Una ecologia interiore

Il corpo mentale e quello astrale ricevono impressioni senza sosta: il mondo propone se stesso senza mai stancarsi e lo fa con strumenti affinati e penetranti.
A noi spetta l’edificazione di una ecologia interiore quotidiana.
Di cosa nutro i miei corpi? Di cosa alimento il corpo fisico, il corpo delle emozioni, il corpo mentale?
Essi sono i veicoli della coscienza: sono incrostati di scorie, di inutile, di distorto?
Cosa sono le scorie? La risultante di stratificazioni e di sedimentazioni, di abitudini mai messe in discussione, di disintossicazioni e disconnessioni mai affrontate e coltivate.
Cos’è l’inutile? Gran parte di ciò di cui ci circondiamo e ci nutriamo interiormente ed esteriormente: ciascuno faccia il proprio elenco di ciò che gli è veramente indispensabile e scoprirà l’elenco sterminato delle fesserie di cui si circonda.

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La nostra malattia vera

«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? 28 E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; 29 eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? 31 Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” 32 Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. 34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno. Matteo 6,25-34  

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Sedere insieme in zazen

Ieri a quest’ora eravamo seduti in zazen. La luce del tramonto e il silenzio ci hanno accompagnati.
Al termine non ci sono state parole, ognuno è tornato a casa portando con sé il raccoglimento di quell’ora.
Sedere insieme in zazen è l’essere assisi nella gratuità: praticare senza scopo, semplicemente stare.
Praticare zazen è praticare l’Essere: il film della vita scorre e non c’è adesione, né identificazione.
I pensieri sono solo pensieri, le emozioni solo emozioni, la vita solo vita.
Sedere in zazen è la libertà dal condizionamento che diviene fatto, esperienza tangibile.

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Come nasce la realtà

Non è lo spettatore che si commuove alla proiezione delle scene commoventi del film, ma è la commozione dello spettatore – commozione proveniente dal più profondo del suo “sentire” – a determinare il succedersi sullo schermo delle scene commoventi.
Questo è il modo di considerare la Realtà non secondo il punto di vista dal relativo all’Assoluto, ma dall’Assoluto al relativo, da Dio all’uomo.
Cerchio Firenze 77, Per un mondo migliore, pag. 179, Edizioni mediterrane

Il film di ciascuno è la propria vita: noi pensiamo che le scene scorrano secondo logiche loro, invece esse accadono perché create dal nostro sentire, dalla coscienza che è origine di noi e del nostro vivere.

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L’orizzonte del sentire

Ho incontrato ieri Elena, da tempo compagna nel viaggio interiore e da quell’incontro nascono queste riflessioni.
Le coscienze si muovono sospinte dagli archetipi permanenti e orientate/condizionate da quelli transitori.
L’archetipo permanente dell’amore permea una coscienza che lo realizza sulla base delle comprensioni acquisite nella forma stabilita dagli archetipi transitori, nella fattispecie nella forma della famiglia fondata sulla coppia.
L’archetipo permanente dell’unificazione* si articola nell’archetipo transitorio del monaco e del monachesimo.
Ogni spinta universale si incarna in una forma transitoria e “locale”. Questo è l’ambiente vibratorio nel quale operano le coscienze.
Ma cosa accade quando una coscienza sente sempre meno l’influsso degli archetipi transitori e sempre di più è indotta ad obbedire, a conformarsi, alla natura di quelli permanenti?
Accade un suo “estrarsi”, un “eradicarsi” dalle convenzioni, dalle regole, dalle visioni che governano il divenire e con esso il mondo.

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Oltre la paura, il gioco

Dice Samuele nel suo commento a La gioia di andare oltre sé: “Come trasformare gli stimoli esterni che chiamano in causa il sé, in vita in cui dimenticarsi di sé e dedicarsi all’altro?”.
Essere chiamati in causa è la norma quando si vive: ci sentiamo coinvolti come identità e sentiamo che queste sono continuamente sotto esame, messe alla prova, giudicate e parametrate.
Siamo, normalmente, nella morsa del dover essere, del dover dimostrare: è possibile uscirne?
Si, quando si è compreso che ogni scena del quotidiano altro che non è che uno spezzone di un film dal nostro sentire prodotto.
Quando si ha chiaro che ogni accadimento è una possibilità di apprendimento e che la vita altro non è che ampliamento del sentire che ci crea e ci guida, allora si, possiamo rilassarci.

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Smettere di lottare

Osservare, ascoltare, discernere, accogliere.
Il soggetto lotta e dice: “Debbo farcela!”. La persona che è in bilico tra il soggetto e la sua scomparsa, non lotta più, si dispone all’obbedienza.
A chi obbedisce? Al sentire che la conduce, che genera le scene, che la sospinge in una direzione o in un’altra.
Ad un certo punto del cammino esistenziale, l’imperativo diviene: “Smetti di lottare perché nel rumore e nell’eccitazione della lotta non puoi ascoltare quanto la vita ha da dirti!”.
Dalla cultura della lotta dobbiamo passare a quella dell’ascolto e dell’obbedienza: lo sguardo si fa allora acuto, l’intelligenza pronta, la capacità di cogliere le sfumature e di leggere i simboli, alta.

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La mente crea idoli e miti

[…] Il saggio, per definizione, vede le cose come le vede Dio stesso perché, penetrando in sé, è immerso in Dio. Al fondo della sua contingenza, ha scoperto l’essere; al fondo della sua distinzione, l’unità indivisibile; al fondo del tempo, l’eternità stessa. Egli è passato sul piano della vita eterna, è penetrato nel regno di Dio.
Ma come spiegare meglio? E’ diventato un solo spirito con Dio. E’ affondato in Dio, il suo pensiero è affondato, il suo volere è affondato, il suo io non esiste più. E’ entrato nel suo Io divino […] Henry Le Saux, Diario spirituale, pag. 154, Mondadori.
Ciò che Henry dice è ampiamente condiviso da uno stuolo di discepoli e di maestri sparsi nel tempo.
A me mette solo disagio: perché?

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Identità, gestione e depotenziamento

Dice Samuele nel suo commento a Raggiungere la liberazione: Essere naturale quindi inteso come non essere condizionati dalla propria identità. Però è l’identità stessa che ci permette di vivere le esperienze. Se la coscienza ha scelto una determinata identità per fare le sue esperienze ed accrescere il proprio sentire, non sembrerebbe giusto lasciare che quella identità sia libera di ingombrare la scena e fare la sua parte? Non appare coerente rinunciare o soffocare l’identità; forse è solo questione di non essere in balia della stessa, ma come puoi riuscire al contempo ad assecondarla e a non esserne in balia?
Questa espressione è la chiave: “Però è l’identità stessa che ci permette di vivere le esperienze”. L’identità non è un corpo, non è un veicolo, la coscienza non edifica una identità e poi se ne serve.
La coscienza crea i suoi corpi transitori che le permettono di proiettare e dispiegare il compreso e il non compreso nel tempo e nello spazio, nella vita.

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Il letamaio, il monachesimo nuovo

Le menti sono organismi che si adattano, se vivono in un letamaio alla fine non ne sentono più l’odore.
Vi racconto un fatto, vero e semplice: due bambini, fratelli, si stanno azzuffando per gioco. La nonna interviene per separarli, il più grande dice: “Nonna, lasciaci liberi!”. La nonna: “Da grandi sarete liberi!”. Allora interviene il più piccolo, 5 anni: “Bella libertà la vostra, lavorate sempre!”.
All’inizio della mia vita, quando ero un ragazzo, mi era chiaro che non volevo vivere in batteria, come un pollo, stretto nella morsa dei ritmi del lavoro e dei bisogni da ignorante e inconsapevole, costretto ad una normalità abbruttente fatta di valori che per me non significavano niente.
Appena dopo pochi anni comincia la militanza politica, non a caso nell’anarchismo che si era configurato ai miei occhi come il primo orizzonte non condizionato dai miti del lavoro, della famiglia, della normalità.

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