Amare non è dire si, non è soccorrere, non necessariamente

Ciò che cerchiamo di dare, o di non dare, all’altro comunque parla sempre di noi.
Osservo con molta attenzione l’impulso a dare, come la paura di farlo: qui voglio parlare dell’attitudine interiore che porta alcuni a dare ripetutamente e con apparente naturalità.
Comunemente affermiamo che il dare, il prendersi cura, il sostenere siano espressioni dell’amore che ci muove e attraverso quelle disposizioni e quei gesti prende forma: può darsi che sia così, ma non sempre e non comunque.

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Le diverse realtà dell’identificato e del non identificato

Afferma Maria nel commento al post Solo il giudizio ci separa dall’Uno: “[…] pura tossicità la logica del divenire, dell’imparare, del perfezionarsi.
Puro veleno che, immersi nella sequenzialità della mente e del divenire, non possiamo non bere fino a quando ci diviene evidente che esso ci ottenebra l’esperienza di quel che è”. Queste parole mi risultano di difficile comprensione, sarà che mi sento molto dentro la logica del divenire, avverto una logica di giudizio nel descrivere una parte ineludibile della nostra realtà. Perché deve essere veleno se è necessario passare di lì per giungere a superarlo? Sento che se non si sciolgono prima dei nodi identitari nel piano del divenire si rischia di rimanerne invischiati e parlare di Essere rimane solo una bella teoria.”

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Solo il giudizio ci separa dall’Uno

Se ogni forma vivente altro non è che aspetto ed essenza dell’Uno, cosa ci separa dalla piena consapevolezza di quell’unità?
Il giudizio che diamo su noi stessi, i nostri pensieri, le nostre emozioni ed azioni.
Non esiste un censore che sia altro da noi stessi, noi blocchiamo l’accesso alla conoscenza, consapevolezza, comprensione ultime semplicemente etichettando, parametrando, giudicando ciò che siamo.
Senza giudizio ogni fatto è solo un fatto, natura ed essenza dell’Uno né alta, né bassa; né evoluta, né inevoluta; né unita, né disunita: il giudizio, che senza sosta opera in noi, è stato proiettato all’esterno ed è divenuto il Dio che chiede, che esige perfezione per essere conosciuto. Una mostruosità.

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Ciò che ci separa da noi stessi e dall’Assoluto

Per ciò che pensiamo, proviamo, agiamo c’è sempre un cosa, un come, un perché.
Qui voglio sostenere una comprensione: non è tanto il cosa e il come pensiamo, proviamo, agiamo, ma il perché che ci mantiene connessi al sentire, a noi stessi, all’Assoluto, o ci aliena da esso.
Il perché riguarda l’intenzione: cosi muove quel pensiero, quell’emozione, quell’azione?
Qui parliamo di una persona consapevole, che sa osservarsi, non parliamo di chi vive e impara sperimentando e sbattendo.

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Il perdersi e la natura della preghiera non duale

Prendo lo spunto da alcuni commenti al post Il dolore, la sua ragione, la funzione della preghiera per approfondire alcuni aspetti inerenti l’esperienza del pregare.
Premetto che, secondo la mia comprensione, esistono almeno due filoni d’esperienza distinti nella pratica della preghiera:
– la pratica che avviene nell’ambito duale, in una relazione dove esiste un io che interloquisce con un Tu considerato altro-da sé, il totalmente-altro;
– la pratica interna alla dimensione unitaria d’Essere, dove non c’è interlocuzione tra due soggetti ma confidenza, intimità, relazione interna ad un Unico Essere.

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Il dolore, la sua ragione, la funzione della preghiera

Già la coscienza umana – che pure è relativa – è unitaria. Ogni momento del sentire che origina gli esseri, è presente nella coscienza assoluta identicamente a come gli esseri lo sentono. Non potrebbe essere diversamente da così, dato che il sentire che origina gli esseri è lo stesso sentire contenuto nella coscienza assoluta.
Non è uno identico, è lo stesso.
Se tale sentire non esistesse nella coscienza as­soluta non esisterebbero né gli esseri, né la coscienza assolu­ta.

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L’amore non conosciuto e non compreso che diviene violenza

Chiede Mariella commentando il post Il tempo necessario per contemplare il reale: “Questo vuol dire che anche dietro la violenza, lo sfruttamento, la tortura, ogni efferatezza c’è un impulso d’amore che ti spinge ad agire? Il deficit di comprensione produce un cambiamento di segno?”
Prendiamo il caso di un uomo che usa violenza alla propria compagna: se ascoltiamo ciò che afferma, vedremo che è convinto di agire per amore e, dal suo punto di vista, è certamente così non avendo tutti dell’amore la stessa comprensione.
Dal nostro punto di vista la sua modalità è aberrante ma, d’altra parte, una moltitudine di noi si gira dall’altra parte di fronte al dramma delle guerre, delle carestie, delle migrazioni: siamo più evoluti dell’uomo dell’esempio, ma siamo dei bruti in merito a tante altre questioni.

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Il tempo necessario per contemplare il reale

Ho avuto bisogno di tempo, di molto tempo, di una vita intera da dedicare all’osservazione, all’ascolto, allo stare.
Non avrei potuto vivere diversamente da come ho vissuto e da come vivo: il tempo altro non è che la possibilità di guardare nell’abisso.
Una possibilità che si ripete, che viene offerta ogni giorno, ad ogni ora.
Ho avuto bisogno che il mondo non vorticasse, che la mia mente fosse vuota il più possibile affinché potesse affluire il ciò-che-è.
Non essendo prigioniero del tempo imposto, non dovendo sottostare ai bisogni miei, ho potuto dedicare la grande parte delle energie alla contemplazione del reale, di ciò-che-è, di ciò-che-viene-senza-scopo.

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Il piccolo orizzonte personale e il vasto orizzonte esistenziale

Sapevo che il post Chi sei? Sono il processo dell’obbedire avrebbe provocato qualche mal di pancia, d’altra parte non stiamo qui a “pettinare le bambole”.
Non metto in dubbio che ci siano molte motivazioni valide per quei mal di pancia che affondano le radici nella storia di ciascuno di noi, ciononostante ribadisco un principio: quando si è conosciuta la realtà dell’esistere autentico, l’obbedienza è un’evidenza; se ancora evidenza non è, questo è dovuto al permanere di elementi di identificazione e dunque di condizionamento.
Ogni volta che scrivo dei temi ultimi dell’esistere, mi coglie un timore e il dubbio di parlare di qualcosa che non tocca chi legge o, se lo tocca, lo sfiora ma non lo impatta.

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Chi sei? Sono il processo dell’obbedire

Obbedire: latino oboedire, composto di ob e audire «ascoltare».
Il processo dell’aderire all’ascolto senza da esso volersi e potersi affrancare, senza volerlo e poterlo negare, volendo e dovendo per intima natura propria assecondarlo e perseguirlo.
Assecondare l’ascolto perché altro non è dato e non si cerca: quella è la vita di alcuni di noi, obbedire.
Per estensione, ascoltare è anche osservare, come pure recepire, ovvero tutto ciò che ha a che fare con il processo della vita che ci impatta e che registriamo e proteggiamo nel nostro interiore, nella coscienza innanzitutto.

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