realtà soggettiva

La realtà soggettiva, la realtà oggettiva

Vi invito vivamente a leggere e a riflettere su questa parole che giungono da una fonte quantomai autorevole, il Cerchio Firenze 77: qui potete scaricare l’intero testo in pdf.

FRANCOIS – Degli altri voi non vedete la realtà del loro essere, ma vedete quello che appare. Ciò significa che vedete, al massimo, quello che gli altri mostrano di sé.
Non solo, ma anche l’immagine che gli altri danno dl se stessi può essere da voi distorta, può essere esaltata o peggiorata.
Così che quando vi innamorate di qualcuno, vi innamorate di una immagine. Chissà se il vostro innamoramento potrebbe persistere se di chi amate conosceste non l’immagine, ma la realtà.

DALI – Il fatto che gli altri vi mostrano solo un’immagine, e non la realtà, è talmente vero che si può dire sia una pura coincidenza che, talvolta, le intenzioni degli altri corrispondano alle intenzioni che voi credete che gli altri abbiano.
Il più delle volte, invece, voi attribuite agli altri intenzioni che gli altri non hanno; oppure non vedete le loro vere intenzioni e su quello che voi pensate che gli altri siano, sull’immagine che di essi vi siete fatti, costruite la vostra relazione con loro, il vostro mondo. Non crediate che quello che io dico si riferisca a casi o persone limite: è cosa di tutti e di tutti i giorni.

KEMPIS – Quindi, gli altri non sono importanti per voi a condizione che riusciate a cogliere la loro vera realtà, il loro vero essere; ma sono importanti per le reazioni che in voi riescono a suscitare; e le suscitano solo se voi siete sensibili a quegli stimoli che essi volontariamente o involontariamente vi inviano.

DALI – Perciò gli altri sono per voi come una sorta di specchio; essi possono su voi solo ciò che voi permettete che possano. Ma non “permettere ” nel senso di ” concedere “, cioè come colui che ha un’autorità e che accondiscende a qualche richiesta; ma ” permettere ” nel senso di lasciare che gli altri abbiano presa su voi, essere in loro balìa; che poi, invece, è spesso essere in balia della propria immaginazione e della propria debolezza.

KEMPIS – Gli altri, per voi, non sono tanto creature reali quanto immagini costruite dalla vostra mente, spesso animate dalla vostra immaginazione. Ma sono proprio quelle immagini e proprio quel processo che le crea, che fa sì ch’esse meglio si adattino ai vostri bisogni evolutivi, che rende le relazioni degli uomini altamente produttive ai fini della maturazione della coscienza individuale. […]

CF77. Estratto dal libro “le Grandi verità ricercate dall’uomo” – Edizioni Mediterranee.
Tratto da: http://is.gd/R0WhfL

meditazione

La caduta provocata dall’altro parla di un non compreso nostro

Un amico caro dice: “Accade che durante un intensivo, mentre tutto diventa rarefatto e la condizione contemplativa permea l’ambiente al punto che potrebbe essere sezionata con un coltello, qualcuno non ha di meglio da fare che porre una domanda che ci fa precipitare..”
A chi non è capitata una situazione simile? L’interrompersi di una esperienza costitutiva l’intero essere a causa di una banalità!
L’ordinarietà di questi “incidenti” ha portato molti “insegnanti” a strutturare i tempi, ad aumentare il controllo, a costruire rappresentazioni spiritualmente stringenti, con ritualità precise, con atteggiamenti esteriori senza sgarro possibile, con una serietà/severità interiore cui si aderisce senza ombra.
Nulla di tutto questo abbiamo fatto nel Sentiero, né mai lo faremo. Perché?
Perché se una data esperienze interiore ci svanisce nel mentre vi siamo immersi, qualsiasi sia la causa, significa che non è ancora costitutiva del nostro essere, non è ancora compiutamente compresa ed integrata. Lo dimostra il fatto che vi siamo attaccati e quando la perdiamo ci dispiace e dobbiamo faticare per ritrovarla.
Quando lo stato contemplativo è radicato nell’essere, ovvero nulla nella mente vi si oppone, esso viene e va come il vento, non a noi obbedisce, è puro accadere gratuito.
Prima di questo, siamo attaccati alla nostra pratica e alla nostra esperienza, vorremmo proteggerla e preservarla – ed entro certi limiti è giusto farlo – ma non possiamo imbalsamare la realtà, creeremmo quelle situazioni spiritualmente affettate, pompate, sostenute, cariche di liturgia; molto lontane da ciò che coltiviamo come spontaneità, immediatezza, assenza di forma, di pretesa, di presunzione.
Siamo stati sempre lontani dalle liturgie, abbiamo coltivato una ritualità minimale lasciando che i nostri gesti fossero radicalmente ordinari, inserendo parole e situazioni che, di proposito, dissacrano. L’ironia ci è compagna fedele e il sarcasmo qualche volta ci salva.
Lo facciamo per ragioni precise: al vento non deve aggiungersi altro. All’abbandono radicale non deve coniugarsi l’attaccamento. All’apertura alla vita non va posta condizione.
La nostra disponibilità a perdere tutto deve sempre guidarci, orientarci, sostenerci: quando non siamo più tanto disposti a perdere, qualcosa ci rammenta che quello è il centro del nostro cammino.
Concludendo. Quando uno stato è interiorizzato e compreso mai viene perso, è la piattaforma su cui ci muoviamo, il nostro vivere su quello appoggia.
Un disturbo, una caduta vibratoria attivano la mente e i suoi giudizi, le sue aspettative, le sue pretese: a quella attivazione leghiamo la nostra consapevolezza e la frittata è fatta.
Ma se non sorge giudizio? Se non c’è aspettativa caduta in frantumi? Osservata l’increspatura nella mente, subito quello stato ritorna.
Se dobbiamo faticare, può essere per alcune cause:
– non riusciamo a far fluire quell’increspatura perché siamo legati al giudizio/aspettativa e quindi, su quel fronte c’è ancora qualcosa che non abbiamo ben compreso;
– l’organismo nel suo insieme ha reagito scompostamente perché quella non comprensione riguarda molti e quindi il rientro è complesso;
– la bordata è stata consistente e reiterata e in quel caso bisogna provvedere con una gestione più oculata.

Immagine di Roberto D’E.


Alcune considerazioni sul male e sulla malattia

Quando ho tempo e risorse, leggo ciò che scrivono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi. Appartengono entrambi ad un mondo culturale molto lontano dal mio, ma li sento vicini nel sentire o, perlomeno, così mi pare che siano.
Ho seguito la discussione tra Mancuso e Veronesi sulla malattia e sul male (l’ultima, poco più di una settimana fa, ospiti di Fazio) e, in sincerità, mi è sembrato il dialogo di due ciechi che parlano della luce. Mi duole dire questo, lo faccio senza spirito polemico, senza pretesa di essere colui che ha visto la risposta; osservo con umiltà e con un dolore dentro questo girare attorno a questioni mal poste e come tali prive di risposta.
Da tempo volevo scrivere qualcosa sul male, su quello che gli umani chiamano male perché, dal mio punto di vista, esso non è altro che una lettura della realtà, una interpretazione: non un fatto, né una forza.
Semmai è un processo: anche la vita è un processo, non le mettiamo sopra un’etichetta univoca che la giudica, la definisce e non lo farei nemmeno nel caso del processo-male.
Il male è l’assenza del bene?
E cos’è il bene? Lo stato di salute fisica e mentale? L’unità dell’essere? La pace interiore e sociale?
Se desidero la pace, tutto ciò che non è pace rappresenta un problema.
Se sono consapevole che la pace è il frutto di un processo che dal conflitto conduce alla pace, allora mi si apre un mondo.
In questa ottica, il conflitto diviene una delle componenti del processo senza la quale non è perseguibile, né realizzabile la condizione di pace.
La pace assoluta contiene in sé tutti gli stati di pace relativi, limitati. La pace assoluta matura attraverso la pace relativa, l’assenza di pace.
Bene, male sono solo definizioni di condizioni che, in sé, sono processi, divenire, stati del sentire dove il più ampio contiene il più limitato.
Più a fondo, non esiste il processo del bene, né esiste il processo del male, esiste il processo del vivere la vita, del prendere forma e del dispiegarsi di questa ed, infine, del suo venire riassorbita.
Esistono dunque i fatti che vengono giudicati a seconda del paradigma di ognuno: il problema è lì, nel paradigma che considera la mancanza, il limite come male piuttosto che come condizione-dell’esistente-attraverso-la-quale-si manifesta-il-compimento.
Il compiuto contiene il limitato, il particolare, il frammento; l’assoluto contiene il relativo; la libertà contiene i mille gradi della non libertà.
Non esistono libertà e non libertà, esiste solo il processo della libertà: ogni non libertà prepara un grado superiore di libertà, anch’esso non libertà, fino a germogliare nella libertà assoluta che contiene in sé, che è costituita, da tutti i gradi di libertà possibili.
Se io sono nella condizione di manifestare un grado di libertà, di discernimento, di altruismo limitati, è questa una mia colpa? O non è invece lo stato dell’arte, ciò che mi svela, ciò che parla di me e mi indica la strada?
Il limite è il mio male, o la più grande delle mie possibilità?
Il limite, non denunciando una colpa, ma uno stato del sentire, cos’altro è se non il mio specchio più utile, più efficace, più trasparente, più trasformante?
Nel pensiero corrente il male viene associato alla malattia: la malattia è male. Giudicata, etichettata, archiviata, chiusa la discussione. Senza aver spiegato niente e aver capito e compreso niente. Ma pare su questo sia duro discutere, le resistenze interiori sono forti, i bastioni culturali a difesa, alti.
Sarebbe così semplice: come i fatti e i pensieri parlano di me, così pure i processi dei miei corpi parlano di me.
Scusate, ma di chi dovrebbero parlare? Pare non sia accettabile, pare sia più accettato parlare di origine ambientale, o sociale, o casuale della malattia. O di uno squilibrio non meglio definito nel sistema, magari di origine cromosomica. Si la chiave è lì, c’è un errore nel dna e così abbiamo risposto a tutto, quando non sappiamo rispondere a niente, tiriamo fuori la parola magica.
Ma non voglio parlare di ciò che non mi compete e su cui non ho competenze, mi sembra però evidente che il dna è anch’esso una risultante, il frutto di un processo.
Quando un programmatore, attraverso il linguaggio html, o altro, articola un programma, lo fa partendo da un’intenzione e da uno sviluppo di essa: quell’insieme di codici diviene poi qualcosa di fruibile ai sensi fisici umani passando attraverso una serie di mediatori. Se c’è qualcosa che ci appare come un errore nel codice, o l’ha fatto il programmatore contro la propria intenzione, oppure non è un errore, è un fatto, qualcosa di peculiare a quel programma.
La malattia è un errore? E’ un male? E’ una colpa?
La malattia è un fatto, un simbolo che narra la realtà. Quale realtà? La realtà esistenziale della persona.
La malattia non è un fatto esterno che si insinua nel nostro interno: parla di noi, dei nostri squilibri esistenziali, identitari, fisici, relazionali.
Noi e la malattia non siamo due, in sé non esiste alcuna malattia, se Roberto ha la febbre quella è la condizione esistenziale di Roberto quel giorno, quello è il Roberto di quel giorno. Quella febbre racconta qualcosa, svela qualcos’altro: è uno spot che illumina un particolare con l’intento di ricondurre a qualcosa che particolare non è, che ha caratteristiche esistenziali.
La stato che definiamo comunemente di malattia, sia fisica che psichica, è il principale indicatore, il più eclatante nel denunciare che in noi qualcosa non va: l’errore grossolano che commettiamo, è di considerare un organo, ammalato, un comportamento, sbagliato, senza cogliere il valore del sintomo che ci dice: “Sono il dito che indica la luna, il piccolo fatto che denuncia il processo!”.
Non abbiamo nessun paradigma maturo per leggere la malattia come simbolo esistenziale, ma molto è stato già fatto in alcune visioni alternative, ottusamente negate dai custodi ammuffiti dell’ortodossia.
Non abbiamo ancora gli strumenti, l’apertura mentale, l’umiltà, le comprensioni che che ci illuminino sul “dono” della malattia e del male.
Dono inteso come possibilità evolutiva, come chance di cambiamento presente e attiva, come simbolo ineludibile, come occasione che conduce a frutto.
Siamo lontani da questo, molto.
Per ora posso terminare qui; non volevo altro che avviare una riflessione; in me la visone è chiara, ma voglio che gli elementi di una evidenza si costituiscano nell’interiore di ciascuno come frutto di un processo sviluppato assieme. Se mi sarà possibile tornerò su questi argomenti in futuro.
Ho iniziato a scrivere questo post mosso dallo scoramento prodotto in me dal brano di Enzo Bianchi che sotto, in corsivo, riporto; in particolare dalla frase: “Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.”
Parole che mi procurano dolore nel loro essere così lontane dalla comprensione di un’evidenza.

Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre (Mc 1,29-39) può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio. Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi. Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8)
Brano tratto da: http://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/8942-come-gesu-cura-e-guarisce


andarsene

La morte di un figlio

La morte di un figlio è la morte di un mondo, del mondo che quei genitori hanno conosciuto dal momento che è nato.
Le febbri e le paure; i primi passi e le prime parole; il primo natale. Il momento di addormentarsi, le parole di una storia, il rimbocco delle coperte, il chiudere la porta senza far rumore.
Una moltitudine di momenti è inscritta nell’interiore dei genitori e ciò che si è impresso nel divenire del tempo, ora muore in un attimo.
Un genitore non è mai pronto per la morte di un figlio. Mai.
Perché? Perché il perdere è un processo, ha bisogno di tempo, di un lento lavoro di trasformazione e di comprensione che avviene nel sentire.
Quando un figlio se ne va nell’arco di poche ore, il genitore precipita in un abisso; quando il processo dell’andare via è progressivo e lento, nell’intimo del genitore accadono molte cose, lo sguardo pian piano si allarga, quella perdita annunciata può essere contestualizzata, assorbita non credo, è difficile.
Il risultato finale sarà sempre lacerante, ma di una natura diversa.
Ho usato, non a caso, l’espressione “quando un figlio se ne va”.
Un figlio viene, un figlio va: siamo coloro che pensano di avergli dato la vita, e certamente è così perché nostri erano quell’ovulo e quello spermatozoo, ma quel figlio non è mai stato nostro, siamo stati gli strumenti di un progetto esistenziale, il suo, che in noi ha trovato le condizioni ambientali ed esistenziali per poter accadere e manifestarsi.
Un figlio è della vita.
Un figlio è una coscienza che si incarna in un corpo, in un ambiente, in un tempo.
Un figlio non è mai dei genitori, è un processo esistenziale che procede a fianco dei loro processi esistenziali, perfettamente autonomo pur nella relazione profonda e nell’intreccio delle esistenze.
La piccola identità di un figlio che cresce non è autonoma, ma il progetto esistenziale lo è sempre e segue le propri logiche, il proprio tracciato esistenziale.
Quando un figlio se ne va obbedisce alle logiche di quel processo: non al caso obbedisce, non alla sfortuna, non alla malattia.
Un figlio non muore per caso, non per colpa di qualcuno.
La morte di un figlio non è un’ingiustizia, è il compimento di un processo di una coscienza che mai è stata nostra: ci ha accompagnato nei giorni e negli anni e, quando è stato il suo tempo, non un’ora prima, ha concluso il proprio ciclo.
Un figlio che muore non soffre, nessuno quando muore soffre né per il passaggio, né per la separazione: ciò che l’attende è molto più vasto di ciò che lascia, intriso di comprensione, di compassione, di un vivere e sperimentare nuovi.
Un genitore perde il proprio mondo conosciuto; non essendo mai pronto, precipita nell’abisso della mancanza, dell’amputazione, dell’ingiustizia.
Ci vorrà del tempo, la forza di reggere l’impatto, un lavoro su di sé teso a capire e a comprendere per non coltivare solo il rifiuto dell’apparente follia dell’esistenza.
Ci vorrà del tempo e il tentativo di accogliere il disegno dell’esistenza sul figlio andato e su di sé, che resta e che deve vivere questo dolore, questo passaggio, questo perdere una vita e non riuscire a trovarne un’altra.
Un’altra vita verrà e potrà essere piena di compassione e di comprensione, se quel genitore avrà aguzzato lo sguardo nella profondità del processo esistenziale che l’ha travolto, se non si stancherà di indagare il proprio sentire, se non si fermerà a risiedere nel proprio dolore.
Quando un figlio muore, quel figlio consegna ai genitori, attraverso un processo molto doloroso, una nuova vita fondata sulla conoscenza, sulla consapevolezza, sulla comprensione.

Immagine da http://goo.gl/vGb8Mr


 

irrealta

Quando finisce la stagione dell’apparire e c’è solo la vita della coscienza

Che cos’è l’apparire? L’identificazione con la rappresentazione della propria vita, del proprio esserci.
E’ evidente che tutto ciò che consideriamo il nostro esserci, fare, provare, pensare, sentire non è altro che rappresentazione, puro ologramma che assume consistenza per due ragioni:
– perché la coscienza ha necessità di creare situazioni dalle quali estrarre dati di comprensione;
– perché la nostra identificazione con le scene le rende reali.
Pura consapevolezza della irreale consistenza del reale, eppure pura disponibilità a viverne i processi esistenziali che porta perché, se accade, se è stata generata la scena, significa che essa ha una sua necessità che va assecondata.
Risaltano con evidenza le scene che marcano dei sentire incompleti, approssimativi, che richiedono approfondimento.
Si sta sospesi tra l’inconsistenza del vivere e la sua ineluttabilità derivata dalla necessità di condurre a compimento ciò che ancora nel sentire è incompiuto.
E’ finito l’interesse per sé e l’identificazione con i propri vissuti, ma non è finito il vivere che perdura nella neutralità: accada ciò che è necessario, asseconderemo il processo.
Ciò che accade non è nostro, è ciò che accade e plasma un sentire che, anch’esso, non è nostro, è solo un sentire.
Tutti i processi accadono e non riguardano più un soggetto, non riguardano nessuno.

Immagine da http://goo.gl/wJrCf3


contemplazione

La mente contrappone lo stare al fare, la contemplazione all’azione

La mente sa ben poco della realtà che sorge oltre i propri recinti, ed opera nella presunzione di conoscere la natura del reale catalogandolo tra le sbarre della propria cella, finendo per costruire tra sé e ciò che è muri di pregiudizio.
La mente non conosce quanto viva e vivida sia la vita del contemplativo, la vita intrisa di contemplazione; lei contrappone il risiedere, lo stare all’agire, al fare.
La mente non sa che nello stare, nel risiedere nel presente che è, non c’è alcuna passività, nessuna negazione del fare e dell’agire; non sa che per poter risiedere, estrema deve essere l’apertura a ciò che giunge dai sensi, dalla mente, dal sentire.
Per poter accogliere il presente, bisogna lasciar andare tutto il passato e tutto il futuro, tutto quello che adesso non è: in una frazione di tempo, in un battito di ciglia è compendiato un lavoro enorme, possibile perché tutte le comprensioni acquisite in innumerevoli esperienze, in un attimo, si rendono disponibili.
La contemplazione, lo stare, il risiedere è la risultante del massimo dell’azione possibile ad un umano, attuata senza sforzo volitivo alcuno.
Perché non c’è sforzo, non c’è agitazione, non c’è tensione?
Perché c’è la comprensione di quella realtà che accade; perché c’è la compassione che l’avvolge e la copre; perché il soggetto che la vive non ha interesse per sé; perchè l’amore, che è la radice del vivere, quando è riconosciuto e liberato come forza, guida la volontà affrancata dal dovere.
Queste parole sono solo un accenno superficiale all’immenso mondo che si apre quando la mente non domina più la scena e ben altro si presenta all’esperienza del vivente, non di colui che vive.

Immagine di Lee Scott


Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

Immagine da: http://www.generazionevaselina.it/?tag=nietzsche


Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


Raimon Panikkar, l’acqua della goccia, la creazione illusoria della realtà

Raimon usa la metafora antica della goccia d’acqua e la illumina con il suo bel sorriso che, da solo, racconta molte cose.
Scrivo questo post per porre domande, più che altro.
Se ciò che è rilevante è l’acqua, ovvero la radice comune a ciò che chiamiamo esistente, questo come si forma, come assume la realtà forma, consistenza, moto?
Perché Panikkar, e con lui tutti i ricercatori dell’interiore di tutti i tempi, afferma che lo scomparire è niente anche se a noi sembra tanto, così importante sia la goccia che il suo dissolversi?
Perché il processo da goccia ad acqua è ineluttabile?
Le risposte a queste domande non sono poi così difficili: esistono fonti autorevoli che dalla dimensione della coscienza parlano di questo argomentando secondo logiche coerenti, non facendo ricorso agli argomenti della mistica, ma giungendo alle stesse conclusioni di questa.
Ma, dal punto di vista di chi scrive, la questione non è questa:
posso io, persona immersa nel reale, sperimentarne la natura?
La risposta è si, anche senza la conoscenza che deriva dal sapere, attraverso la conoscenza che sorge dallo sperimentare.
E’ sperimentabile la natura della goccia e, guardando nella sua profondità, è sperimentabile la natura dell’acqua: sperimentate entrambe, si configura nell’interiore la chiarezza dell’inconsistenza della goccia.
Successivamente può essere utile una qualche strutturazione cognitiva dello sperimentato.
Questa esperienza della goccia e dell’acqua, è esperienza per pochi?
No è esperienza di tutti, approfondita in grado differente da ciascuno.

Immagine di Marcus Reygels, da: http://goo.gl/fy5Ee4