La “via del monaco” nel Sentiero contemplativo

La Via del monaco e la Comunità monastica diffusa in formato stampabile.

Per un quarto di secolo il Sentiero ha cercato di essere uno strumento per chi volesse andare incontro a se stesso nella pratica della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione.
Dagli inizi del 2016 il Sentiero ha cessato di essere un riferimento per i ricercatori dell’interiore in genere e si è dedicato all’approfondimento della via interiore con quelle persone che nel tempo erano rimaste dedite al suo paradigma e alla sua pratica.
Dopo quasi due anni di approfondimenti, di verifiche, di macerazioni e di chiarificazioni interiori dei suoi membri, oggi il Sentiero è pronto per assumere la forma che fin dall’inizio perseguiva: divenire la via del monaco,

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La dedizione radicale del monaco alla via di unificazione

Un monaco – colui che ricerca e realizza in sé l’unità – non è un lavoratore dell’interiore, la sua dedizione non è a tempo e non va in ferie dalla sua disposizione interiore.
Un monaco è monaco sempre, ad ogni respiro e finché respiro c’è, fino a quando è attraversato da quella corrente che soffia dalla sua radice.
Certo, può smarrire quella connessione di fondo, e può ritrovarla in un ritmo che lo incalza a stabilizzarsi; come può perderla, definitivamente.
Ad ogni respiro dunque l’archetipo lo crea e lo costituisce come colui-che-si-forma-nell’Uno, nell’indifferenziato Essere.

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La comunione dei sentire oltre il tempo ed il limite personale

Quante volte è accaduto in questi anni che le interiorità vibrassero all’unisono come braccia di un diapason!
È accaduto nelle sedute di accompagnamento, nei gruppi, nelle sessioni degli intensivi, mentre si sedeva assieme a tavola, nei silenzi come nelle risa.
Il Sentiero è innanzitutto una condivisione di sentire che, a volte, diviene comunione dei sentire.
È la comunione dei sentire che tiene assieme due partner in un legame esistenziale; ed è sempre la comunione dei sentire che lega nel tempo i fratelli e le sorelle di un cammino, che li porta a perseverare nell’officina comune.

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La capacità di risiedere quando tutto perde senso

Risiedere dove? In sé? Nel presente? In entrambi, o meglio nel presente fatto di consapevolezza della sensazione, dell’emozione, del pensiero, del sentire: questo è il presente di sé.
Dunque risiedere in quel flusso che ci attraversa e in quello stato immobile che lo sostiene e lo rende possibile: flusso di minute informazioni che salgono dai sensi e dall’insieme dei corpi; stato di immobilità che precede il flusso e che è come la roccia su cui è edificata la giostra del divenire..
Ci sono giorni e stagioni intere della vita che sono costituite solo di questi minuti e insignificanti flussi e di quelle arie immobili.

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La natura del mondo che costruiamo ogni giorno

Commenta Nadia al post Il mondo nuovo che costruiamo ogni giorno: Parole toccanti, oggi però non riesco a coglierne la piena portata. O meglio non riesco ad abbandonarmi a quel senso di fiducia a cui rimandano. So che il disegno non è utopistico, ma la strada per la realizzazione, è ancora molto, molto, molto lunga. Le gravi questioni internazionali attuali alimentano un senso d’impotenza. Anche se conosco il perché di certi accadimenti, e anche sapendo che io posso “lavorare” partendo da me, oggi sono inquieta. Probabilmente è l’identità che sa di non poter vedere quell’orizzonte a cui le parole rimandano, il motivo per cui non riesco a gioirne.
Se il mondo è un’immensa officina delle coscienze immerse nel divenire, fino a quando sarà abitato da individualità in apprendimento non vedrà realizzato quanto nel post descritto.

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L’amicizia, l’amore e i simboli nelle relazioni

Anna si interroga, giustamente, sulla portata e le conseguenze di questa espressione di Scifo, Cerchio Ifior, contenuta nel post L’amicizia: la disponibilità senza che sia richiesta: Come può essere infatti amicizia quella che, per essere messa in atto, deve essere richiesta? L’amicizia, creature, per essere tale deve operare e agire anche se non richiesta, altrimenti non può essere amicizia ma, molto più facilmente, è qualcosa fatto per assecondare un desiderio altrui, per far vedere che si fa qualche cosa, per dichiararsi disponibili proprio quando non se ne può fare a meno in quanto chiamati in causa.

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Abitare il deserto interiore come la migliore delle case

Proseguo il ragionare iniziato nel post Un nuovo monachesimo per i senza religione.
Esiste un monaco senza casa, senza appartenenza, senza adesione, senza riti, senza miti, senza santi, senza consolazioni, senza ricerca, senza ascesi.
Esiste un monaco che risiede nella vita come la rena sulla battigia e come questa si fa lavorare dal ritmo del mare, dallo scorrere della vita tra divenire ed eternità.
Esiste un monaco che intenzionalmente non vuole andare da nessuna parte, che non ha alcun regno da realizzare, alcuna illuminazione da conseguire.
Esiste un monaco piegato al quotidiano che è apprendimento ineluttabile e contemplazione scelta, coltivata, facilitata, lasciata accadere, accolta.
Esiste un monaco che abita uno spazio sconfinato, libero dalle cianfrusaglie, che non ha scopo se non il vivere in quella duplice disposizione

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Il sapore del reale, la contemplazione del sentire

“Ciò che il monaco cerca quando legge, non è la scienza, ma il sapore. La Scrittura è il pozzo di Giacobbe da cui si attingono le acque che poi si spandono nell’orazione”. (J. Leclercq, Ecrits monastiques sur la Bible, in Medieval Studies, 1953)
Ciò che vale per i cristiani, vale per tutti noi indipendentemente da quale sia la lettura, o la situazione nella quale ci troviamo immersi.
La mente cerca la scienza, la ragione, la logica, il senso: il sentire è attento a cogliere la sostanza, il sapore come dice il Leclercq.
Cos’è la sostanza/sapore? Uno stato d’essere.

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Le diverse realtà dell’identificato e del non identificato

Afferma Maria nel commento al post Solo il giudizio ci separa dall’Uno: “[…] pura tossicità la logica del divenire, dell’imparare, del perfezionarsi.
Puro veleno che, immersi nella sequenzialità della mente e del divenire, non possiamo non bere fino a quando ci diviene evidente che esso ci ottenebra l’esperienza di quel che è”. Queste parole mi risultano di difficile comprensione, sarà che mi sento molto dentro la logica del divenire, avverto una logica di giudizio nel descrivere una parte ineludibile della nostra realtà. Perché deve essere veleno se è necessario passare di lì per giungere a superarlo? Sento che se non si sciolgono prima dei nodi identitari nel piano del divenire si rischia di rimanerne invischiati e parlare di Essere rimane solo una bella teoria.”

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Solo il giudizio ci separa dall’Uno

Se ogni forma vivente altro non è che aspetto ed essenza dell’Uno, cosa ci separa dalla piena consapevolezza di quell’unità?
Il giudizio che diamo su noi stessi, i nostri pensieri, le nostre emozioni ed azioni.
Non esiste un censore che sia altro da noi stessi, noi blocchiamo l’accesso alla conoscenza, consapevolezza, comprensione ultime semplicemente etichettando, parametrando, giudicando ciò che siamo.
Senza giudizio ogni fatto è solo un fatto, natura ed essenza dell’Uno né alta, né bassa; né evoluta, né inevoluta; né unita, né disunita: il giudizio, che senza sosta opera in noi, è stato proiettato all’esterno ed è divenuto il Dio che chiede, che esige perfezione per essere conosciuto. Una mostruosità.

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