Il dolore non è diverso da colui che soffre dice J.Krishnamurti, ma è una tesi discutibile

Questo è il brano di Krishnamurti che Piero ci propone:
Quando c’è il dolore non c’è l’amore. Come può esserci amore nel momento in cui soffrite e siete tutti presi dalla vostra sofferenza? … Che cos’è il dolore? È per caso autocompassione? Vi prego di domandarvelo. Non stiamo dicendo che lo è o che non lo è … Che il dolore sia provocato dalla solitudine – dal sentirsi disperatamente soli e isolati? … Possiamo osservare il dolore come concretamente si presenta in noi e restare con esso, tenerlo con noi e non distogliercene? Il dolore non è diverso da colui che soffre. La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose. Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa. E con la fine del dolore c’è la passione; non il desiderio, non l’eccitazione dei sensi, ma la passione” (da Washington D.C. Talks 1985)

1 – Il dolore non è diverso da colui che soffre: è un’affermazione ad effetto ma anche molto opinabile.
Noi diremmo: è solo dolore, un fatto che viene prodotto in assenza di una comprensione, va considerato in qualità di simbolo che ci indica altro con cui non ci siamo sufficientemente confrontati.
2 – La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose: è così, cerchiamo di distogliere l’attenzione, di rimuovere la consapevolezza da quel soffrire impegnandoci in situazioni che ci permettano di non vederlo e non sentirlo. E’ il nostro modo di farci male, di complicare le cose, di ritardare i processi.
3 – Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa: è un’affermazione corretta ma anche molto discutibile.
Contemplare significa osservare senza identificazione. Tenerlo stretto, non sfuggirgli sembra alludere ad esservi identificati.
Leggendo l’intenzione con cui la frase è stata pronunciata, si può dire che Krishnamurti volesse affermare che il dolore va accolto.
Si, il dolore va accolto e, accogliendolo, scompare. Contemplandolo scompare. Quindi è fatta, è finita qui?
Se ci fermassimo qui avremmo solo trovato un modo più sofisticato di rimuovere: non distogliendo lo sguardo, ma trascendendo compiamo sempre un’azione di rimozione perché non guardiamo alla ragione per cui quel dolore è sorto.
Quando c’è dolore, c’è sempre una causa che lo ha generato: bisogna osservare in sé che cosa preme per essere compreso, che cosa ci sollecita, che cosa a più riprese ci ha messo in difficoltà. Se osserviamo la causa esistenziale del nostro soffrire, potremo cambiare l’approccio a determinate situazioni della nostra vita, potremo trasformarci: questo processo di revisione ci condurrà ad una comprensione e sarà in virtù di questa che il nostro soffrire cesserà.
Riepilogando:
– osserviamo il dolore senza rimuoverlo;
– lo accogliamo;
– ne analizziamo l’origine;
– cambiamo degli aspetti del nostro vivere;
– contempliamo il processo che abbiamo vissuto.

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Sull’esperienza della preghiera, del pregare e del soggetto che prega

Serena chiede di approfondire l’esperienza della preghiera: il tema è molto vasto, proverò a gettare le basi di una possibile discussione.
– La preghiera è un movimento verso.
Un andare attivo, alimentato da un atto di volontà dell’orante.
– Un andare passivo, privo di volontà, un essere condotto a.
Nell’intimo della persona nasce una spinta a pregare.
L’interpretazione comune secondo cui la persona in preghiera si rivolge a un Tu, è solo una delle possibili letture dell’esperienza.
La persona sente nel proprio intimo la necessità di andare oltre sé, di aprirsi ad altro, di ricevere conforto su un piano diverso da quello umano e identitario: questo nella preghiera attiva.
Oppure avverte, nella preghiera passiva, il sorgere del pregare come forza che la attraversa e la trascende.
Il pregare è l’infinito di “io prego”, è l’esperienza della preghiera che trascende il soggetto, indipendente dalla sua volontà.
Anche quando il pregare ha un soggetto e un oggetto, un “io” che prega e un “Tu” cui si rivolge, in realtà, in sé, l’atto del pregare è l’esteriorizzazione della spinta che conduce dal limite personale al non limite, dal piccolo ambito dell’io allo spazio non condizionato cui ci si affida, dalla dimensione del soggetto che prega a quella del soggetto che è pregato, dunque trasceso.
Un esempio: chi scrive è uso pronunciare questa frase prima di addormentarsi, o in situazioni che gli producono ansia: “Nelle Tue mani affido la mia vita”.
E’ una preghiera attiva, pronunciata attraverso un atto di volontà che posiziona la consapevolezza dell’orante nell’ambito della fiducia senza condizione, sposta la consapevolezza dal piccolo e ristretto fatto all’orizzonte senza fine.
In altre situazioni, quando nascono commozioni profonde, stati di gratitudine, consapevolezze che abbracciano l’insieme unitario delle realtà, l’orante pronuncia un “Grazie!” e questa è preghiera passiva: l’esperienza interiore fiorisce in una parola, in un ringraziamento che ha la tangibilità di una parola pronunciata. L’esteriorizzazione dell’esperienza interiore chiude il ciclo di ciò che è stato sperimentato: la parola è la forma materiale che completa l’esperienza che si è sviluppata su molti piani e che è completa solo quando è anche incarnata, resa fatto, manifestazione.
La preghiera è tale perché usa la parola; esiste anche la preghiera silenziosa che si sviluppa come evoluzione della preghiera orante, ma la preghiera nasce e prende forma nella relazione con l’orazione, attraverso il veicolo della parola che è, lo ripetiamo, solo esteriorizzazione di un moto interiore.
Anche la meditazione è esteriorizzazione di un moto interiore: la persona sceglie di fermarsi, o viene condotta a fermarsi, sedersi, coltivare lo stare. In questo caso la spinta diviene forma fisica, nell’altro caso diviene parola.
La preghiera può essere ritmica come nel rosario, può essere cantata come nella liturgia delle ore monastica, può essere semplice stare che sboccia nella contemplazione.
La forma ritmica e quella cantata placano e distendono la mente e conducono la persona incontro alla spazio neutrale che è il lievito della contemplazione: una mente agitata, o focalizzata sul particolare, è schermo ottuso che non concede apertura, che non apre orizzonte. La preghiera ritmica permette la disidentificazione, la disconnessione dalla quale sorge poi lo spazio per la preghiera attiva o passiva e per la contemplazione dell’esistente.
La preghiera che si esprime attraverso l’orazione non è esperienza concettuale, non si prega con la mente: quando la preghiera è essenzialmente fatto mentale si stanno dicendo “le preghiere”, questa è esperienza altra dalla preghiera e dal pregare.
L’essere nel suo insieme prega: il corpo, l’emozione, la mente si dispongono all’esperienza, la esprimono, sono attraversati da essa.
La frattura tra sentire e vivere, tra coscienza ed identità si sana nell’atto del pregare, nel momento in cui la preghiera afferma se stessa, quando il pregare diviene tutta la realtà e il soggetto orante scompare: scomparendo il soggetto tutta la realtà è coscienza, stare, essere.

Nella libertà dai propri bisogni si scopre il servizio a chi ci sta vicino

Se l’orizzonte personale è occupato dai propri bisogni non c’è storia, quelli cercheremo di soddisfare, ma se l’orizzonte è libero allora inizia un’avventura senza fine:
chi sono costoro che mi vivono a fianco, cosa chiedono, cosa narrano?
E, indipendentemente dal loro porsi, dal loro chiedere o non chiedere, perché mi sorge dall’intimo la spinta ad essergli d’aiuto, perché sento che posso servire il loro vivere?
Che cosa significa servire?
E’ un’esperienza precisa, diversa dall’aiutare: servire implica il superamento di sé, la propria dimenticanza; aiutare non necessariamente significa questo.
Nella via spirituale il servire ha una portata molto vasta, è un processo che interroga il ricercatore per tutta la sua vita fino a quando non sorge quel sentire che lo rende pronto, sollecito, disinteressato, ricettivo all’accadere, disposto ad un gesto e subito riassorbito dalla marginalità del suo esserci.
Questo è il tema del gruppo di approfondimento del 10 maggio all’Eremo dal silenzio di San Costanzo, (PU). Ore 15,40.

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Dalla consapevolezza alla compassione

Cerco di aggiungere degli elementi a questa discussione in “Comunità del Sentiero” nata dal tema del prossimo intensivo del 6-8 giugno.
La consapevolezza non è la fine del cammino: coltivare e lasciare che in sé maturi una consapevolezza diffusa che tutto abbraccia e tutto compenetra è un passaggio importante, ma indicativo di poco.
La consapevolezza apre la persona alla realtà dell’accadere nell’adesso; lo sguardo penetrante dell’osservatore, di una meta-osservazione, crea una connessione con l’osservato fondata sulla sospensione: di identificazione, di pensiero, di emozione, di tempo.
Quella sospensione pone l’osservatore nella neutralità, non nell’indifferenza, nell’alterità: è lo sguardo della coscienza oltre l’identificazione del soggetto percepente.
Se tutto finisse qui sarebbe un vivere nella lucidità estrema e nella lontananza senza fine.
La consapevolezza in sé è niente se, nel cammino incontro ad essa, non sorge anche la compassione che è la possibilità di comprendere l’accadere associata al rispetto, alla deferenza, alla dedizione.
La compassione è comprensione dei processi nostri e altrui;
è rispetto per la fatica, il dolore, l’inciampo che il procedere comporta;
è deferenza, inchino profondo al processo in atto;
è dedizione, presenza reiterata se necessaria, a fianco dell’altro, della sua solitudine, del suo passaggio esistenziale, della sua fatica.
L’infinita lontananza generata dalla consapevolezza cammina assieme alla comprensione profonda della compassione che conduce alla presenza neutrale eppure calda, discreta, delicata, tenera.
Là dove la consapevolezza lascerebbe l’altro al suo processo, la compassione lo accompagna per un tratto di strada : “E se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due”. (Mt. 5,41)

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Nel mondo ma non del mondo (1)

Il dialogo interreligioso e la comunione dei sentire nella contemplazione

Afferma Enzo Bianchi in Deontologia del dialogo (Dialogo Interreligioso Monastico):
3. Definire se stessi a partire dalla propria identità culturale e religiosa. Questo è particolarmente importante per noi cattolici che – sovente sotto il pretesto di universalità e di sympatheia – tendiamo all'”et-et” piuttosto che all'”aut-aut”, siamo tentati di non collocarci mai: in questo caso non ci sarà dialogo ma solo un indifferentismo o un relativismo che si manifesteranno in consensi irreali, specchietti per allodole… Senza sentire le proprie radici non si è autentici interlocutori: essere fedeli alla propria confessione di fede ed esserne oggettivamente portavoce è condizione del dialogo autentico.
Credo di comprendere ciò che Bianchi dice e mi sembra che abbia senso nel mondo delle identità, là dove noi e l’altro siamo entità ben distinte: così è certamente nel mondo, nelle mille relazioni che gli uomini e le donne intessono tra loro.
Se guardo a questo incontrarsi e dialogare dall’interno dell’esperienza della contemplazione così come a noi è dato sperimentarla, debbo dire che quella prassi per noi non ha alcun senso.
E’ per questa ragione forse che non ci occupiamo di tessere relazioni e occasioni di dialogo con altre esperienze spirituali.
Anche quando, nelle situazioni di accompagnamento personale, qualcuno ci chiede una parola e dovremmo rimanere confinati in un ambito più identitario, sempre il nostro interesse è per il superamento di quella limitazione a favore di un incontro sul piano del sentire.
In effetti, non coltiviamo il dialogo, non ci interessa l’incontro tra identità, timida rappresentazione dell’incontro autentico che supera l’essere due, noi e l’altro.
Questa è la questione: il dialogo postula l’essere due.
La comunione dei sentire azzera il postulato e realizza l’incontro autentico: le due identità sfumano e scompaiono nell’ambito del sentire dove, anche quando non c’è comunione di sentire, c’è comunque la neutralità del “ciò che è”.
Si osserverà che questo è possibile ad alcuni e con alcuni.
Può darsi che sia possibile solo ad alcuni, ma se questi vivono la dimensione operante della contemplazione nella loro ferialità, l’incontro con l’altro non si ferma mai sul piano identitario: indipendentemente dall’altro e dalla sua disposizione, la persona che vive lo stato contemplativo usa le proprie parole, il proprio agire, la propria disposizione interiore per incontrare l’altro nel sentire.
Non c’è alcun dialogo in questa prassi: c’è l’aprirsi di un mondo spazioso e neutrale nell’intimo di sé che è ventre per tutto l’esistente, qualsiasi forma questo assuma.
Concludendo: atteggiamento contemplativo e dialogo hanno poco a che fare perché la contemplazione realizza l’incontro su un piano diverso da quello delle identità interessate al dialogo.

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Lo sport come porta d’accesso all’esperienza della contemplazione

Traggo lo spunto per questo post da una condivisione sulla bacheca Facebook di Margherita e Alessandro relativa alla pratica sportiva del correre.
L’autore fa delle considerazioni interessanti ma non dipana fino in fondo la questione:
“Arriva un giorno, però, che ti trovi in mezzo a un parco e corri, corri, sentendo i polmoni che scoppiano. Sei immerso tra la gente. Vedi manager e ambulanti, mamme e bambini, anziani e innamorati che sono sempre gli stessi, ridono, parlano, discutono, questuano, amoreggiano, leggono il giornale, ma tutti sono diventati solo uno sfondo. Qualcosa è cambiato. Loro ci sono ancora; sei tu che non ci sei più, perché sei completamente sprofondato in te stesso, sei le tue gambe, il tuo ritmo cardiaco, il tuo sudore, il tuo respiro: sei la corsa.”.
La questione non risolta dall’autore è in questa frase:Loro ci sono ancora; sei tu che non ci sei più, perché sei completamente sprofondato in te stesso, sei le tue gambe, il tuo ritmo cardiaco, il tuo sudore, il tuo respiro: sei la corsa.”
L’esperienza è nei termini descritti, l’interpretazione adombra la questione vera ma non la esaurisce:
– è vero che sei completamente sprofondato in te stesso?
– Siamo sicuri che non sei completamente e semplicemente scomparso e c’è solo il correre?
Nella prima ipotesi c’è un soggetto sprofondato con la consapevolezza nella sua dimensione fisica e nel gesto del correre;
nella seconda, si prende in considerazione che non ci sia più alcun soggetto ma solo la consapevolezza delle sensazioni, delle percezioni, dello svolgersi del processo del correre.
E’ possibile la percezione della realtà senza un soggetto che la percepisce?
Chi è il soggetto? Colui che percepisce, o colui che interpreta, o colui che percepisce e interpreta?
Nella dimensione esistenziale della contemplazione diciamo che il soggetto è colui che interpreta la realtà percepita e che il gesto del percepire non ha alcun bisogno di un soggetto essendo un semplice affluire di dati ad un sistema di archiviazione ed elaborazione.
Il corridore non si immerge in sé, scompare a sé  e l’unica cosa che rimane è il processo del correre non attribuibile ad alcun soggetto, ad alcuna identità, ad alcun ego, ad alcun nome: esiste il correre; esiste un “sistema” che corre ma non esiste il gesto dell’auto-attribuzione di quel processo.
Questa è pura esperienza contemplativa, qualcosa di frequentemente sperimentato da sportivi ed artisti, che non viene definita tale solo perché l’esperienza della contemplazione sembra qualcosa di riservato a certi ambiti spirituali e di essa non si conoscono gli alfabeti.
La contemplazione è una delle esperienze più diffuse e comune a tante persone ma, purtroppo, non consapevolmente riconosciuta.
Un esempio per tutti: l’esperienza dell’orgasmo.

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Le immagini dell’intensivo di meditazione, contemplazione, formazione e silenzio del 28-30 marzo a Fonte Avellana

Grazie alla dedizione di Roberto D’E. possiamo vedere queste belle foto dell’esperienza di vita contemplativa appena conclusa al monastero di Fonte Avellana.
Le immagini narrano la semplicità e la ferialità delle diverse situazioni di una giornata: dai momenti di formazione, alla passeggiata meditativa e contemplativa, alla cena del sabato dove abbiamo potuto godere della presenza del priore di Fonte Avellana, Gianni.
Ben descrivono le foto la natura di questo intensivo caratterizzato da profonda comunione di sentire, leggerezza e giocosità.


 

La contemplazione implica l’inoltrarsi nel deserto delle proprie provenienze ed appartenenze

Colui/ei che vive l’esperienza della contemplazione, che scende in quella dimensione di vita, non lo fa in quanto cristiano, buddista o altro.
La contemplazione implica e impone la morte a sé, la scomparsa di sé: essere cristiani o buddisti o altro è leggere, interpretare, vivere la realtà attraverso un filtro che, se non scompare, se non viene lasciato andare, colora inevitabilmente lo sperimentato.
Il cammino incontro alla natura del proprio essere conduce all’integrazione della propria identità, all’apertura sulla dimensione della coscienza, all’abbandono di ogni residuo di sé nel grande spazio dell’esistere unitario: questo cammino è totalmente oltre le fedi, le filosofie, le credenze, le adesioni e colloca la persona in pieno deserto, lontano, molto lontano dal conosciuto, da ciò che l’identità ha sperimentato.
La contemplazione non implica l’aver fede/fiducia, è la fede/fiducia;
la contemplazione non apre sull’esperienza dell’amare, è l’amore.
La perdita, la scomparsa del soggetto che è la condizione imprescindibile perché si possa parlare di esperienza contemplativa, non salva niente: nudi giungiamo alla meta.

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