merito ad alcuni aspetti della nostra esperienza.
Nelle ore seguenti a quel colloquio era cresciuto in me un senso di disagio,
un senso di sbagliato, dove lo sbagliato ero io, naturalmente.
Stavo guardando questa cosa per comprenderla.
Poi abbiamo visto il film ed è diventato più chiaro.
Noi viviamo qui, nell’eremo, e questo è veramente un mondo a sé:
un mondo interiore privo dei parametri del “mondo”, costituito di una quotidianità,
di una piccolezza, di una insignificanza che, chi non la vive, difficilmente può comprendere.
Essenzialmente noi viviamo il “mondo” quando esso viene qui, nella forma di persone che capitano
per la nostra attività, o nella forma di notizie attraverso la televisione.
Ma noi siamo dentro la nostra piccola riserva, dentro questo spazio esistenziale
e quando il “mondo” viene è solo un piccolo tassello
in un sistema molto più grande che è il nostro quotidiano.
Quando noi usciamo di qui e andiamo nel mondo siamo noi il tassello
in un mondo molto grande che pulsa secondo un sentire altro dal nostro,
con altre priorità, con altri occhi.
Quando noi usciamo di qui siamo sperduti e smarriti come penso siano sperdute e smarrite
quelle balene o quei capodogli che di tanto in tanto, sempre troppo spesso, si spiaggiano.
Stanno lì, con i loro grandi corpi, fuori dal loro ambiente, al confine tra i mondi
e vivono il senso di una perdita irrimediabile.
Quando noi andiamo nel mondo viviamo il senso di questa perdita irrimediabile:
non la nostra, non siamo noi che perdiamo qualcosa.
Quando andiamo nel mondo si palesa ai nostri occhi la dimensione di quanto il mondo
sia perduto a sé stesso, di quanto sia lontano dalle poche cose che hanno importanza nella vita,
di quanto sia ammalato di niente.
Per noi l’esperienza del mondo è l’esperienza del niente.
Abbiamo paura e siamo fragili, questa vita ci rende estremamente fragili.
Qui, nella trascuranza, nella insignificanza, nella routine senza scampo,
ogni respiro, ogni movimento interiore è vita che canta se stessa.
Qui, osserviamo la vita accadere, o meglio, si rinnova il miracolo
di essere la vita che accade perdendo ogni definizione di sé.
Qui accadiamo con la vita che accade, non altro da essa, vita che accade.
Quando incontriamo il mondo fuori di qui, sul terreno del mondo,
è come un precipitare nelle sue viscere: sorge uno spavento e un ritrarsi per tornare a respirare;
allora, nel ritorno, ci sembra che quel grande corpo spiaggiato possa tornare
a riprendere il mare e fare ritorno a casa sua.
Dove è casa sua?
Dove la vita accade.
E dove accade la vita?
Dove sei consapevole del suo accadere.