Nel quotidiano ancorarsi all’essenziale

Che cosa è essenziale nel quotidiano? Un fatto piuttosto che un altro?
No, l’essenziale è non scegliere tra fatto e fatto compilando così una graduatoria con in cima ciò che riteniamo più importante (fatte salve le situazioni che hanno una scadenza o che coinvolgono altri).
L’essenziale è considerare tutti i fatti importanti, tutti meritevoli della nostra attenzione, consapevolezza, dedizione.
Che cosa vuol dire essere dediti ad un fatto che accade? Significa riconoscerlo come la nostra vita e realizzare che solo nella consapevolezza e nella presenza quel fatto diverrà portatore di senso, di soddisfazione e di realizzazione.
Fino a quando stiliamo graduatorie siamo sempre alla ricerca del fatto eclatante, di quello importante che magari ci cambierà la vita: quando la smettiamo con questo comportamento e apriamo gli occhi su ciò che abbiamo davanti scopriamo che ogni cosa, ogni evento – anche il più irrilevante – è vita che si presenta, ci interroga, ci trasforma e ci libera.
Da cosa ci libera? Da noi stessi, dalla nostra pretesa del rilevante, del significante, del determinante.
Sarà allora una noia mortale non essendoci più qualcosa che ci eccita e ci galvanizza?
Questo è il timore della mente/identità ma la realtà è molto diversa: più usciamo dalle logiche del desiderio più la nostra vita diviene piena di senso e di pace.

L’immagine è tratta da: http://cultura.panorama.it/arte-idee/grafici-mobili-editore-corraini-salone-del-mobile

Il maestro nello zen

“Non voglio dire che non esista, nelle scuole Zen, la relazione maestro/discepolo, ma è una relazione personale, senza forma e, perciò, indescrivibile. Ogni volta che gli diamo forma fissa, sia con l’idealizzazione sia con titoli o certificazioni ufficiali, uccidiamo e imbalsamiamo la sostanza della relazione.”


 Il maestro nello zen, alcuni brani
Mauricio Yūshin Marassi

Il testo è tratto dal sito: http://www.lastelladelmattino.org/
pubblicato con il titolo “Senza maestro o senza MAESTRO”

[…] A mio vedere, il dar per scontato l’esistenza di una figura chiamata “Maestro” (con annessa la conseguente possibilità di far carriera diventandolo) e l’accostamento, almeno verbale, tra la pranoterapia e lo Zen, sono due parti di un medesimo discorso. La prima parte si lega ad un processo storico all’interno del quale gli occidentali (prima gli americani e poi gli europei) hanno dato vita (anche con interessate complicità giapponesi) ad una attività, quasi un mestiere, che è una vera e propria degenerazione: il Maestro Zen. E’ un nome/figura che nella tradizione viene negato sin dall’inizio: nel Butsu Yui Kyō Gyō, componimento considerato contenere le ultime raccomandazioni di Shakyamuni morente, una larga parte è riservata a spazzare via ogni velleità di costruire maestri o di atteggiarsi tali. In questo sutra si afferma con chiarezza che il vero maestro, la lampada che illumina il cammino e la realtà tutta, è la scintilla di vita pura che sgorga continuamente in noi e che ascoltata ci guida. La trasmissione può avvenire solo tra pari (cfr.Shōbōgenzō Bendōwa), così come è possibile indicare la giusta direzione solo a chi si trova già sul sentiero. Chiamiamo forse “Maestro” chi ci guida in un’escursione in montagna? Lo rispettiamo, gli siamo grati, forse ci ha salvato più volte la vita, ma non eleviamo ogni sua attività a puro insegnamento che salva, anche fuori dei sentieri dei monti. Il maestro di sci o il maestro di musica, non sono “Il Maestro”.

[…] In tutta la tradizione cinese e giapponese, sino ai nostri giorni, non c’è né il ruolo né il termine che corrisponda a ciò che si (fra)intende con la parola occidentale “Maestro”. Vi sono appellativi onorifici, quali zenji erōshi, ma questi non corrispondono ad un ruolo o ad un livello di realizzazione dell’insegnamento. Qualsiasi vecchio monaco può essere definito tale per rispetto o perché, in quel periodo, è abate di uno dei due monasteri più importanti. Ma anche in questo caso non è in alcun modo un’investitura sacra, un riconoscimento della buddità o dell’illuminazione di qualcuno. Anche il termine “kyōshi”, sebbene significhi comunemente “insegnante, professore”, nella realtà dello Zen Sōtō, in Giappone, è tutt’altro dalla patente da Maestro (che non esiste), come è a volte inteso in occidente. Consiste in un certificato, rilasciato dall’amministrazione del clero (Sōtōshū Shūmuchō) ed abilita a condurre un tempio o qualsiasi attività ufficiale (in Giappone o altrove) utilizzando il nome della Scuola Sōtō Zen. Non ha nulla a che vedere con la presunta realizzazione di un alto livello dell’insegnamento. Devono avere il “kyōshi” (assieme ad un complicato intrigo di altri certificati) tutti i preti del Soto Zen, altrimenti, non potendo gestire un tempio, non potrebbero, per esempio, neppure officiare funerali. Che, in Giappone, sono la principale fonte di sostentamento del clero.

E’ vero che in Giappone ogni ruolo, civile o religioso, appartenendo ad una società a forte contenuto tradizionale (ancora fondata sul presupposto che il suddito che ubbidisce all’imperatore/dio compie così il volere divino, ossia è esso stesso la longa manus del dio imperiale nella realtà spicciola) ha una valenza anche sacrale. Quindi il religioso preposto alla conduzione del tempio, per quanto poco versato nelle “cose” dello Zen è, per il suo stesso ruolo, in una posizione a contenuto sacrale. Tuttavia è così anche per il capotreno o per il capoufficio, come pure ha una forte autocoscienza/autostima (e per molti versi questo si traduce in carisma e in sacralità di ruolo) l’anziana signora che pulisce il pavimento della stazione o il poliziotto che regola il traffico. C’è chi sta sopra e chi sta sotto ma ognuno è re nel proprio regno.

Forse proprio per questo, in America, nei primi decenni del secolo scorso, quando cominciarono ad arrivare i primi monaci/preti buddisti e (anche grazie ai libri di D.T. Suzuki) si guardò a loro non tanto come officianti di riti per i Giapponesi defunti in terra straniera (quali in parte erano), ma come portatori di insegnamento sapienziale altissimo (come avrebbero dovuto essere), avvenne che la prosopopea (di alcuni) ed i titoli di cui quasi tutti si fregiavano (che in patria erano semplicemente appellativi rispettosi) furono tradotti col nome ed il ruolo sacrale di “Zen Master”. Caricando questo ruolo/espressione di tutti i significati più elevati. Sino alla cosiddetta “Presentazione Idealistica” di Richard Baker (cito, tradotto, da “Means of Authorization” di Stuart Lachs, reperibile sudarkzen):

“Richard Baker, nell’introduzione al più venduto libro sullo Zen in lingua inglese, Zen Mind, Beginner’s Mind (Mente Zen, mente di principiante) descrive il termine “rōshi” nel seguente modo:

« Un roshi è una persona che ha realizzato quella perfetta libertà che costituisce la potenzialità di tutti gli esseri umani. Egli vive libero nella pienezza di tutto il suo essere. Il flusso della sua coscienza non è fatto di strutture fisse e ripetitive come la nostra coscienza egocentrica, ma sorge anzi spontaneo e naturale dalle effettive circostanze del presente. Tutto ciò comporta una vita dalle caratteristiche straordinarie – capacità di rimanere sempre a galla con le proprie risorse, vigore, spontaneità, semplicità, umiltà, serenità, allegria, incredibile perspicacia e incommensurabile compassione. Il suo intero essere attesta che cosa significhi vivere nel presente. Anche senza che si dica o si faccia nulla, l’impatto puro e semplice dell’incontro con una personalità così evoluta può essere sufficiente perché cambi l’intero sistema di vita di una persona[…]». [Cfr. anche S.Suzuki, Mente zen, Ubaldini, Roma 1976, pag. 15].Bisogna tener presente che quanto sopra fu scritto come introduzione alle parole ed agli insegnamenti dell’insegnante del signor Baker, ossia Suzuki rōshi. Quindi questa introduzione intendeva descrivere una persona reale, e, per estensione, come è chiaramente affermato all’inizio della citazione, tutti coloro che si fregiano del titolo di “rōshi”. Non è il riferimento idealizzato ad un essere celeste oppure a qualche figura religiosa di una lontana mitologia”.

Penso sia facilmente comprensibile che presentare (siamo nel 1970, agli albori del buddismo Zen in America…) un titolo/persona/ruolo/funzione con quegli attributi può portare solo a due tipi di conseguenze, ambedue catastrofiche: che nessun essere umano venga ritenuto degno, idoneo, di rivestire quel ruolo (non si troverà nessuno così apparentemente santo da soddisfare sempre tutte le condizioni: il nostro idealismo troverebbe sempre qualche cosa per cui “il tale” non è all’altezza) oppure che, quando qualcuno (come Suzuki Shunryu in America o Deshimaru Taisen in Europa) è accettato in quel ruolo da uno o più seguaci/discepoli, altri se ne aggiungano acriticamente divinizzando il poveraccio di turno. Quando lo scorso anno (ossia 30 anni dopo le parole di Baker!) andai a San Francisco, alcuni confratelli che conoscevano la propensione iconoclasta o poco rispettosa delle forme e dei riti da parte di noi Italiani, mi raccomandarono di far bene attenzione a come parlavamo, con i fratelli Americani, di Suzuki Roshi “perché, dissero, qui in America è considerato alla stregua di un dio”. Ora Suzuki Shunryu, per quello che mi consta, era un brav’uomo e non approfittò di quella pericolosa situazione in cui tutto gli era permesso perché, per definizione, ogni suo atto, anche il più assurdo, essendo lui “roshi”, era di fatto un profondo insegnamento dharmico. Ma, alla sua morte, quando la palla passò ad altri (a cominciare proprio da Baker) immediatamente cominciarono gli abusi e continuano tuttora. Il perché, a mio parere, è abbastanza semplice. […]

 (Articolo pubblicato sulla rivista Dharma, n. 5 Aprile 2001)
L’immagine è tratta da: http://www.psicologianeurolinguistica.net/2010/04/sviluppo-personale-13-consigli-per.html

Che cos’è il sentire di coscienza

Brano del libro “L’essenziale”(5) pag. 20 nuova edizione.
Il sentire sono le comprensioni che formano il corpo della coscienza. Come il corpo fisico è composto di cellule, così il corpo della coscienza è composto di atomi di sentire, di cellule di sentire.
Le cellule di sentire si formano attraverso le esperienze, solo attraverso le esperienze nel tempo e nello spazio, nel divenire.
Naturalmente il sentire è anche organo di senso perché la realtà, su quel piano, viene percepita attraverso esso, viene sentita.

Commento: L’intenzione genera l’esperienza la quale permette di capire e di divenire consapevoli di aspetti di sé, dell’altro, della realtà.
Ciò che è capito in varie situazioni produce trasformazioni nel modo di interpretare e vivere la realtà: il soggetto che “capisce” è l’identità.
Si crea un circuito virtuoso: la trasformazione del punto di vista cambia la realtà e questa muta il punto di vista.
Vari aspetti che sono stati capiti dall’identità danno luogo ad una comprensione: un insieme di dati si costituisce come atomo di sentire.
Gli atomi di sentire costituiscono aggregazioni, cellule di sentire e queste danno luogo ad aree/isole di sentire: pian piano si struttura il corpo della coscienza.
Di esperienza in esperienza, di esistenza in esistenza il corpo si completa e quando è adeguatamente strutturato termina l’esperienza della coscienza nel tempo e nello spazio, essa non ha più necessità di sperimentare e comprendere attraverso il veicolo mentale, emozionale, fisico.
E’ quella che l’umano definisce condizione di illuminazione o di santità.

L’immagine è tratta da: http://astronomicamentis.blogosfere.it/2011/02/e8-la-teoria-geometrica-delluniverso.html

Natale 1993-2013: vent’anni di esperienze e lo scomparire nel silenzio

Ho smesso di lavorare pochi giorni prima del natale 1993 e da allora vivo qui, nell’Eremo dal silenzio, con Catia e Letizia.
Sono accadute tante cose e tante trasformazioni in venti anni; in questo sito trovate scritti, libri, testimonianze e tracce di un cammino: non è necessario aggiungere altro.
Qui voglio brevemente parlare dell’esperienza del silenzio che è maturata in questi anni e che oggi, ogni giorno, mi stupisce nel profondo perché senza sosta narra dello scomparire del protagonista per lasciare sul palcoscenico solo sequenze di fatti, accadere senza passato, senza futuro, senza soggetto.
Silenzio significa assenza di un artefice, di qualcuno che si attribuisce un accadere, un pensiero, un’emozione.
Una benedizione la libertà da se stessi.

Senza forma

Tutto ha una forma, può un cammino interiore sfuggire a questa regola?
Non credo, una qualche forma la si ha sempre; nel nostro caso la perdita della forma è stata una costante della nostra ricerca.
In che cosa si traduce? In una disarticolazione nella percezione di sé e in una profonda relativizzazione del proprio cammino.
La conseguenza è che l’immagine che si propone all’altro non è catalogabile, non è collocabile negli archivi del conosciuto.
La persona del Sentiero, colui/ei che nel proprio intimo ha lasciato affiorare l’archetipo del monaco, è un senza casa;
nessuna appartenenza può scaldargli il cuore, la disponibilità a vivere in sé l’uno-in-tutto lo apre all’incontro con la realtà dove non porta un immagine ma solo la radicale evidenza del “ciò che è”.
Il Sentiero è un’evidenza per chi lo percorre ma è invisibile a chi non ne conosce i passi.

Il nostro cammino laico

E’ possibile procedere lontano da tradizioni, religioni, mode, influenze che giungono da ogni direzione?
E’ questo il nostro tentativo ed è reso e rimane possibile solo se mai distogliamo lo sguardo dal nostro quotidiano, da ciò che attimo dopo attimo la vita ci presenta.
In quei fatti minuti possiamo trovare la direzione, l’ispirazione, il necessario che ci illumina il cammino.
Ogni fatto ci svela e parla di noi, delle resistenze, del non compreso; ogni fatto relativizza le nostre credenze, le nostre adesioni, le nostre fughe.
L’aderenza al presente quotidiano e feriale ci rende profondamente laici, non legati ad alcuna filosofia, ad alcun paradigma, sufficientemente disincantati, radicalmente neutrali rispetto a ciò che la mente afferma.
E’ un lavoro lungo e paziente che richiede discernimento, consapevolezza, grande fiducia in ciò che accade e che mai è contro di noi.

La foto è tratta da www.ilpost.it

Raccogliere l’erba sul viale.

stamattina ho radunato in mucchi l’erba tagliata del viale per portarla via col trattore.
mi succede con i lavori ripetitivi, dove non c’è la necessità di stare concentrati sul pezzo o di stare attenti a non farsi male

continua..