Risiedere in sé stessi

Osservare, ascoltare, tacere, imparare, coltivare la compassione: queste sono le disposizioni interiore necessarie per risiedere in sé stessi, questa è l’essenza del Sentiero contemplativo.

Osservare ed ascoltare
Cosa giunge a me in questo momento come sensazione, emozione, pensiero, sentire di coscienza?
Cosa giunge dall’ambiente interiore e da quello esteriore?
E, su ciò che giunge, quali etichette vi appongo, quali giudizi e quali aspettative?

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Essere gratitudine

Prendo lo spunto per questo post dal Lunedì nel Sentiero di oggi.
C’è l’esperienza dell’essere grati e quella dell’essere gratitudine.
Essere grati implica un soggetto: c’è qualcuno che è grato. E’ una esperienza importante che assume una portata variabile a seconda della nostra disposizione e di ciò che riceviamo dall’altro, o dalla vita.
Essere gratitudine è un’esperienza di tutt’altra natura: c’è la gratitudine libera dal soggetto che, semmai ci fosse, è da essa attraversato e marginalizzato occupando la gratitudine il centro dell’esperienza.

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Imparare e contemplare

Iniziare un giorno, una settimana è come iniziare una vita: quando una coscienza si incarna ha il proposito di imparare, di divenire consapevole, di acquisire le comprensioni che le necessitano.
Direi che ad ogni giorno che sorge noi possiamo avere gli stessi propositi, ma a questi aggiungerei anche la possibilità di ascoltare, di osservare e di stare.
Imparare e contemplare. Sperimentare e semplicemente lasciarsi attraversare dalla vita.

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Fermarsi e tacere

Il sabato molti non lavorano, la domenica quasi nessuno. Se non ci sono necessità urgenti, possono essere due giorni di raccoglimento, di gesti misurati e di poche parole.
Di ridotta frequentazione, di tempo per stare in solitudine: osservando, ascoltando, tacendo.
Affrontare la giornata sentendosi compenetrati da un silenzio che ci attraversa e ci pervade: il silenzio di noi, dei nostri bisogni, dei nostri lamenti.

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Certo di Te

In qualunque posto Tu risieda,
dovunque Tu sia,
qualunque cielo Tu possa occupare,
qualunque dimensione Ti appartenga,
io a Te dedico la mia gioia,
io a Te dedico la mia allegria,
io a Te dedico le mie passioni,
io a Te dedico i miei desideri,
io a Te dedico la mia sofferenza,

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Finire in pace

Scrive una lettrice che qui chiameremo Ina:
“Anni fa ho avuto la sensazione netta della chiamata, una forza irresistibile che mi ha dirottata dalla vita solita, ho frequentato gruppi spirituali, fatto ritiri. […] col tempo ho lasciato i gruppi […] non c’è più nessuno con cui rapportarmi […] andrebbe bene anche così se ogni tanto non pensassi (come dici tu) di essermi persa […] vuoto..quello sì, la chiamata non la sento più, sono tornata a una realtà insipida […] non ho una pratica spirituale, meno che mai ne vedo il senso, i miei compagni di pratica sono i canti dei merli, i cespuglietti d’erba […] potrei dire che vivo di questo e in questo trovo gioia […] le paure […] mi hanno lasciata da lungo tempo […] ci sono per tutti ma così lontana da tutti […] è un po’ quello che ho sempre desiderato, l’eremitaggio.. e ora ci sono per davvero nell’eremo, rabbrividisco solo al pensiero di tornare in un gruppo di pratica, non amo i ritiri e le letture si sono ridotte..non c’è più ricerca […] È qui che si arriva? Distacco dal mondo, isolamento? Sì, c’è pace….e poi

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L’obbedienza profonda

C’è un momento in cui la vita chiama e la risposta giunge senza esitazione, senza riflessione, senza discernimento alcuno: semplicemente accade d’obbedire, sorge nell’intimo un sì come moto di pura gratuità.
Per qualunque ragione chiami la vita, in qualsiasi ambito, la reazione è pronta: il soggetto, libero dall’ingombro di se stesso, dei propri bisogni, aspettative e giudizi, non discute, non pone condizioni, non sottolinea la propria disponibilità, è semplicemente pronto.
La chiamata della vita è occasione per il sì incondizionato, come per la freccia la volontà dell’arciere.
Non essendoci alcun fondo di resistenza, alcuna pigrizia, alcuna indolenza, obbedire è facile.

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Quando vediamo l’altro

In assenza di mente l’altro compare, solo allora lo vediamo per quello che è.
Prima, in presenza di mente, non abbiamo visto lui, ma il nostro racconto su di lui.
Quando la mente tace, l’altro compare e noi non possiamo dire di conoscerlo allora, perché quella è una pretesa della mente: in assenza di mente non c’è conoscere o non conoscere, c’è solo la realtà.

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Ciò che accade e niente altro

Una cosa alla volta accade e una cosa alla volta riconosciamo come la nostra vita.
Quell’accadere è il determinante: ciò che insegna, ciò che è.
Ogni fatto ci insegna, ci cambia e, anche se a noi non sembra, ci rende migliori.
Ogni fatto accade e, da un punto di vista più ampio di quello appena descritto, è quel che è, accadere senza tempo e senza senso, pura gratuità.
Ogni fatto lo riconosciamo e ci disponiamo ad imparare fino in fondo la lezione che porta.

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