La via, la pratica, il monaco

Dicevamo nel post di ieri che nessuno si libera da sé, il vivere ci libera. Se così è, e dal nostro punto di vista di questo non dubitiamo, la via interiore e le sue pratiche hanno la funzione di accompagnarci nel cammino quotidiano incontro a noi stessi, che avviene nelle molte officine esistenziali di cui il mondo è costituito e in alcune delle quali siamo immersi.
Se la prima ed ultima maestra è la vita; se ogni comprensione viene generata grazie alla relazione con l’altro da sé, allora sorge un problema di non poco conto:
che senso hanno i radicalismi di non poche vie interiori, le meditazioni estenuanti, i voti di vario genere, le molte discipline interiori cui si dedicano i praticanti?
Ho in mente le comunità monastiche cristiane dove uomini e donne sperimentano e vivono in comunità separate e dedicano non poche delle loro risorse alla gestione e al contenimento delle loro nature.

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Raggiungere la liberazione

Così potremmo dirvi semplicemente, come unico insegnamento: “La sola cosa che dovete fare per raggiungere la liberazione del continuo incarnarsi è quella di essere sempre e totalmente naturali in ogni vostra manifestazione”.
Ma ciò, pur essendo vero, può anche essere frainteso e male interpretato: gli animali sono naturali quanto l’uomo – in genere – non riesce ad essere, eppure sono appena all’inizio del loro ciclo evolutivo e ancora molte e molte incarnazioni dovranno avere nel piano fisico prima di uscire dal giro della ruota. Allora, essere naturali come? Cos’è che fa diventare naturale o innaturale un comportamento, un modo di agre o di non agire? Cerchio Ifior, Dall’Uno all’Uno, vol.4, pag. 100, Edizione privata.
La sola cosa che dovete fare è quella di essere sempre e totalmente naturali! Quante volte abbiamo letto e ascoltato questa frase da maestri di ogni risma!
E l’abbiamo accolta, con un dubbio nel cuore: ma come si fa?

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Oltre identità/coscienza

Chiede Marco: “Mi sembra che quello che dici nel post ‘Fin quando tutto parla di noi?’ abbia a che fare con il tema dell’ultimo Essenziale, che era, come tu stesso hai detto, uno stimolo ad andare ancora più in profondità.
Il riconoscere ciò che si presenta come qualcosa che parla di noi è già un passo avanti rispetto al lamentarsi e all’attribuire agli altri le nostre reazioni, ma evidentemente non ci si può fermare lì.
Finché siamo noi il punto di arrivo di tutto, l’ego comunque trova pane per i suoi denti.
All’Essenziale ci hai fatto notare come facilmente l’ego possa nascondersi anche dietro i gesti, almeno apparentemente, più altruistici.
Il protagonismo, l’essere comunque al centro di una realtà sentita come propria è sempre dietro l’angolo.

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Quando vediamo l’altro

In assenza di mente l’altro compare, solo allora lo vediamo per quello che è.
Prima, in presenza di mente, non abbiamo visto lui, ma il nostro racconto su di lui.
Quando la mente tace, l’altro compare e noi non possiamo dire di conoscerlo allora, perché quella è una pretesa della mente: in assenza di mente non c’è conoscere o non conoscere, c’è solo la realtà.

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Dai bisogni al servizio

Nella via interiore è come nella vita: le persone sono piene di bisogni e di domande.
Man mano che sperimentano e comprendono, le domande si diradano e i bisogni divengono più sottili e discreti.
Infine viene una stagione in cui le domande smettono di sorgere e i bisogni sono prossimi allo zero.
Allora possono accadere tre cose piuttosto diverse tra loro:
– la persona si distacca dal cammino fino ad allora percorso, per dedicarsi al piccolo quotidiano, alle piccole cose che oramai riconosce come l’unica realtà che accade nel presente;
– la persona abbandona il cammino seguito e in poco tempo si inserisce in un altro, essendo in lei rimaste domande e bisogni non superati;
– la persona non più mossa da una motivazione propria, vede dentro di sé sorgere la possibilità di servire il cammino altrui.

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Ignoranza ed illusione

Dice Samuele, con la lucidità che gli è propria: “Il rifugio nella mente rappresenta a volte un vero e proprio anestetico. Rapisce i sensi e ti conduce in una zona franca, anestetizzando la vita”.
Fatti di mente, volgarizzeremmo noi. E’ il gioco comune, feriale, quotidiano di tanti di noi, della gran parte degli umani che vive la vita attraverso il filtro irreale di quello che crede, di quello cui aderisce, di quello che desidera.
Costruiamo fotogrammi di un film fantastico basato sulle nostre proiezioni, giudizi, desideri e legando fotogramma a fotogramma lo facciamo scorrere, lo rendiamo coerente ed infine dichiariamo che è noi, la nostra vita, la realtà.
Niente di tutto questo è reale, ma a noi lo sembra e questo ci basta.
L’altro? E’ come lo vedo io. Quel fatto? E’ come me lo racconto. Se non fosse tragico per le conseguenze che produce, sarebbe ridicolo.

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Imparare e contemplare

Imparare e contemplare sono due livelli differenti di esperienza: il primo apre la porta al secondo.
Imparare significa essere disposti a vivere ciò che viene, a sviluppare ed alimentare conoscenza, consapevolezza, comprensione.
Il vivere, lo sperimentare produce senza sosta l’acquisizione di tasselli di comprensione, di atomi di sentire: il processo dell’imparare non ha fine ed ogni passo amplia il sentire e struttura la comprensione propria del corpo della coscienza.
Mentre questo accade, nel ventre dell’accadere se la persona ha la giusta disposizione ed è sorretta dalle comprensioni necessarie, si può aprire la porta ad uno sperimentare nuovo e più profondo: l’azione che insegna nella sua profondità diviene l’azione che è.

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Dove vai tu? Dove vanno gli altri?

Viene un tempo in cui la direzione è interiorizzata e non hai scelta alcuna: la domanda sul dove vai perde senso perché ogni fatto ti conduce a quel che è, altra possibilità per te non esiste.
I fatti sono il tuo orizzonte, il simbolo che portano ti illumina il cammino, ti dice dove stai imparando e come lo stai facendo.
E’ un lavoro minuto, intimo e discreto, nascosto nella soggettività del tuo percorso, di ciò che impari e che a nessuno può essere rivelato: nessuno sa che cosa tu stai imparando; nessuno può sapere che cosa è per te la realtà; nessuno immagina cosa gli altri portano nella tua vita.
Nel tuo piccolo quotidiano, tu non vai da nessuna parte: ti si presentano fatti, ti plasmano, scompaiono. Niente altro.

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Le domande necessarie

Dice Caterina: Come essere umano ho tanti limiti e non posso decidere gli accadimenti. Farsi troppe domande su quello che ci succede é abbastanza inutile. E comunque é sempre l’accadimento perfetto per noi. La mente fa casino: “Perché è successo? Perché andavo di fretta? Bla bla…” Senza il casino ci sono solo i fatti che accadono. Cos’è il libero arbitrio?
– Il fatto che ciò che accade sia perfetto per noi non significa che non debba interpellarci.
– Certo, se non ci poniamo domande, ci sono solo i fatti, ma è questo un atteggiamento giusto?
– Non ha forse una sua funzione il domandarsi della mente?

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L’accidia, il lutto della mente

L’accidia è quel senso di noia, di fastidio, di disgusto della vita, di torpore spirituale e di scoraggiamento che colpisce al cuore la vita del monaco: tutto ciò che egli è, fa o crede perde improvvisamente significato, tutto diventa ai suoi occhi inutile e vano […] Da Il cammino del monaco, pag 769, Ed. Quiqajon, Bose.

Fino a quando l’identificazione con la vita, il proprio esserci e spendersi, le proprie mansioni, funzioni, ruoli è sostenuta, il pericolo dell’accidia non si presenta.
Quando la pratica meditativa e contemplativa, i processi di disconnessione e di disidentificazione si fanno più profondi; quando le comprensioni conseguite rendono evidente l’effimero accadere degli attaccamenti, dei bisogni, dei giudizi allora bussa prepotente il lutto della mente che storicamente è stato definito con i termini acedia, accidia.

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