La crisi è il frutto della relazione tra coscienza ed identità all’interno dei processi del vivere.
Quando l’identità resiste e cerca di imporre una sua direzione, prima o poi sopraggiunge una crisi, un attrito, un rompersi dell’equilibrio deviato: questa crisi evolve spesso nel dolore e nella fatica.
Quando coscienza ed identità sono sufficientemente allineate, la crisi è continua, l’equilibrio raggiunto viene sistematicamente scalzato: questo processo può provocare disorientamento, ma non necessariamente dolore e fatica.
Sempre la crisi rompe un equilibrio, o un pseudo equilibrio; sempre ciò che era credibile non lo è più, ciò che era stabile vacilla.
Che si tratti di affetti, di lavoro o della via spirituale poco importa: tutti sperimentano la crisi, ma quasi nessuno ne possiede il paradigma, o la sa maneggiare, eppure la vita delle persone, dei paesi, del pianeta è una crisi senza fine, è l’esperienza più prossima a ciascuno di noi, più quotidiana e feriale.
Essenziale
La meditazione e l’atteggiamento meditativo
1- In questo preciso istante, dove è appoggiata la consapevolezza?
2- C’è la disposizione a lasciar andare, a non trattenere, a non indugiare sull’oggetto della consapevolezza?
3- Se lascio andare, dovendo comunque esserci un punto focale, dove si appoggia allora la consapevolezza?
4- Sulle sensazioni, la piattaforma base di tutto l’esistere.
Questo processo è valido a patto che poi le sensazioni non divengano il nuovo indugio.
Il processo descritto è quello dell’atteggiamento meditativo che accomuna un po’ tutte le pratiche meditative: il punto focale può essere rappresentato dal respiro, da un oggetto, da una parola invece che dalle sensazioni, ma la sostanza è quella.
I segni di un nuovo sentire
Ciò che è stato e che è come realtà sociale e personale è ampiamente condizionato dalle logiche della mente: dividere, giudicare, competere.
Guardando alla storia passata mi sembra che questo emerga con chiarezza; guardando a quella attuale ci cono segni di un cambiamento di tendenza.
Prendo ad esempio il processo di unificazione europeo: da singoli e sovrani stati, a comunità di stati e forse, domani, a federazione sovranazionale dove gli stati nazionali saranno drasticamente ridimensionati al ruolo di regioni territoriali e amministrative.
Questo processo, così travagliato e dagli esiti decisamente incerti, non è forse il passaggio dalla divisione alla collaborazione, condivisione, cooperazione, fusione degli intenti e dei mezzi?
Non difendere e fiducia
Dice Natascia: L’accettazione dei propri limiti, il non voler difendere la propria immagine porta ad una grande libertà. A volte sento che non c’è più neanche un immagine da difendere. Questo però non di rado mi fa sentire disorientata, confusa. Sarà che quell’accettazione non è senza riserve!
Non rimanere abbarbicati alla palizzata del fortino.
Non sapere nemmeno se c’è più un fortino da difendere da qualcuno là fuori, unito alla consapevolezza che tutta la visione del reale è soggettiva, che il film di ciascuno è personale conduce semplicemente all’esperienza del non difendere.
Cos’è il non difendere?
Avere la chiara cognizione che non esiste il nemico, né il pericolo, ma solo la possibilità.
Vedere l’altro come colui che svela le nostre paure e ci permette di affrontare il non compreso.
Essere consapevoli di una direzione esistenziale fondata sulla disponibilità ad affrontare la vita e a farsi modellare da essa.
Le vite, il divenire, la contemplazione
Guardo i miei cani e regolarmente penso: “Temo che la prossima vita vi toccherà da umani! Che sfiga!”
Tutto evolve dice la mente, tutto diviene: il sentire da limitato ad unitario; la pianta da seme a ricovero per gli uccelli.
E’ certamente così nell’ottica del divenire ma questa è solo una delle ottiche possibili, solo uno degli sguardi sulla realtà.
Diviene la legna cenere mentre brucia? Certo che sì, dice la mente.
Certo che no, dice lo sguardo altro. Come no, la legna arde, diviene carbone ardente e pian piano cenere: si vede, accade sotto gli occhi, non lo si può mettere in discussione!
Verso la libertà interiore
Le domande di Maya (a partire dalla lettura del libro L’essenziale).
Se non c’è l’agente, non c’è la realtà?
Chi è l’agente? La coscienza? L’identità?
Se non c’è identità – il soggetto che si attribuisce l’accadere – c’è solo l’accadere senza attribuzione, pura neutralità (così come è possibile all’umano). E’ la vita che vive l’iniziato/a, colui/ei che è giunto alla fine del proprio cammino incarnativo. La realtà è presente e si manifesta con le logiche del divenire, ma non c’è un soggetto che dice: “Questo è mio!”
Va notato che finché c’è vita incarnata c’è sempre un tasso di identità, magari molto ridotto, per la ragione molto semplice che essendoci i veicoli mentale, astrale e fisico, comunque questi generano un’immagine di sé. Che l’iniziato/illuminato non abbia alcun grado di identità, è pura illusione e appartiene alla mitologia dello spirituale.
La mente, la realtà, il sentire
La persona che non ha ancora aperto le porte al sentire e che è focalizzata sul recitato della propria mente, nulla comprende del reale, della realtà e della sua natura più vera e autentica.
Nulla. Quella persona vede il film del reale, non il reale.
Oltre lo schermo ottuso frapposto dalla mente e dai suo contenuti e paradigmi, nell’affiorare del sentire, nel suo mostrarsi e dispiegarsi, nella possibilità infinita di accesso che apre, lì e solo lì il film sfuma e appare ciò che velava, ciò che c’è oltre: i contorni della realtà assumono allora una connotazione, una definizione, un senso, una pregnanza, una essenza mai conosciuti.
La solitudine, ciò che non si può comunicare
Il sentire non si può comunicare.
La consapevolezza della limitazione rappresentata dall’umano, non si può comunicare.
La visione unitaria non si può comunicare, non a menti che tutto dividono e frammentano.
Il senso di estraneità e di lontananza che convivono con la compassione, questo è un paradosso incomunicabile.
La danza tra identità e coscienza, tra umano e sovrumano, le mille sfumature, i micro conflitti, l’immensità del grande che contiene il piccolo asino del non compreso, questo non è comunicabile a menti che tendono al bianco e nero e non alla molteplicità colorata.
Rimane sepolto nell’intimo proprio un mondo vasto ed articolato e con esso una solitudine irriducibile.
Quando un insegnamento diviene un trastullo?
Diceva Uchiyama Roshi che il bastone durante lo zazen era un giocattolo, un trastullo per il praticante: serviva a rompere la monotonia delle interminabili ore di pratica, una consolazione alla fine ricevere una bastonata!
Quando un insegnamento diviene un trastullo? Quando non è sorretto da una pratica adeguata.
Cos’è una pratica? Dedizione e perseveranza nella frequentazione, nella meditazione, nello studio, nella costruzione di un tessuto di relazioni.
Ciascuno secondo le proprie possibilità, che significa non irregimentati all’interno di un insieme di doveri, ma consapevoli che la trasformazione interiore richiede una molteplicità di approcci.
L’umiltà
Ci divengono comprensibili scampoli di realtà, in frammenti di specchi si rifrange una comprensione.
Ci sembra di poter parlare dell’Assoluto e non avvertiamo il frastuono del raglio che si leva.
Forse dovremmo solo occuparci di come togliere veli dagli occhi, rimuovere escrementi dal sentiero garantendoci un passo stabile nella precarietà delle ore che passano.
L’umiltà è la piena consapevolezza del raglio, lo splendore del non sapere e del non aver compreso, lo stupore di non avere bisogno alcuno.
L’esperienza dell’umiltà ci consegna nelle mani dell’irrilevanza, del non poterci prendere sul serio, del non riuscire a calcare la scena con la convinzione necessaria all’attore.
Se l’attore non crede alla propria parte, cosa accade di lui? Può solo fare un passo indietro e confondersi nella vita.