Chi crea la via spirituale e il suo “maestro”?

Prendo spunto da questa discussione in Comunità del Sentiero.
La tesi: la necessità di esperienza e di comprensione delle coscienze crea le vie spirituali e i relativi fondatori o maestri.
Il singolo fondatore/maestro non fonda alcunché, è il catalizzatore di una spinta che giunge da gruppi più o meno vasti di coscienze che generano la rappresentazione spazio-temporale a loro necessaria.
Il fondatore che inizia una via si trova a conferire a questa le caratteristiche, la filosofia, la teologia, le ritualità che necessitano alle coscienze che in quella via sperimentano e che è da esse stesse generata.
Il fondatore è il terminale di un processo creativo, non il punto di partenza.
Ciò che le coscienze vanno a condurre a rappresentazione può essere ancorato ad archetipi permanenti o transitori:
-ciò che Gesù il Cristo ha condotto a manifestazione è un impulso, una intenzione sicuramente ancorata ad archetipi permanenti, che durano nel tempo, sono oltre esso e parlano alle coscienze di ogni epoca mutando forma ma non contenuto.
Nella stessa rappresentazione del Cristo sono presenti archetipi transitori, principi che rispondevano alle esigenze di un tempo storico e che sono destinati a tramontare, vittime del tempo e del cambiamento delle necessità delle coscienze e delle identità.
Ogni via, se ha caratteri di autenticità, contiene in sé elementi permanenti ed altri transitori e, se rimane fedele alla sua intenzione originaria, saprà lasciar cadere ciò che è condizionato dal tempo e dal contingente.
Le coscienze hanno domande di fondo che necessitano di risposte/rappresentazioni coerenti: la necessità di imparare ad amare, ad esempio, è comune a tutte le coscienze di tutti i tempi e tutte, in tutti i tempi, genereranno le rappresentazioni spazio-temporali per apprendere e comprendere attraverso le esperienze quella capacità.
Noi chiamiamo queste rappresentazioni religioni o vie spirituali ed onoriamo i loro fondatori; non dovremmo dimenticare che le vie e gli insegnanti sono solo simboli ai sensi percepibili di processi altrimenti invisibili.
Ecco perché la persona che si è formata in una via o con un insegnate, ad un certo punto del proprio cammino sente la necessità di affrancarsi: in sé è nato lo sguardo interiore dei processi e non necessita oltre del simbolo esterno a sé.

Immagine: Vocazione dei primi apostoli, dipinto del Ghirlandaio, nella Cappella Sistina (1481).


 

Biò e Favorì, storie di un altro tempo che parlano all’interiore di oggi, un libro di Catia Belacchi

“Cosa ne sapeva la piccola Lisa, diventata adulta, della competenza e della cura che occorrevano per far crescere il grano che a lei bambina tanto piaceva mietere? Cosa ne sapeva delle lenzuola che vedeva stese, tutte tessute al telaio dalle donne di allora? O della canapa che veniva coltivata presso tutte le famiglie contadine? E dei pastori che ogni anno, durante la transumanza, vedeva immancabilmente passare per andare al mare o tornare verso l’Appennino?
Quel mondo era ormai scomparso e Lisa lo aveva solo sfiorato, non veramente conosciuto; non solo, stavano per scomparire ormai, anche gli ultimi protagonisti di quel mondo.
Ho deciso allora di raccontare quelle storie raccogliendo le ultime testimonianze da chi poteva ancora fornirle. Spero di aver colto lo spirito che sta dietro ogni esperienza e di aver saputo trasmettere gli insegnamenti che da questi racconti emergono.
Voglio credere, inoltre, che quel mondo che ha formato la mia generazione, in qualche modo, con questo libro, continui a vivere e sia d’aiuto alle generazioni future perché senza storia personale, senza storia di popolo ci troveremmo ad essere individui insicuri come lo è un bambino che non ha creato un legame affettivo solido coi genitori. Solo essendo saldi in noi, e in questo la memoria ci aiuta perché ci costituisce nell’immagine interiore, solo riuscendo ad essere in contatto col senso del nostro esistere non saremo spaventati dai cambiamenti personali e sociali e non coglieremo l’altro come minaccia ma come opportunità, come colui o colei che, per il solo fatto di presentarsi nella mia vita, mi induce a conoscermi e a trasformarmi.
Questo libro guarda dunque al nostro passato prossimo non però in modo nostalgico ma riconoscendo in esso la radice creativa dell’oggi.”
Dall’introduzione di Catia Belacchi al libro: Biò e Favorì, scene di vita nella prima metà del novecento tra le valli del Metauro e del Cesano.
Quaderni del Consiglio regionale delle Marche.

Un giorno nuovo

Coloro che vivono una malattia che mina le basi della loro esistenza sanno che cos’è un giorno nuovo.
Noi sembra che non lo sappiamo, mi verrebbe da dire che lo abbiamo dimenticato ma è un’espressione inappropriata: non lo abbiamo ancora imparato, scoperto.
Vivendo noi non nella vita ma nel racconto di essa, molte cose non abbiamo ancora sperimentato.
Il giorno nuovo che viene non è una opportunità, una possibilità: finchè è questo, sono io il centro dell’accadere e quel giorno mi porta qualcosa che mi renderà diverso.
Questo modo di guardare alla vita ha senso fino ad un certo punto del nostro cammino, in seguito altro si presenta: il giorno che viene è un accadere, un fatto.
Come tutti i fatti non è per me, né per te: accade e può essere usato per i fini del proprio processo esistenziale, ma può anche essere solo contemplato.
Contemplarlo significa lasciarlo lì, non ricondurlo a sé, liberarlo di tutto ciò che la mente può aggiungervi:
un giorno nuovo è un giorno nuovo.

Immagine tratta da:http://www.linkiesta.it/donne-festa


 

Vivere ciò che fonda un’esistenza

Abbiamo camminato a lungo ieri con P. discutendo di tutto ciò che fonda e conferisce senso ad un’esistenza.
E’ piovuto molto in questi giorni, la strada è piena di pozzanghere e in qualche punto è sceso del fango dai campi.
I nostri passi scorrevano tra i campi di grano verde intenso e le querce ancora spoglie che bordano le strade.
Vivo queste scene da venti anni, sempre c’è stato qualcuno con cui camminare, sempre si è potuto parlare, o tacere, della vita e del modo di viverla senza essere racchiusi in uno scafandro, o immedesimati in una commedia.
Qui, nell’eremo, lontani esistenze dal mondo, i gesti e le parole, gli incontri e i passi respirano ciò che non subisce l’usura del tempo, non viene rosicchiato dai tarli, non ammuffisce, non è divorato dall’ingordigia delle menti.
Non è merito nostro, è accaduto e continua ad accadere grazie a coloro che, spinti da una domanda, vengono e permettono che la vita senza condizionamento accada.

Immagine tratta da: http://goo.gl/9n7RRA


 

Il lavoro 3: la mansione, e chi mi lavora a fianco, mi trasformano

Il lavoro è relazione: per giorni, mesi, anni abbiamo al fianco delle persone con cui trascorriamo più tempo che con la nostra famiglia.
Chi sono costoro? Parlano delle loro vite, li ascolto? Sollevano in me sensazioni, moti di simpatia e di antipatia, fascinazioni e avversioni, giudizi senza fine, gelosie, ammirazioni, paure.
Otto ore al giorno la presenza dei miei colleghi di lavoro suscita in me una infinità di processi di svelamento, di messa in discussione, di crisi anche.
Se voglio vestire i panni del giudice posso farlo e dispenserò sentenze: se voglio osservare che cosa, attraverso il lavoro comune, l’altro produce nel mio interiore mettendomi a nudo, posso fare anche questo. Posso scegliere.
Qualunque sia il mio ruolo, la mia mansione, l’ambiente di lavoro è un organismo che pulsa insieme e produce processi nell’intimo dei singoli: il fare, il produrre è il collante, ciò che tiene insieme l’organismo, ma ciò che viene lavorato va ben oltre il manufatto prodotto: ciascuno lavora il proprio interiore grazie a come lavora e a con chi lavora.
Ciò che ci cambia è sempre la relazione: tra noi e il lavoro che eseguiamo; tra noi e chi ci lavora a fianco.
La nostra e altrui trasformazione interiore è il vero scopo del lavorare: come sciocchi crediamo che lavorare sia produrre qualcosa, ma non è così: lavorare è trasformare noi stessi grazie alle mansioni e alle relazioni molteplici che nel corso della giornata prendono corpo.

Immagine tratta da: http://goo.gl/yqcc1y


Il lavoro 2: essere dediti

Che cosa significa essere dediti al lavoro che si sta compiendo?
Significa riconoscerlo come unico fatto di quel presente, essere consapevoli di tutto quello che la mente aggiunge su quelle operazioni semplici o complesse che stiamo compiendo e lasciarlo andare, non coltivarlo, di qualunque natura sia quell’aggiungere.
La dedizione libera dal condizionamento della mente rende quella operazione fuori dal flusso del divenire, la rende fatto esaustivo in sé.
C’è l’operazione, c’è l’operatore, c’è l’accadere: la dedizione sgombera il campo dal passato e dal futuro, dal lamento e dal giudizio ad esso collegato.
Se c’è dedizione, quell’operazione è tutto il nostro orizzonte esistenziale: dentro quel piccolo fatto si libera il senso stesso dell’essere e dell’esistere.

Immagine tratta da: http://blogdellafotografia.blogspot.it/2013/10/i-mestieri-di-oggi-lorafo.html


 

Il lavoro 1: trovare un’occupazione è trovare un teatro d’esperienza e d’esistenza

Il lavoro occupa molta parte del nostro quotidiano ma spesso lo viviamo come qualcosa a sé, come fosse l’elemento collaterale e faticoso del nostro esistere quotidiano.
La nostra vita sono le cose che ci piacciono, gli affetti, il tempo libero: non vedendo chiaramente l’attitudine della mente a dividere, a frammentare, non ci rimane semplice leggere la nostra vita in modo unitario.
Qual è l’elemento che rende una e inscindibile la nostra vita? La capacità di divenire persone migliori attraverso le esperienze, tutte le esperienze.
Se si ha chiaro questo, se si è consapevoli che ogni giorno, ogni ora la coscienza sperimenta e amplia il proprio sentire, allora possiamo incominciare a parlare di quel tempo rilevante che ogni giorno trascorriamo fuori casa, insieme a persone che non abbiamo scelto, in situazioni non sempre gratificanti.
Un lavoro occorre innanzitutto trovarlo e di questi tempi non è semplice.
Un lavoro è una possibilità esistenziale: un teatro creato dalla coscienza nel quale avvengono le scene che questa proietta.
Un lavoro, prima di essere un luogo di produzione, è un ambito di esperienza del sentire: se non ci è chiaro questo, non ci sarà chiaro niente del processo del trovarlo, dell’esercitarlo, del perderlo.
Trovare un lavoro dunque è un’esperienza esistenziale: i fattori sociali hanno la loro importanza e, come in questo tempo, possono essere molto ostacolanti, ma la possibilità di impiego dipende in ampia parte da una motivazione interiore, da uno slancio, dalla disponibilità a mettersi in gioco, a spendersi e impastarsi nelle situazioni che si presentano: a portare se stessi fuori dall’ambito del conosciuto, ad andare verso l’ignoto.
Questo ignoto spesso si offre nelle vesti di lavori precari, parziali, non corrispondenti alla propria aspettativa.
Quanta forza creativa, dedizione, volontà sono richiesti ad una persona per creare le scene della propria manifestazione? In una società imbalsamata e vecchia l’impulso creativo fa difficoltà a trovare uno spazio, ma questa è la sfida.
Creare il teatro rappresentativo del proprio esserci nel mondo: osare esserci e proporsi.
Uscire sapendo di avere diritto ad uno spazio d’esistenza; se necessario adattarsi, piegarsi, accogliere le opportunità sapendo che una ne prepara un’altra;
vivere ogni scena come il proprio tirocinio esistenziale, la propria possibilità di conoscersi, divenire consapevoli, comprendere.

Immagine tratta da: http://heavytable.com/the-man-the-mystery-the-dishwasher/


La coppia, post scriptum: cadute e opportunismi

Gli ultimi 12 giorni ho scritto un post al giorno sul tema della coppia: tre di questi post sono dedicati al tema della fedeltà. Può sembrare al lettore che io relativizzi la questione e nella sostanza affermi: “Dal momento che siamo limitati e in continuo apprendimento, se ci permettiamo di venire meno al patto di fedeltà non è un grave problema!”
Non dico questo ma qualcosa di molto diverso: i due procedono assieme e tra loro stabiliscono delle condizioni di base, una piattaforma di onestà cui fanno riferimento e a cui, anche quando possono cadere, fanno ritorno”.
L’espressione “anche quando possono cadere” non significa che si autorizzano a cadere, significa che conoscono sufficientemente la natura umana e sanno che gli assoluti non si confanno ad essa.
Non essere prigionieri della morale, che in sé tende a stabilire un assoluto, non significa autorizzarsi a tutti gli opportunismi, a quello che ci fa comodo nella ricerca delle molte gratificazioni, dimenticando il patto di onestà con l’altro.
Naturalmente dipende qual è questo patto e cosa prevede: i due possono anche avere contemplato il pascolo su diversi prati e, se questo è l’accordo, chi può dire qualcosa?
Se, invece i due si sono promessi coerenza e vicinanza mantenendo stretti i paletti del cammino comune, allora a quella condizione di base si sforzeranno di tornare e di rimanere coerenti.

L’immagine è tratta da: http://shotei.com/publishers/hasegawa/swordandblossom3/sb3.htm


La coppia 12: prendersi cura. L’esperienza dell’amore

Il cammino comune dei due giunge, può giungere, ad una maturità: liberato da tutto ciò che le menti dei protagonisti hanno aggiunto sulla natura di esso, su sé, sull’altro può finalmente emergere il tessuto di comprensioni cui il rapporto ha dato luogo.
Quando è divenuto ai due evidente che la loro unione è un processo, ed un fatto, esistenziale, questa consapevolezza che è maturata attraverso le esperienze mostra ora i propri frutti: l’accoglienza, l’accettazione, il non giudizio, la compassione.
Nomi diversi dell’amore.
Diviene chiaro ora, e solo ora, che quello che i due chiamavano amore, era solo innamoramento; quello che chiamavano amore era solo affetto; quello che chiamavano amore era solo sesso.
Ora i due comprendono che c’è qualcosa di molto più vasto che è fiorito in loro e che contiene innamoramento, affetto e sesso e, nel contempo, non sa che farsene di questi perchè, contenendoli, li supera ed è altro da essi.
Come una persona è più del suo corpo, delle sue emozioni e del suo pensiero, così l’amore è più, e radicalmente diverso, da innamoramento, affetto e sesso.
Ora ai due appare chiaro che tutto ciò che avevano in precedenza sperimentato era condizionato dai loro bisogni e dalla necessità di essere confermati come individui e come esistenti.
L’amore non si cura di esistere, è la natura di tutte le cose.
L’amore non è provato da un soggetto: è la natura della realtà che attraversa un soggetto. Non si può affermare: “Io amo”, è un’espressione che contraddice la natura dell’amore. Si può affermare: “C’è amore”.
L’amore non solo non ha un soggetto, ma non ha nemmeno un oggetto; non si può affermare: “Ti amo”, si può invece affermare: “C’è amore”.
L’amore non è un sentimento, non un’emozione, non un pensiero: tutto questo non centra niente con la natura reale dell’amore, semplicemente lo rappresenta, e non sempre, non comunque.
L’amore è uno stato di coscienza, una condizione dell’essere, una comprensione operante.
Certo, nel suo essere esperienza si veste di pensiero e di emozione ma la sua natura non è quella, non bisogna scambiare la forma per la sostanza, la forma è l’abito della sostanza, della comprensione.
L’amore non è rivolto a qualcuno e non è di qualcuno: là dove c’è amore, non c’è possesso.
L’amore conduce alla scomparsa dell’amante e dell’amato e lascia che affiori soltanto l’esserci unitario della realtà.
L’amore, nell’umano, diviene compassione: pieno inchinarsi di fronte alla natura delle persone e dei fatti; piena accoglienza, piena comprensione; piena vicinanza.
Infine, l’amore diviene esperienza così semplice e feriale da divenire non riconoscibile: diviene il semplice “prendersi cura”, piccoli gesti che nulla di eclatante hanno, che nulla chiedono, che nulla si attendono.
L’amore diviene semplice servire.

Immagine tratta da: http://goo.gl/crhrBJ


La coppia 11: la fedeltà esistenziale

Come abbiamo più volte detto, la coppia è un’officina esistenziale: i due lavorano il non compreso in sé grazie alla presenza dell’altro e allo svelamento che questo produce senza sosta.
La fedeltà esistenziale è il fattore che tiene aperta l’officina: qualunque sia il limite dei due, oltre le proprie cadute e i propri ragli l’officina rimane aperta finchè essi riconoscono il processo esistenziale che li lega.
I rapporti di lunga data sono tenuti assieme da questo, non certamente dal mutuo, dal sesso e non soltanto dall’affetto: quest’ultimo, se non è il frutto dell’attaccamento e della mancanza di autonomia, è l’aspetto visibile del legame esistenziale.
Qualsiasi siano le dinamiche della fedeltà esistenziale e di quella affettiva e sessuale, i due tornano a casa, magari affaticati, magari appesantiti ma tornano a casa, reiterano l’impegno, rinnovano l’officina comune; quando non ci sono più le condizioni per tenerla aperta, e molto spesso è l’identità a stabilire che le condizioni sono venute meno, non la coscienza, allora i due si lasciano e l’officina viene chiusa, il legame esistenziale transitoriamente sospeso.
Il processo interiore dei due, il lavoro sul non compreso, continuerà con altri partners o nella solitudine.
Il rapporto di coppia è un rapporto esistenziale.
Il rapporto con i genitori e i figli è un rapporto esistenziale.
Il rapporto parallelo con un terzo/a è un rapporto esistenziale.
Tutto ciò che un uomo e una donna vivono ha valenza esistenziale perchè tutto trasforma il sentire, tutto ci rende persone diverse, tutto ci aiuta a comprendere.
Il tradire e l’essere traditi ci trasforma, come il conflitto e la quiete, la sincerità e la bugia.
Il vendere il nostro corpo e il comprare il corpo di un’altro/a ci trasforma; l’ipocrisia e l’ignoranza ci trasformano.
Non c’è scampo: là dove la mente vede solo letame noi vediamo possibilità. Solo i bambini dell’interiore possono vivere nell’illusione del giusto e dello sbagliato, la realtà delle persone non è in bianco e nero, estrema è la creatività e la molteplicità delle vie che il sentire genera per comprendere ciò che gli è necessario.
Se i due, nella coppia, hanno compreso la natura esistenziale e trasformativa del loro stare assieme, molto potranno integrare, accogliere, perdonare.
Vi prego di riflettere sull’esperienza e sulla natura del perdonare: questo termine, violato ed abusato, ha un valore molto alto perchè esprime l’esperienza della comprensione avvenuta, la fine di un processo doloroso che non conduce al fiele o all’annichilimento, ma all’inchino al cammino dell’altro.
Concludendo questa serie di tre post sulla fedeltà sono consapevole che le menti di alcuni lettori piegheranno le mie parole ai loro bisogni di comodo alla ricerca di giustificazioni per il proprio operato: ciascuno faccia come crede e si narri la realtà come vuole ma, se può, provi a non nascondersi a se stesso e al processo esistenziale che lo attende.

Foto di Robert Doisneau tratta da: http://www.fotonotiziario.eu/index.php/robert-doisneau/