Un intensivo è il tempo e il luogo del perdere, non del guadagnare

Dal 6 all’8 giugno il prossimo intensivo del Sentiero contemplativo sul tema: “Nel mondo, ma non del mondo e l’esperienza della compassione“.
Che i partecipanti abbiano partecipato a dieci intensivi o a nessuno, la sfida di tutti è la stessa: disporre il proprio interiore ad un’esperienza fondata sulla sottrazione, sul lasciar andare, sull’accogliere, sul flettersi, sulla disponibilità a non ancorarsi a sé essendo disposti a lasciare il molo del proprio attracco.
La disposizione interiore deve essere simile a quando dalla città, o dal paese, imboccate una strada che rapidamente vi porta in campagna incontro alla prima vegetazione sparsa e poi, man mano, sempre più fitta fino a divenire un bosco d’alto fusto, con le piante distanziate tra loro, la penombra, il terreno piano che favorisce il passo rilassato, la voce degli uccelli in lontananza.
Potete fermarvi da qualche parte e semplicemente stare.
Tre giorni insieme saranno uno stare, un risiedere, un semplice fluire: dall’alzata del mattino alla sera il silenzio accompagnerà le nostre esperienze, la vicinanza degli altri sarà discreta, la consapevolezza pervadente e priva di sforzo.
Giorni senza essere protesi da nessuna parte; giorni di stare.
Ciascuno porterà sé: pesante o leggero che sia quel carico, diverrà semplicemente quel che è.
Non guadagnerete niente.


 

Sull’esperienza della preghiera, del pregare e del soggetto che prega

Serena chiede di approfondire l’esperienza della preghiera: il tema è molto vasto, proverò a gettare le basi di una possibile discussione.
– La preghiera è un movimento verso.
Un andare attivo, alimentato da un atto di volontà dell’orante.
– Un andare passivo, privo di volontà, un essere condotto a.
Nell’intimo della persona nasce una spinta a pregare.
L’interpretazione comune secondo cui la persona in preghiera si rivolge a un Tu, è solo una delle possibili letture dell’esperienza.
La persona sente nel proprio intimo la necessità di andare oltre sé, di aprirsi ad altro, di ricevere conforto su un piano diverso da quello umano e identitario: questo nella preghiera attiva.
Oppure avverte, nella preghiera passiva, il sorgere del pregare come forza che la attraversa e la trascende.
Il pregare è l’infinito di “io prego”, è l’esperienza della preghiera che trascende il soggetto, indipendente dalla sua volontà.
Anche quando il pregare ha un soggetto e un oggetto, un “io” che prega e un “Tu” cui si rivolge, in realtà, in sé, l’atto del pregare è l’esteriorizzazione della spinta che conduce dal limite personale al non limite, dal piccolo ambito dell’io allo spazio non condizionato cui ci si affida, dalla dimensione del soggetto che prega a quella del soggetto che è pregato, dunque trasceso.
Un esempio: chi scrive è uso pronunciare questa frase prima di addormentarsi, o in situazioni che gli producono ansia: “Nelle Tue mani affido la mia vita”.
E’ una preghiera attiva, pronunciata attraverso un atto di volontà che posiziona la consapevolezza dell’orante nell’ambito della fiducia senza condizione, sposta la consapevolezza dal piccolo e ristretto fatto all’orizzonte senza fine.
In altre situazioni, quando nascono commozioni profonde, stati di gratitudine, consapevolezze che abbracciano l’insieme unitario delle realtà, l’orante pronuncia un “Grazie!” e questa è preghiera passiva: l’esperienza interiore fiorisce in una parola, in un ringraziamento che ha la tangibilità di una parola pronunciata. L’esteriorizzazione dell’esperienza interiore chiude il ciclo di ciò che è stato sperimentato: la parola è la forma materiale che completa l’esperienza che si è sviluppata su molti piani e che è completa solo quando è anche incarnata, resa fatto, manifestazione.
La preghiera è tale perché usa la parola; esiste anche la preghiera silenziosa che si sviluppa come evoluzione della preghiera orante, ma la preghiera nasce e prende forma nella relazione con l’orazione, attraverso il veicolo della parola che è, lo ripetiamo, solo esteriorizzazione di un moto interiore.
Anche la meditazione è esteriorizzazione di un moto interiore: la persona sceglie di fermarsi, o viene condotta a fermarsi, sedersi, coltivare lo stare. In questo caso la spinta diviene forma fisica, nell’altro caso diviene parola.
La preghiera può essere ritmica come nel rosario, può essere cantata come nella liturgia delle ore monastica, può essere semplice stare che sboccia nella contemplazione.
La forma ritmica e quella cantata placano e distendono la mente e conducono la persona incontro alla spazio neutrale che è il lievito della contemplazione: una mente agitata, o focalizzata sul particolare, è schermo ottuso che non concede apertura, che non apre orizzonte. La preghiera ritmica permette la disidentificazione, la disconnessione dalla quale sorge poi lo spazio per la preghiera attiva o passiva e per la contemplazione dell’esistente.
La preghiera che si esprime attraverso l’orazione non è esperienza concettuale, non si prega con la mente: quando la preghiera è essenzialmente fatto mentale si stanno dicendo “le preghiere”, questa è esperienza altra dalla preghiera e dal pregare.
L’essere nel suo insieme prega: il corpo, l’emozione, la mente si dispongono all’esperienza, la esprimono, sono attraversati da essa.
La frattura tra sentire e vivere, tra coscienza ed identità si sana nell’atto del pregare, nel momento in cui la preghiera afferma se stessa, quando il pregare diviene tutta la realtà e il soggetto orante scompare: scomparendo il soggetto tutta la realtà è coscienza, stare, essere.

La frattura tra insegnamento e vita in non pochi “maestri”

Stiamo lavorando alla traduzione di un libro che parla della vita privata di J.Krishnamurti e prendo spunto da questo per affrontare una questione a mio parere mai abbastanza chiarita.
Ogni accompagnatore, insegnante, guida, “maestro” (virgoletto perché il termine non mi piace), ha una vita pubblica e una privata.
Se voi pensate che queste figure dovrebbero avere una solo vita, una coerenza che abbraccia il pubblico e il privato, perché altrimenti non hanno autorità per insegnare alcunché, temo non ci sia chiarezza su chi è che insegna.
Chi insegna? Chi accompagna? Chi orienta e guida?
Quella persona, quel portatore di nome, quella figura che noi diciamo aver trasceso l’umano?
O non è forse che quel portatore di nome è il veicolo di una spinta che lo precede, lo trascende e lo attraversa?
Quella spinta, quella tensione, quello ispirazione se preferite, opera per tutto il tempo, per tutto il giorno, per tutta la vita?
Sciocchezza considerevole.
Quella spinta opera quando c’è un contenitore adatto a contenerla.
Il veicolo, il portatore di nome diviene il mezzo della spinta quando qualcuno si presenta, bussa ed è disposto ad accogliere quella forza.
Il portatore di nome è lo strumento che sta tra la spinta e l’utente.
Quando non c’è contenitore che si dispone ad accogliere, il portatore di nome vive la sua giornata nella più assoluta ferialità e impara dalle esperienze e dalle relazioni come tutti.
Impara quello che gli è necessario imparare: se è qui, se è incarnato qualcosa da imparare certamente lo ha; se non avesse nulla da imparare nel mondo del divenire non sarebbe nemmeno incarnato.
Obbietterete che esistono incarnazioni di solo servizio, generate per trasmettere qualcosa all’umano: può darsi, ho dubbi consistenti in merito e la scena di Gesù il Cristo nell’orto del Getsemani simbolicamente dice molte cose in merito.
Agli occhi piuttosto disincantati di chi scrive, l’insegnate appare nella sua ferialità come una persona dedita alla via interiore che attraverso le esperienze modella consapevolmente e inconsapevolmente il proprio sentire nelle aree in cui questo ha comprensioni incomplete.

Immagine da: http://goo.gl/aIHgU4


Una riflessione sull’amore, sull’essere, sull’Assoluto

Chiede una lettrice cosa noi intendiamo per Assoluto. Vorrei rispondere non con una definizione, o un tentativo di essa, ma con la descrizione di un’esperienza, di come noi viviamo la dimensione dell’Assoluto.

L’esperienza del ciò che è

I fatti, i pensieri, le emozioni, le azioni sono quel che sono, privi di attribuzione.
La realtà è neutrale, priva di commento, di giudizio, di interpretazione.
La realtà è , tempo e non tempo sono irrilevanti e inesistenti.
La realtà mai è personale, non esiste soggetto percepente, esiste solo un sistema di percezione.
L’accadere non ha scopo, è pura gratuità.

L’esperienza dell’essere

L’essere è il fondo delle cose: prima del divenire, del tempo, dei fenomeni, del vivere c’è l’essere.
L’esperienza dell’essere è risiedere nell’uno che mai è divenuto due, è la comprensione vivida che tutto ciò che esiste è il sentire assoluto in manifestazione, non altro da esso, mai separato da esso, inseparabile non da ciò che l’ha generato – quasi esistesse il generatore e il generato – ma da sé stesso.
Niente genera niente, non esiste Assoluto che genera realtà, questa è solo l’illusione creata dalla mente e dai sensi dell’umano.
La realtà testimoniata dall’essere è una ed è realtà di sentire; non di pensare, non di provare, non di agire: questo accade solo in virtù della percezione.

L’esperienza dell’amore

Le esperienze del ciò che è e dell’essere creano le condizioni perché venga sperimentata la natura dell’amore, ciò che all’umano si configura come natura dell’amore.
L’amore non è un’emozione, non è un’esperienza affettiva né cognitiva, l’amore precede tutto questo e precede il sentire stesso sebbene attraverso questo sia dall’umano sperimentabile.
Senza l’amore – quello che l’umano chiama amore – le realtà del ciò che è e dell’essere sarebbero caratterizzate come neutrali e percepite come irrimediabilmente lontane e altre.
L’esperienza dell’amore rende possibili tutti i paradossi:
l’infinitamente lontano è, simultaneamente, infinitamente vicino;
l’infinitamente altro è, simultaneamente, anche ciò che ci riguarda;
l’assenza totale è presenza totale;
l’immobilità del non tempo è, simultaneamente, il pulsare del divenire di tutti gli esseri e di tutte le cose.
L’esperienza dell’amore è esperienza che in sé compendia tutte le esperienze: l’Assoluto è sentito e sperimentato come amore.
L’esperienza dell’amore è inequivocabile:
– non è personale, non è rivolta a qualcuno, non ha oggetto; se ha oggetto allora possiamo definirla innamoramento o affetto, ma non amore;
– non ha tempo, non diviene, non evolve: cambia il modo possibile all’umano di incarnarla, ma in sé è potenza in atto che non diviene.

L’Assoluto è ciò che l’umano vive come vita,
è le forze che questa vita rende possibile,
è l’ambiente entro cui questa vita prende forma:
l’umano sperimenta l’Assoluto come vita e vivendo impara a comprendere che non esiste un sé, un portatore di nome, esiste solo l’essere dell’Assoluto che l’umano chiama con un nome di persona, di animale, di pianta, di minerale.
L’Assoluto è l’esistente e il non-esistente, è ciò che è: non potendo l’umano contenere nella propria comprensione questo, lo limita, lo restringe, ne coglie frammenti, frazioni e a queste dà il nome di tempo, divenire, esseri.
In sé non esiste umano, né esiste tempo, né esistono esseri: è il ciò che è.

Immagine di Mirco Belacchi


 

Nella libertà dai propri bisogni si scopre il servizio a chi ci sta vicino

Se l’orizzonte personale è occupato dai propri bisogni non c’è storia, quelli cercheremo di soddisfare, ma se l’orizzonte è libero allora inizia un’avventura senza fine:
chi sono costoro che mi vivono a fianco, cosa chiedono, cosa narrano?
E, indipendentemente dal loro porsi, dal loro chiedere o non chiedere, perché mi sorge dall’intimo la spinta ad essergli d’aiuto, perché sento che posso servire il loro vivere?
Che cosa significa servire?
E’ un’esperienza precisa, diversa dall’aiutare: servire implica il superamento di sé, la propria dimenticanza; aiutare non necessariamente significa questo.
Nella via spirituale il servire ha una portata molto vasta, è un processo che interroga il ricercatore per tutta la sua vita fino a quando non sorge quel sentire che lo rende pronto, sollecito, disinteressato, ricettivo all’accadere, disposto ad un gesto e subito riassorbito dalla marginalità del suo esserci.
Questo è il tema del gruppo di approfondimento del 10 maggio all’Eremo dal silenzio di San Costanzo, (PU). Ore 15,40.

Immagine da: http://goo.gl/DfXwwy


 

Il dialogo interreligioso e la comunione dei sentire nella contemplazione

Afferma Enzo Bianchi in Deontologia del dialogo (Dialogo Interreligioso Monastico):
3. Definire se stessi a partire dalla propria identità culturale e religiosa. Questo è particolarmente importante per noi cattolici che – sovente sotto il pretesto di universalità e di sympatheia – tendiamo all'”et-et” piuttosto che all'”aut-aut”, siamo tentati di non collocarci mai: in questo caso non ci sarà dialogo ma solo un indifferentismo o un relativismo che si manifesteranno in consensi irreali, specchietti per allodole… Senza sentire le proprie radici non si è autentici interlocutori: essere fedeli alla propria confessione di fede ed esserne oggettivamente portavoce è condizione del dialogo autentico.
Credo di comprendere ciò che Bianchi dice e mi sembra che abbia senso nel mondo delle identità, là dove noi e l’altro siamo entità ben distinte: così è certamente nel mondo, nelle mille relazioni che gli uomini e le donne intessono tra loro.
Se guardo a questo incontrarsi e dialogare dall’interno dell’esperienza della contemplazione così come a noi è dato sperimentarla, debbo dire che quella prassi per noi non ha alcun senso.
E’ per questa ragione forse che non ci occupiamo di tessere relazioni e occasioni di dialogo con altre esperienze spirituali.
Anche quando, nelle situazioni di accompagnamento personale, qualcuno ci chiede una parola e dovremmo rimanere confinati in un ambito più identitario, sempre il nostro interesse è per il superamento di quella limitazione a favore di un incontro sul piano del sentire.
In effetti, non coltiviamo il dialogo, non ci interessa l’incontro tra identità, timida rappresentazione dell’incontro autentico che supera l’essere due, noi e l’altro.
Questa è la questione: il dialogo postula l’essere due.
La comunione dei sentire azzera il postulato e realizza l’incontro autentico: le due identità sfumano e scompaiono nell’ambito del sentire dove, anche quando non c’è comunione di sentire, c’è comunque la neutralità del “ciò che è”.
Si osserverà che questo è possibile ad alcuni e con alcuni.
Può darsi che sia possibile solo ad alcuni, ma se questi vivono la dimensione operante della contemplazione nella loro ferialità, l’incontro con l’altro non si ferma mai sul piano identitario: indipendentemente dall’altro e dalla sua disposizione, la persona che vive lo stato contemplativo usa le proprie parole, il proprio agire, la propria disposizione interiore per incontrare l’altro nel sentire.
Non c’è alcun dialogo in questa prassi: c’è l’aprirsi di un mondo spazioso e neutrale nell’intimo di sé che è ventre per tutto l’esistente, qualsiasi forma questo assuma.
Concludendo: atteggiamento contemplativo e dialogo hanno poco a che fare perché la contemplazione realizza l’incontro su un piano diverso da quello delle identità interessate al dialogo.

Immagine da: http://goo.gl/tsspMx


 

Lo sport come porta d’accesso all’esperienza della contemplazione

Traggo lo spunto per questo post da una condivisione sulla bacheca Facebook di Margherita e Alessandro relativa alla pratica sportiva del correre.
L’autore fa delle considerazioni interessanti ma non dipana fino in fondo la questione:
“Arriva un giorno, però, che ti trovi in mezzo a un parco e corri, corri, sentendo i polmoni che scoppiano. Sei immerso tra la gente. Vedi manager e ambulanti, mamme e bambini, anziani e innamorati che sono sempre gli stessi, ridono, parlano, discutono, questuano, amoreggiano, leggono il giornale, ma tutti sono diventati solo uno sfondo. Qualcosa è cambiato. Loro ci sono ancora; sei tu che non ci sei più, perché sei completamente sprofondato in te stesso, sei le tue gambe, il tuo ritmo cardiaco, il tuo sudore, il tuo respiro: sei la corsa.”.
La questione non risolta dall’autore è in questa frase:Loro ci sono ancora; sei tu che non ci sei più, perché sei completamente sprofondato in te stesso, sei le tue gambe, il tuo ritmo cardiaco, il tuo sudore, il tuo respiro: sei la corsa.”
L’esperienza è nei termini descritti, l’interpretazione adombra la questione vera ma non la esaurisce:
– è vero che sei completamente sprofondato in te stesso?
– Siamo sicuri che non sei completamente e semplicemente scomparso e c’è solo il correre?
Nella prima ipotesi c’è un soggetto sprofondato con la consapevolezza nella sua dimensione fisica e nel gesto del correre;
nella seconda, si prende in considerazione che non ci sia più alcun soggetto ma solo la consapevolezza delle sensazioni, delle percezioni, dello svolgersi del processo del correre.
E’ possibile la percezione della realtà senza un soggetto che la percepisce?
Chi è il soggetto? Colui che percepisce, o colui che interpreta, o colui che percepisce e interpreta?
Nella dimensione esistenziale della contemplazione diciamo che il soggetto è colui che interpreta la realtà percepita e che il gesto del percepire non ha alcun bisogno di un soggetto essendo un semplice affluire di dati ad un sistema di archiviazione ed elaborazione.
Il corridore non si immerge in sé, scompare a sé  e l’unica cosa che rimane è il processo del correre non attribuibile ad alcun soggetto, ad alcuna identità, ad alcun ego, ad alcun nome: esiste il correre; esiste un “sistema” che corre ma non esiste il gesto dell’auto-attribuzione di quel processo.
Questa è pura esperienza contemplativa, qualcosa di frequentemente sperimentato da sportivi ed artisti, che non viene definita tale solo perché l’esperienza della contemplazione sembra qualcosa di riservato a certi ambiti spirituali e di essa non si conoscono gli alfabeti.
La contemplazione è una delle esperienze più diffuse e comune a tante persone ma, purtroppo, non consapevolmente riconosciuta.
Un esempio per tutti: l’esperienza dell’orgasmo.

Immagine da: http://goo.gl/8HM55G


 

La contemplazione implica l’inoltrarsi nel deserto delle proprie provenienze ed appartenenze

Colui/ei che vive l’esperienza della contemplazione, che scende in quella dimensione di vita, non lo fa in quanto cristiano, buddista o altro.
La contemplazione implica e impone la morte a sé, la scomparsa di sé: essere cristiani o buddisti o altro è leggere, interpretare, vivere la realtà attraverso un filtro che, se non scompare, se non viene lasciato andare, colora inevitabilmente lo sperimentato.
Il cammino incontro alla natura del proprio essere conduce all’integrazione della propria identità, all’apertura sulla dimensione della coscienza, all’abbandono di ogni residuo di sé nel grande spazio dell’esistere unitario: questo cammino è totalmente oltre le fedi, le filosofie, le credenze, le adesioni e colloca la persona in pieno deserto, lontano, molto lontano dal conosciuto, da ciò che l’identità ha sperimentato.
La contemplazione non implica l’aver fede/fiducia, è la fede/fiducia;
la contemplazione non apre sull’esperienza dell’amare, è l’amore.
La perdita, la scomparsa del soggetto che è la condizione imprescindibile perché si possa parlare di esperienza contemplativa, non salva niente: nudi giungiamo alla meta.

Immagine da: http://goo.gl/4rrXAf


 

L’ingresso nel silenzio della mente: vivere nella contemplazione del reale

Un’immagine: uscire da un ipermercato e trovarsi immersi in un bosco di faggi.
Nella faggeta non c’è silenzio, inteso come assenza di stimoli, c’è una vita che si dispiega secondo ritmi dilatati, distesi.
Nell’ipermercato c’è l’eccesso di stimoli di ogni genere.
I due esempi sono metafora della realtà della vita nella contemplazione, il primo; della vita nella mente/identità, il secondo.
E’ possibile a tutti il passaggio dall’ipermercato alla faggeta? Non lo so, credo che dipenda dal sentire di coscienza acquisito.
Coloro per i quali è possibile lo faranno: a passi lenti, o rapidi, supereranno le porte automatiche dell’ipermercato e si inoltreranno nel sentiero nel bosco, disposti a fare i conti con le proteste più o meno accese di quella parte di sé legata all’esistenza del passato.

Immagine da: http://goo.gl/gkB9U6