karma

Karma, possibilità, compassione

Come occidentali, siamo cresciuti nell’humus cristiano intriso del concetto di colpa e di punizione.
Più o meno inconsciamente, associamo il karma alla punizione e non abbiamo ancora sviluppato né una cultura del karma, né quella di una vita che mai è da vittime meritevoli di essere punite.
E’ ancora acerbo il paradigma delle possibilità: la vita come possibilità di comprensione senza fine; il karma come la legge che governa il cosmo e che apre possibilità di esperienze finalizzate al comprendere.
Siamo ancora lontani da questo e dovremo sviluppare una riflessione più approfondita sulla legge di causa ed effetto: da chi è generata la causa?
Dalle necessità di comprensione della coscienza, che genera le situazioni d’esistenza in relazione al compreso e al non compreso.
Qual’è il fine dell’effetto? Offrire ulteriori scene d’esperienza per permettere il realizzarsi delle comprensioni avviate dalla coscienza.
E’ chiaro che tra causa ed effetto esiste il nesso della responsabilità: “sono responsabile del cammino di comprensione, delle sue dinamiche, del suo svolgersi, del suo evolversi all’interno della dinamica causa-suo effetto”.
Quand’è che sono responsabile, quando si attiva la legge di causa-effetto?
In tutti i casi, o solo quando sono consapevole delle possibilità, quando opero A ma potrei anche operare B?
Solo quando in me esiste la possibilità consapevole di una scelta, ovvero quando le comprensioni acquisite mi offrono la possibilità di più alternative.
Se non ho comprensioni tali da avere alternative, scelte possibili, il mio agire non attiva la legge di causa ed effetto.
Quindi il karma si attiva quando, ad esempio, scelgo B pur avendo la possibilità di scegliere A: se ho scelto B, evidentemente in me c’è ancora una comprensione non giunta a pieno completamento, avendo io anche la possibilità di comprendere A; ecco allora che l’intervento del karma mi offre la possibilità di approfondire, di fare altre esperienze finché la comprensione non sarà completa.
Cosa questo significhi nelle nostre vite, credo che ciascuno di noi lo sappia molto bene: il karma ci induce alla responsabilità, all’accoglienza dei nostri percorsi esistenziali, alla compassione sul nostro e altrui procedere.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

Immagine da https://goo.gl/4iMZMa

maestro discepolo

L’insegnante e l’allievo

Tutti noi procediamo sulla base di ciò che ci piace o non ci piace; scegliamo le situazioni a partire da un moto di simpatia, di attrazione, di risonanza.
Tendiamo ad escludere ciò che non ci coinvolge e avvertiamo come lontano o faticoso.
E’ giusto questo procedere? Non lo so; personalmente mi sono confrontato deliberatamente molte volte con ciò che non mi suscitava particolare simpatia e sempre ne ho tratto grande insegnamento. In anni lontani, avendo necessità di comprendere come funzionava il mondo interiore di un cristiano, mi sono dedicato per anni alla pratica della preghiera e alla frequentazione e allo studio dei vangeli e del pensiero esegetico e teologico su di essi.
Non avevo attrazione per quel mondo ma, esistendo ed essendo parte del mio piccolo universo, ho desiderato conoscerlo, divenirne consapevole, comprenderlo.
Era lontano, ed io ero pieno di pregiudizi: alla fine del processo credo di aver compreso quel paradigma interiore, certamente ho superato i pregiudizi e, per quel che è possibile al mio sentire, ritengo di averlo compreso.
Al di là della mia esperienza personale, credo che sia nelle cose il discernimento operato sulla base dei moti di simpatia/antipatia: così opera normalmente l’allievo, colui o colei che si trova nella condizione di dire un si o un no ad un insegnamento, ad una via interiore.
E’ un atteggiamento parziale e limitato che non ci permette di accedere alla realtà delle cose, ma è un fatto che accade nella ferialità delle nostre vite e come tale lo prendo.
L’ottica nella quale si muove un insegnante è molto diversa, non gli è permesso di essere in balia di simpatia/antipatia, deve andare oltre, deve leggere la realtà con gli occhi della compassione che conosce quella antinomia e la supera.
Non solo: un insegnante (altri forse userebbero il termine maestro, ma a me non piace e condivido il monito di Gesù) si muove in una visione unitaria e ciò che dice, propone, insegna avviene come conseguenza di una profonda integrazione degli opposti e sulla base di un tentativo di superamento radicale di quello che è il suo limitato sentire.
Un insegnante cerca la verità dell’essere delle cose, la coglie inevitabilmente con il suo limitato sentire, la lascia decantare per depurarla di ogni aspetto personale e infine, quando avverte un sufficiente grado di neutralità e di verità, la propone.
Il risultato sarà dunque una verità? Non diciamo sciocchezze: sarà la verità parziale a lui/lei accessibile su quel fatto, in quel tempo, a partire dal sentire acquisito e conseguenza del processo descritto.
Quindi sia la verità dell’allievo che quella dell’insegnate sono relative e frutto di un discernimento assolutamente personale? Si.
La differenza sta nel fatto che l’insegnante ha una responsabilità che l’allievo, forse, non ha: ciò che afferma non deve essere condizionato dal pregiudizio e dall’ignoranza, anche se, inevitabilmente , lo è dai limiti della sua comprensione.
L’insegnate ha la responsabilità di ciò che offre, di dove conduce, di come influenza, del piccolo mondo che mette a disposizione di qualcuno che di lui/lei si fida e gli si affida.
Ciò che insegna dovrebbe essere innanzitutto la sua vita, sorretto dalle mille piccole verifiche che solo il quotidiano permette, e dovrebbe essere passato dentro il vaglio della consapevolezza della propria interiore piccolezza, altrimenti chiamata umiltà.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

Immagine da http://goo.gl/EC6RC0

compassione

Vedere la realtà con gli occhi della compassione

Si può vedere e partecipare la realtà con gli occhi della mente che tutto fraziona, tutto giudica, tutto attribuisce.
Si può vedere e partecipare avvolti nel manto delle emozioni e delle affettività che tutto colorano creando trasporto e partecipazione.
Si può infine vedere e partecipare la realtà con l’ampiezza del sentire che tutto abbraccia e nulla discrimina, che tiene insieme le parti e considera il processo più che il singolo fatto, che comprende la realtà sempre in termini unitari.
All’interno del sentire, può sorgere come dono il fiore della compassione che di tutto si avvede, a tutto provvede nella discrezione, con tutto procede nella vicinanza, nella comprensione e nel sostegno, sempre un passo indietro consapevole della propria irrilevanza.
Si può insegnare la compassione? Dubito, anche se ci si può disporre, di certo si può vivere per quel che ci è dato.
Si può coltivare assieme? Si, può essere il piccolo germoglio che la coppia, la famiglia, la comunità, il gruppo di colleghi coltivano a tutte le ore, senza sforzo, semplicemente avendola presente allo sguardo.
Può un cammino come il Sentiero fare della compassione la propria essenza? Lo ha già fatto, nel momento in cui ha edificato le fondamenta del proprio procedere sul limite considerandolo il primo tra tutti gli insegnanti.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

Immagine da http://goo.gl/xWiyB8

atomi dell'assoluto

Compassione, forse

Siamo atomi d’aria nel respiro dell’Assoluto.
Ogni giorno, ad ogni ora proviamo a conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Piccolo o grande che sia l’asino in noi, ciò che esprimiamo è sempre e solo un tentativo, un approccio, un’approssimazione, il segno di un incedere.
Prima di aprire la bocca, dubio di quello che dirò.
Mentre compio un’azione, so che sarà limitata.
Quando mi approssimo a te, so che farò difficoltà a vederti, ad ascoltarti e, a volte, il mio accoglierti è solo maniera.
Vedo l’irrilevanza e l’irrealtà di me e mi fermo, non c’è ragione da dimostrare, qualcosa da aggiungere.
Non c’è tristezza, compassione forse.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

maestro

Il primo ed ultimo maestro

Il nostro cammino di trasformazione avviene con poche persone, quelle che ci danno la vita: i nostri genitori; quelle con cui condividiamo il nostro quotidiano: il partner, i figli, i colleghi di lavoro, il datore di lavoro, i dipendenti.
Impariamo attraverso quelli che ci sono vicini, al fianco; quelli che non riconosciamo come maestri, perché il maestro è sempre altro, in un altrove, è sempre speciale.
È un errore madornale: il maestro di ciascuno è la persona più vicina che ha, chiunque essa sia.
Se avremo il coraggio di aprire gli occhi su questa persona, su queste poche persone, avremo trovato la chiave della nostra vita, la chiave per superare il condizionamento.
Dal libro L’essenziale, Ed. privata, pagina 46

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

amore

Amare è un atto di volontà?

Dice Enzo Bianchi, e con lui i cristiani in genere: “Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù”.
Dunque sembra che l’amore sia il frutto di un atto di volontà del soggetto che crede nell’amore e ama perché Dio lo ha amato per primo.
Definirei questo amore, l’amore voluto e lo raffronterei con l’esperienza dell’amore che accade, l’amore accaduto.
La mia tesi è molto semplice: l’umano scopre l’amore, non lo impara, non lo può volere, non può indursi, non più di tanto almeno, ad amare se questa spinta non gli sorge dall’intimo.
Scoprire l’amore significa che quando lo vedi, lui era già lì: non è tuo, non l’hai fatto tu, non è un tuo frutto. Lui c’era già, l’hai solo scoperto.
L’amore c’è per tutti e tutti, a loro tempo, lo scoprono.
L’amore accaduto è l’esperienza dell’amare che ti attraversa e che non hai voluta, non l’hai cercata, è accaduta a prescindere da te: attraverso te, ma a prescindere dalla tua volontà.
L’amore frutto della volontà lo chiamerei, più propriamente, il bene voluto, il bene fatto, l’operare il bene: è un’esperienza interiore molto differente dall’amore, dall’essere attraversati dall’amore. Altrettanto importante.
L’esperienza dell’amore conduce l’umano incontro alla pienezza di sé e, naturalmente, non può che divenire vita, azione, relazione.
A me sembra che nella visione cristiana dell’amore e dell’amare ci sia del non chiarito: espressioni come credere all’amore, amare gli altri perché Dio ci ha amati, mi sembrano non significanti, non si ama per queste ragioni, non si ama per nessuna ragione. Per queste ragioni si fa il bene.
Si ama perché l’insieme delle esperienze e delle comprensioni ci hanno condotti, passo passo, oltre il limite dell’egoismo e della cecità interiore, fino a far sorgere in noi quell’esperienza precisa e sconvolgente che chiamiamo amore.
La visione cristiana esercita su noi una costante sottile pressione, quasi a volerci indurre e condurre ad amare: pedagogia pessima, come molte delle pressioni, non si può costringere una pianta a crescere più in fretta, non si può indurre un umano ad amare quando non ha in sé la disposizione a farlo.
Si può educare alla generosità, alla collaborazione, alla condivisione, al rispetto. Si può educare al bene, dunque, certo!
L’amore sorgerà nell’intimo della persona quando essa, lavorata dal non-amore, avrà compreso – non capito – che non c’è nulla da difendere, nulla di nostro, nulla che non sia dell’Assoluto, dentro l’Assoluto.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

Il narcisismo, la discrezione, la riservatezza

Che bisogno aveva la Comunità monastica di Bose di promuovere, per il settantesimo compleanno del suo fondatore, Enzo Bianchi, un volume di 760 pagine contenente gli omaggi di 130 autori?
Non lo so. Che bisogno hanno di mostrare nel loro sito le immagini di tutti gli ospiti illustri che visitano la loro comunità?
La leggera brezza del narcisismo attraversa Bose? Non lo so e, in fondo, non mi riguarda.
Potrei allargare lo sguardo sulle magnificenze delle liturgie cattoliche così narranti sé, non certo il divino, o il rapporto con esso.
Ma anche questo, in fondo, non mi interessa.
Allora perché ne parlo? Per evidenziare il valore della discrezione, della riservatezza, del nascondimento anche.
Per interrogarmi sul quando e sul dove, forse, anche noi indugiamo nel mostrare, piuttosto che nell’essere.
Fare un passo indietro, tacere, osservare, ascoltare, servire nel silenzio di sé, pregare nella discrezione protetti dallo sguardo di chi ad altro è intento, meditare nella propria stanza quando ancora gli altri dormono.
Il rapporto con l’Assoluto è rapporto feriale e intimo, sia per la persona che per la comunità, ed ha bisogno di un sguardo interiore non preoccupato del mondano, dell’effimero, di tutto ciò che è vanità delle menti.

Immagine da http://goo.gl/VsVi5X

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

meditazione

La caduta provocata dall’altro parla di un non compreso nostro

Un amico caro dice: “Accade che durante un intensivo, mentre tutto diventa rarefatto e la condizione contemplativa permea l’ambiente al punto che potrebbe essere sezionata con un coltello, qualcuno non ha di meglio da fare che porre una domanda che ci fa precipitare..”
A chi non è capitata una situazione simile? L’interrompersi di una esperienza costitutiva l’intero essere a causa di una banalità!
L’ordinarietà di questi “incidenti” ha portato molti “insegnanti” a strutturare i tempi, ad aumentare il controllo, a costruire rappresentazioni spiritualmente stringenti, con ritualità precise, con atteggiamenti esteriori senza sgarro possibile, con una serietà/severità interiore cui si aderisce senza ombra.
Nulla di tutto questo abbiamo fatto nel Sentiero, né mai lo faremo. Perché?
Perché se una data esperienze interiore ci svanisce nel mentre vi siamo immersi, qualsiasi sia la causa, significa che non è ancora costitutiva del nostro essere, non è ancora compiutamente compresa ed integrata. Lo dimostra il fatto che vi siamo attaccati e quando la perdiamo ci dispiace e dobbiamo faticare per ritrovarla.
Quando lo stato contemplativo è radicato nell’essere, ovvero nulla nella mente vi si oppone, esso viene e va come il vento, non a noi obbedisce, è puro accadere gratuito.
Prima di questo, siamo attaccati alla nostra pratica e alla nostra esperienza, vorremmo proteggerla e preservarla – ed entro certi limiti è giusto farlo – ma non possiamo imbalsamare la realtà, creeremmo quelle situazioni spiritualmente affettate, pompate, sostenute, cariche di liturgia; molto lontane da ciò che coltiviamo come spontaneità, immediatezza, assenza di forma, di pretesa, di presunzione.
Siamo stati sempre lontani dalle liturgie, abbiamo coltivato una ritualità minimale lasciando che i nostri gesti fossero radicalmente ordinari, inserendo parole e situazioni che, di proposito, dissacrano. L’ironia ci è compagna fedele e il sarcasmo qualche volta ci salva.
Lo facciamo per ragioni precise: al vento non deve aggiungersi altro. All’abbandono radicale non deve coniugarsi l’attaccamento. All’apertura alla vita non va posta condizione.
La nostra disponibilità a perdere tutto deve sempre guidarci, orientarci, sostenerci: quando non siamo più tanto disposti a perdere, qualcosa ci rammenta che quello è il centro del nostro cammino.
Concludendo. Quando uno stato è interiorizzato e compreso mai viene perso, è la piattaforma su cui ci muoviamo, il nostro vivere su quello appoggia.
Un disturbo, una caduta vibratoria attivano la mente e i suoi giudizi, le sue aspettative, le sue pretese: a quella attivazione leghiamo la nostra consapevolezza e la frittata è fatta.
Ma se non sorge giudizio? Se non c’è aspettativa caduta in frantumi? Osservata l’increspatura nella mente, subito quello stato ritorna.
Se dobbiamo faticare, può essere per alcune cause:
– non riusciamo a far fluire quell’increspatura perché siamo legati al giudizio/aspettativa e quindi, su quel fronte c’è ancora qualcosa che non abbiamo ben compreso;
– l’organismo nel suo insieme ha reagito scompostamente perché quella non comprensione riguarda molti e quindi il rientro è complesso;
– la bordata è stata consistente e reiterata e in quel caso bisogna provvedere con una gestione più oculata.

Immagine di Roberto D’E.


Alcune considerazioni sul male e sulla malattia

Quando ho tempo e risorse, leggo ciò che scrivono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi. Appartengono entrambi ad un mondo culturale molto lontano dal mio, ma li sento vicini nel sentire o, perlomeno, così mi pare che siano.
Ho seguito la discussione tra Mancuso e Veronesi sulla malattia e sul male (l’ultima, poco più di una settimana fa, ospiti di Fazio) e, in sincerità, mi è sembrato il dialogo di due ciechi che parlano della luce. Mi duole dire questo, lo faccio senza spirito polemico, senza pretesa di essere colui che ha visto la risposta; osservo con umiltà e con un dolore dentro questo girare attorno a questioni mal poste e come tali prive di risposta.
Da tempo volevo scrivere qualcosa sul male, su quello che gli umani chiamano male perché, dal mio punto di vista, esso non è altro che una lettura della realtà, una interpretazione: non un fatto, né una forza.
Semmai è un processo: anche la vita è un processo, non le mettiamo sopra un’etichetta univoca che la giudica, la definisce e non lo farei nemmeno nel caso del processo-male.
Il male è l’assenza del bene?
E cos’è il bene? Lo stato di salute fisica e mentale? L’unità dell’essere? La pace interiore e sociale?
Se desidero la pace, tutto ciò che non è pace rappresenta un problema.
Se sono consapevole che la pace è il frutto di un processo che dal conflitto conduce alla pace, allora mi si apre un mondo.
In questa ottica, il conflitto diviene una delle componenti del processo senza la quale non è perseguibile, né realizzabile la condizione di pace.
La pace assoluta contiene in sé tutti gli stati di pace relativi, limitati. La pace assoluta matura attraverso la pace relativa, l’assenza di pace.
Bene, male sono solo definizioni di condizioni che, in sé, sono processi, divenire, stati del sentire dove il più ampio contiene il più limitato.
Più a fondo, non esiste il processo del bene, né esiste il processo del male, esiste il processo del vivere la vita, del prendere forma e del dispiegarsi di questa ed, infine, del suo venire riassorbita.
Esistono dunque i fatti che vengono giudicati a seconda del paradigma di ognuno: il problema è lì, nel paradigma che considera la mancanza, il limite come male piuttosto che come condizione-dell’esistente-attraverso-la-quale-si manifesta-il-compimento.
Il compiuto contiene il limitato, il particolare, il frammento; l’assoluto contiene il relativo; la libertà contiene i mille gradi della non libertà.
Non esistono libertà e non libertà, esiste solo il processo della libertà: ogni non libertà prepara un grado superiore di libertà, anch’esso non libertà, fino a germogliare nella libertà assoluta che contiene in sé, che è costituita, da tutti i gradi di libertà possibili.
Se io sono nella condizione di manifestare un grado di libertà, di discernimento, di altruismo limitati, è questa una mia colpa? O non è invece lo stato dell’arte, ciò che mi svela, ciò che parla di me e mi indica la strada?
Il limite è il mio male, o la più grande delle mie possibilità?
Il limite, non denunciando una colpa, ma uno stato del sentire, cos’altro è se non il mio specchio più utile, più efficace, più trasparente, più trasformante?
Nel pensiero corrente il male viene associato alla malattia: la malattia è male. Giudicata, etichettata, archiviata, chiusa la discussione. Senza aver spiegato niente e aver capito e compreso niente. Ma pare su questo sia duro discutere, le resistenze interiori sono forti, i bastioni culturali a difesa, alti.
Sarebbe così semplice: come i fatti e i pensieri parlano di me, così pure i processi dei miei corpi parlano di me.
Scusate, ma di chi dovrebbero parlare? Pare non sia accettabile, pare sia più accettato parlare di origine ambientale, o sociale, o casuale della malattia. O di uno squilibrio non meglio definito nel sistema, magari di origine cromosomica. Si la chiave è lì, c’è un errore nel dna e così abbiamo risposto a tutto, quando non sappiamo rispondere a niente, tiriamo fuori la parola magica.
Ma non voglio parlare di ciò che non mi compete e su cui non ho competenze, mi sembra però evidente che il dna è anch’esso una risultante, il frutto di un processo.
Quando un programmatore, attraverso il linguaggio html, o altro, articola un programma, lo fa partendo da un’intenzione e da uno sviluppo di essa: quell’insieme di codici diviene poi qualcosa di fruibile ai sensi fisici umani passando attraverso una serie di mediatori. Se c’è qualcosa che ci appare come un errore nel codice, o l’ha fatto il programmatore contro la propria intenzione, oppure non è un errore, è un fatto, qualcosa di peculiare a quel programma.
La malattia è un errore? E’ un male? E’ una colpa?
La malattia è un fatto, un simbolo che narra la realtà. Quale realtà? La realtà esistenziale della persona.
La malattia non è un fatto esterno che si insinua nel nostro interno: parla di noi, dei nostri squilibri esistenziali, identitari, fisici, relazionali.
Noi e la malattia non siamo due, in sé non esiste alcuna malattia, se Roberto ha la febbre quella è la condizione esistenziale di Roberto quel giorno, quello è il Roberto di quel giorno. Quella febbre racconta qualcosa, svela qualcos’altro: è uno spot che illumina un particolare con l’intento di ricondurre a qualcosa che particolare non è, che ha caratteristiche esistenziali.
La stato che definiamo comunemente di malattia, sia fisica che psichica, è il principale indicatore, il più eclatante nel denunciare che in noi qualcosa non va: l’errore grossolano che commettiamo, è di considerare un organo, ammalato, un comportamento, sbagliato, senza cogliere il valore del sintomo che ci dice: “Sono il dito che indica la luna, il piccolo fatto che denuncia il processo!”.
Non abbiamo nessun paradigma maturo per leggere la malattia come simbolo esistenziale, ma molto è stato già fatto in alcune visioni alternative, ottusamente negate dai custodi ammuffiti dell’ortodossia.
Non abbiamo ancora gli strumenti, l’apertura mentale, l’umiltà, le comprensioni che che ci illuminino sul “dono” della malattia e del male.
Dono inteso come possibilità evolutiva, come chance di cambiamento presente e attiva, come simbolo ineludibile, come occasione che conduce a frutto.
Siamo lontani da questo, molto.
Per ora posso terminare qui; non volevo altro che avviare una riflessione; in me la visone è chiara, ma voglio che gli elementi di una evidenza si costituiscano nell’interiore di ciascuno come frutto di un processo sviluppato assieme. Se mi sarà possibile tornerò su questi argomenti in futuro.
Ho iniziato a scrivere questo post mosso dallo scoramento prodotto in me dal brano di Enzo Bianchi che sotto, in corsivo, riporto; in particolare dalla frase: “Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.”
Parole che mi procurano dolore nel loro essere così lontane dalla comprensione di un’evidenza.

Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre (Mc 1,29-39) può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio. Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi. Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8)
Brano tratto da: http://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/8942-come-gesu-cura-e-guarisce


collaborazione

Il terrorismo, la disgregazione, la via all’essenziale

C’è un dibattito ampio che coinvolge le persone con sensibilità religiose e laiche sulle scelte da fare, sui cambiamenti da operare per evitare che la mala pianta dell’intolleranza e della violenza si riproduca.
Le tesi sono molto articolate, dal mio punto di vista è particolarmente interessante quella che vede nei processi di disgregazione e di marginalizzazione sociale una delle origini.
Ma anche questa contiene un limite: le spaventose ingiustizie e l’iniquità intollerabile nella distribuzione della ricchezza servono a creare un clima di coltura ma, in sé, non posso scatenare ciò che non ha i presupposti per essere scatenato.
Se, esistenzialmente, a me non è necessaria l’esperienza della violenza, non la genererò. Se mi è necessaria, allora certamente l’ambiente nel quale sono inserito la favorisce e mi accompagna funzionale alla sua manifestazione.
Questa tesi, che sostengo, parte naturalmente da un presupposto: l’essere umano non è la conseguenza dell’ambiente nel quale cresce e si struttura ma, al contrario, è il fattore che quell’ambiente crea.
Una società prevaricatrice, iniqua, ingiusta fin nelle midolla non è generata da un manipolo di male intenzionati e di egoisti, è il frutto del sentire comune e ampiamente condiviso.
Il terrorismo, le esasperazioni spaventose del capitalismo (che pari per gravità e responsabilità sono) manifestano in modo eclatante un limite nel sentire individuale e collettivo: non sono l’origine, sono il frutto simbolico eclatante di un processo, di uno stato dell’interiore che riguarda tutti.
Qual’è la soluzione a mio parere?
Non continuare a dire sciocchezze sull’Islam; non limitarsi alla sola analisi sociologica dei fenomeni; non guardare al dito piuttosto che alla luna.
Qual’è la luna? Il deficit di sensibilità, di responsabilità, di altruismo che accomuna tanti di noi, la maggior parte di noi.
Cosa fare? Una cosa molto semplice: mettere al centro l’essenziale.
Cos’è essenziale? Il processo della conoscenza, il processo della consapevolezza, il processo della comprensione.
Questo essenziale non ha connotazione religiosa, né laica, precede semplicemente l’una e l’altra, è la cosa più naturale all’umano, è già quanto esso sta vivendo ma, siccome lo vive in modo inconsapevole, non sa governarlo e non sa eliminare da esso gli aspetti più dolorosi.
La conoscenza di sé e della vita è l’essenziale; la conoscenza delle relazioni e di ciò che esse portano, è l’essenziale; la consapevolezza dei processi mentre accadono, il vederli e il vedersi, è l’essenziale.
Dalla conoscenza e dalla consapevolezza coltivate come disposizioni centrali del proprio vivere, sorge la comprensione, il suo processo: ogni esperienza produce apprendimento e ciò che è appreso e compreso non verrà replicato tal quale, ma produrrà frutto nuovo, possibilità creativa nuova.
E’ così che si superano la violenza, l’intolleranza, l’egoismo sfrenato, la sopraffazione, la stupidità frutto dell’ignoranza di sé.
E’ un cambio di paradigma che questo tempo ci richiede: dalla centralità dell’egoismo e della persona/natura/merce, alla centralità del conoscere, dell’essere consapevoli, del comprendere attraverso la collaborazione, la condivisione, il rispetto.
Questa mi sembra la via per l’immediato e per il futuro, una via con un basso tasso di dolore.

Immagine da http://goo.gl/yfj4kF