La meditazione e lo scomparire

Dice Alessandro commentando il post L’illusione di una mente intossicataLa disconnessione senza indagine del simbolo e delle cause che ci muovono porta alla rimozione ma non alla comprensione e quindi quelle stesse cause vengono ributtate più in profondità, nel buio, dove possono lavorare indisturbate. E’ quello che intendevi?
Si, intendevo proprio questo. Dal nostro punto di vista la meditazione, e con essa la pratica della disconnessione, ha senso se è inserita nel più vasto complesso del conosci te stesso, nel processo del conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Al centro c’è questo processo, non la meditazione, questo deve essere chiaro.

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Sentire, mente, emozioni

Dice Samuele in merito al post La gestione delle emozioni e dei pensieriQuell’ancoraggio lo potremmo chiamare consapevolezza?
Certamente, consapevolezza di qualcosa di sperimentato. Non consapevolezza di qualcosa che si è capito, o a cui si aderisce per fede.
Più hai sperimentato, ti sei concesso di sperimentare quella dimensione fondante di te, più quell’esperienza si è impressa, è divenuta comprensione e come tale pietra d’angolo nella lettura di te e della tua vita.
Per questa ragione è necessario scendere nella profondità di un cammino spirituale finché esso non ci introduce nell’esperienza della radice del vivere: una volta sperimentata quella radice, siamo guidati da una fiducia autentica fondata sull’esperienza e la gestione dei flussi emotivi e cognitivi può usare appieno la disconnessione.

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La gestione delle emozioni e dei pensieri

Sorgono nell’interiore stati e pensieri, a volte sollecitati da situazioni, altre volte per loro proprio moto.
Indipendentemente dalla ragione che ne determina il sorgere, la prima domanda da porsi è: di cosa mi parla questo stato?
Di cosa è simbolo, quale aspetto di me preme per essere osservato e compreso più profondamente?
Una volta affrontata questa domanda e avendo trovato una qualche risposta, se questa è stata incerta e non risolutiva, lo stato tornerà e noi potremo di nuovo affrontarlo: ora, quel che preme, è che non ci blocchiamo nell’indagine, nell’analisi, nel rimuginio, nell’allevare lo stato emotivo lasciandoci pervadere dai suoi umori.
Qui sorge un problema: la nostra identità, la percezione che abbiamo di noi, dice che quello stato è noi, ci costituisce e le rimane innaturale non coltivarlo, non alimentarlo.

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Una ecologia interiore

Il corpo mentale e quello astrale ricevono impressioni senza sosta: il mondo propone se stesso senza mai stancarsi e lo fa con strumenti affinati e penetranti.
A noi spetta l’edificazione di una ecologia interiore quotidiana.
Di cosa nutro i miei corpi? Di cosa alimento il corpo fisico, il corpo delle emozioni, il corpo mentale?
Essi sono i veicoli della coscienza: sono incrostati di scorie, di inutile, di distorto?
Cosa sono le scorie? La risultante di stratificazioni e di sedimentazioni, di abitudini mai messe in discussione, di disintossicazioni e disconnessioni mai affrontate e coltivate.
Cos’è l’inutile? Gran parte di ciò di cui ci circondiamo e ci nutriamo interiormente ed esteriormente: ciascuno faccia il proprio elenco di ciò che gli è veramente indispensabile e scoprirà l’elenco sterminato delle fesserie di cui si circonda.

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La nostra malattia vera

«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? 28 E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; 29 eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? 31 Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” 32 Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. 34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno. Matteo 6,25-34  

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Sedere insieme in zazen

Ieri a quest’ora eravamo seduti in zazen. La luce del tramonto e il silenzio ci hanno accompagnati.
Al termine non ci sono state parole, ognuno è tornato a casa portando con sé il raccoglimento di quell’ora.
Sedere insieme in zazen è l’essere assisi nella gratuità: praticare senza scopo, semplicemente stare.
Praticare zazen è praticare l’Essere: il film della vita scorre e non c’è adesione, né identificazione.
I pensieri sono solo pensieri, le emozioni solo emozioni, la vita solo vita.
Sedere in zazen è la libertà dal condizionamento che diviene fatto, esperienza tangibile.

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Come nasce la realtà

Non è lo spettatore che si commuove alla proiezione delle scene commoventi del film, ma è la commozione dello spettatore – commozione proveniente dal più profondo del suo “sentire” – a determinare il succedersi sullo schermo delle scene commoventi.
Questo è il modo di considerare la Realtà non secondo il punto di vista dal relativo all’Assoluto, ma dall’Assoluto al relativo, da Dio all’uomo.
Cerchio Firenze 77, Per un mondo migliore, pag. 179, Edizioni mediterrane

Il film di ciascuno è la propria vita: noi pensiamo che le scene scorrano secondo logiche loro, invece esse accadono perché create dal nostro sentire, dalla coscienza che è origine di noi e del nostro vivere.

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L’orizzonte del sentire

Ho incontrato ieri Elena, da tempo compagna nel viaggio interiore e da quell’incontro nascono queste riflessioni.
Le coscienze si muovono sospinte dagli archetipi permanenti e orientate/condizionate da quelli transitori.
L’archetipo permanente dell’amore permea una coscienza che lo realizza sulla base delle comprensioni acquisite nella forma stabilita dagli archetipi transitori, nella fattispecie nella forma della famiglia fondata sulla coppia.
L’archetipo permanente dell’unificazione* si articola nell’archetipo transitorio del monaco e del monachesimo.
Ogni spinta universale si incarna in una forma transitoria e “locale”. Questo è l’ambiente vibratorio nel quale operano le coscienze.
Ma cosa accade quando una coscienza sente sempre meno l’influsso degli archetipi transitori e sempre di più è indotta ad obbedire, a conformarsi, alla natura di quelli permanenti?
Accade un suo “estrarsi”, un “eradicarsi” dalle convenzioni, dalle regole, dalle visioni che governano il divenire e con esso il mondo.

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Oltre la paura, il gioco

Dice Samuele nel suo commento a La gioia di andare oltre sé: “Come trasformare gli stimoli esterni che chiamano in causa il sé, in vita in cui dimenticarsi di sé e dedicarsi all’altro?”.
Essere chiamati in causa è la norma quando si vive: ci sentiamo coinvolti come identità e sentiamo che queste sono continuamente sotto esame, messe alla prova, giudicate e parametrate.
Siamo, normalmente, nella morsa del dover essere, del dover dimostrare: è possibile uscirne?
Si, quando si è compreso che ogni scena del quotidiano altro che non è che uno spezzone di un film dal nostro sentire prodotto.
Quando si ha chiaro che ogni accadimento è una possibilità di apprendimento e che la vita altro non è che ampliamento del sentire che ci crea e ci guida, allora si, possiamo rilassarci.

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Smettere di lottare

Osservare, ascoltare, discernere, accogliere.
Il soggetto lotta e dice: “Debbo farcela!”. La persona che è in bilico tra il soggetto e la sua scomparsa, non lotta più, si dispone all’obbedienza.
A chi obbedisce? Al sentire che la conduce, che genera le scene, che la sospinge in una direzione o in un’altra.
Ad un certo punto del cammino esistenziale, l’imperativo diviene: “Smetti di lottare perché nel rumore e nell’eccitazione della lotta non puoi ascoltare quanto la vita ha da dirti!”.
Dalla cultura della lotta dobbiamo passare a quella dell’ascolto e dell’obbedienza: lo sguardo si fa allora acuto, l’intelligenza pronta, la capacità di cogliere le sfumature e di leggere i simboli, alta.

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