comunita

La comunità, archetipo delle relazioni

E’ possibile leggere l’intero ambito delle relazioni umane come manifestazione articolata e piena del principio/archetipo comunitario.
Che cos’è una comunità?  L’ambiente nel quale avviene la manifestazione creativa del singolo, il suo processo di trasformazione interiore reso possibile dalla relazione con l’altro da sé che comporta vari gradi di responsabilità, di dedizione, di abnegazione, di servizio.
La comunità è anche l’organismo che testimonia “l’officina del vivere”; al suo interno accadono i processi della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione che la compenetrano e divengono visibili come testimonianza, come fatto, come stimolo, come provocazione, come possibilità di riferimento e di formazione.
La famiglia è una comunità; il posto in cui si lavora è una comunità; il paese o la città in cui si abita, è una comunità; la nazione è una comunità; il continente e il pianeta sono comunità.
Nella comunità, all’interno del suo intreccio di relazioni, nei molti livelli di queste, avviene:
– il dispiegamento, a volte faticoso, del proprio esserci come individuo con i propri talenti ed i propri limiti;
– la conoscenza di sé, la consapevolezza di ciò che va affrontato e superato, la comprensione e la trasformazione della propria intima natura;
– la scoperta dell’altro da sé, il superamento del proprio egocentrismo, lo sviluppo della capacità di assumersi delle responsabilità e, infine, di mettersi al servizio.
Questo è il cammino di ciascuna persona, di tutte senza esclusioni, all’interno delle proprie molteplici comunità di appartenenza: il fatto che questo cammino avvenga nella inconsapevolezza quasi generale e che troppo pochi considerino la famiglia, o il posto di lavoro, come una comunità esistenziale, nulla toglie alla evidenza dei fatti e delle funzioni.
Esistono poi comunità, come quella del Sentiero contemplativo, che in maniera consapevole e deliberata perseguono tutto questo: lo coltivano, lo allevano tra mille limiti e altrettante cadute, ma senza sosta invitano a vedere con chiarezza come, senza la relazione consapevole e responsabile con il nostro prossimo, attraverso la piena esposizione di noi stessi, non ci sia altro che il confine angusto rappresentato dalla minuta e asfissiante coltivazione di sé.

Immagine da http://goo.gl/2h4PR2


evoluti

I piccoli fatti ci svelano nella nostra presunzione di essere evoluti

Ci piace considerarci evoluti. Siamo persone della via spirituale, sappiamo andare oltre l’egoità: così ce la raccontiamo.
Poi arriva una parola, un gesto, uno sguardo, un piccolo fatto e in noi si leva un’increspatura, il mare calmo della nostra rappresentazione si turba, il fatto ci colpisce, una piccola ferita s’apre.
In un attimo s’evidenzia ciò che non volevamo vedere e veniamo richiamati alla realtà dei fatti: residui più o meno ampi di egoità dichiarano in modo inequivocabile la loro presenza.
Ombre di vittimismo si profilano, accuse all’altro si abbozzano: rosari dell’identità conosciuti.
Presunzione di essere evoluti; presunzione di sapere, di conoscere, di aver compreso: basta un piccolo fatto e il re è nudo.
I piccoli fatti sono sempre generati dall’altro e solo nella relazione si presentano a noi: ecco perchè alla persona della via spirituale non serve ritirarsi dal mondo, non c’è possibilità di fuggire dai piccoli fatti, dalle minute relazioni, dalle stilettate nel ventre dell’egoità.
Non c’è possibilità di fuggire da sé.

Immagine da: http://is.gd/kY7bfn


 

La struttura della terra, della persona, della vita, del cammino interiore

Sono giorni di vanga, di forca per la precisione. Quando il terreno dell’orto non è bagnato, e accade di rado, cerco di vangarlo per arieggiarlo e per far sì che l’acqua possa penetrare in profondità. Nella foto vedete la struttura di un terreno argilloso, la parte superiore più porosa e vitale, quella inferiore più compatta e portante.
Le persone, le loro vite, il cammino interiore non sono diversi: tutti hanno struttura, e se non l’hanno è bene che la formino; tutti hanno necessità di arieggiare e di lasciare che i vissuti penetrino in profondità attraverso il processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione.
Vivere è come il processo del vangare: si rompe un equilibrio consolidato, si introducono fattori ed elementi nuovi, si sedimenta attraverso i processi, si forma nuova struttura che sarà stabile per un po’ di tempo finché le radici di una pianta, l’azione di una talpa, ed infine una nuova vangatura non la modificheranno.
La vanga è assimilabile alla crisi, alle innumerevoli crisi che accompagnano il nostro cammino esistenziale: il ciclo stabilità-crisi-nuova stabilità è la struttura portante delle nostre vite, il modo attraverso il quale impariamo.
Non esistono solo crisi e non esiste solo stabilità: la vita è processo, il vivere la capacità di sprofondare in esso leggendone il portato simbolico ed imparando ciò che è necessario alla trasformazione del sentire personale.


 

Abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?

Se potete, leggete questo bell’articolo apparso su “comune info”.
La prima parte parla della situazione, del silenzio perduto, della fretta, del scivolare sulla vita.
La seconda, della necessità di insegnare ai nostri figli a vivere sottovoce.
Vorrei fare delle considerazioni sulla prima parte: abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?
La mia tesi, molto semplice, è che l’umano vive ciò che ha compreso; ciò che non vive non è perché non lo vuole vivere, ma perché non ha compreso che esiste come possibilità per sé; lo vede magari vivere dagli altri, ma non lo sente adatto a sé, praticabile per sé: nei fatti, non lo considera perché non lo comprende.
Il bel brano di Orso parla di un’altra cultura, di altre priorità esistenziali, forse di un altro sentire: il nostro mondo ha ciò che crea e questo sorge dal suo sentire, da ciò che ha compreso attraverso le esperienze e la macerazione che queste producono.
Sorge anche dalla sua cultura? Certamente, ma questa non è che il riflesso del compreso e del non compreso dei singoli e dell’insieme.
Cosa dunque possiamo fare? Vivere il compreso, testimoniarlo con grande discrezione, operare nel piccolo come nel grande perché elementi di autenticità vengano inseriti in un impianto culturale ed esistenziale caratterizzato dalla futilità.
Quello che l’autrice dice nella seconda parte dell’articolo è veramente importante, da lì si può partire sapendo che nessuno aderisce a ciò che non ha compreso, ma il proporre modelli, stimoli, pratiche, abitudini attiva processi profondi e facilita il percorso delle comprensioni in maturazione.
Se comprendiamo che ciò che l’umano vive non è il frutto della malafede  – la quale, anche quando è presente, è conseguenza, non origine – ma solo della non conoscenza, della non consapevolezza, della non comprensione, allora il nostro sguardo sul mondo diviene intriso di compassione e questa è un fattore determinante nel produrre il cambiamento dei sentire, prima e ultima sorgente di ogni cambiamento.

Immagine da: http://goo.gl/51KNUk


 

La meditazione che si incarna nel gesto gratuito: allenarsi alla gratuità, all’assenza di scopo

Praticare la gratuità come forma meditativa, come pratica personale, come disposizione interiore coltivata nel quotidiano, nell’ordinario.
Darsi tempo e donare il proprio tempo: una, due ore a settimana, o al mese, per immergersi nell’esperienza del fare e dell’accadere, qualunque sia la mansione, rimandendo ancorati a ciò che viene, coltivando il silenzio, la fiducia, l’abbandono, la dedizione.
Uno zazen in movimento: niente di meno, niente di più.
La pratica della gratuità ci trasforma nel profondo: superata la resistenza iniziale diviene la vita oltre il condizionamento, quel lasciarsi condurre liberi dall’ingombro di sè.
Se vuoi, se pensi che possa fare per te, dai la tua disponibilità compilando il modulo che segue: quando avremo bisogno di una mano per dei lavori all’Eremo dal silenzio, o altrove, ti contatteremo e potrai renderti disponibile, oppure no, senza vincolo.
Saranno piccoli impegni ma, uno dopo l’altro, ti alleneranno, ci alleneranno ad operare dimentichi dei nostri scopi, delle nostre finalità: impareremo a vivere le situazioni e a fare le cose semplicemente, per la semplice ragione che si presentano, senza scopo personale alcuno.

Qui trovate i lavori programmati per il sabato e potete dare la vostra disponibilità


Per informazioni puoi scriverci

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L’esperienza della vacuità e dell’inutilità da non confondere con la depressione

Non credo esista persona della via spirituale che non si confronti con l’esperienza dello svuotamento di senso.
Probabilmente non esiste persona che non si confronti con questa condizione interiore che, ciclicamente, si presenta all’esperienza umana.
La realtà viene sperimentata come vuota, priva di senso, incapace di attivare risposte e reazioni interiori: di fronte ad un accadere, a dei fatti, a delle situazioni o al semplice essere dei giorni la persona non prova interesse particolare, non sente l’accadere suo, non le riesce di attivare processi di identificazione.
La realtà le appare come fatto né interno, né esterno.
E’ un preciso passaggio esistenziale che si ripete ciclicamente, come tutte le cose che hanno bisogno di essere rivisitate più volte per essere conosciute e comprese.
La mente tende a mettere etichette su tutto e anche su questa esperienza esistenziale opera le sue riduzioni e approssimazioni: le sembra che definirsi depressa sia una sintesi accettabile, che quell’etichetta possa almeno contestualizzare uno stato.
Se fossimo capaci di utilizzare paradigmi esistenziali per leggere i nostri stati, non parleremmo di depressione; purtroppo, siamo così limitati nella interpretazione di noi che spesso non sappiamo guardarci con altri occhi e sviluppare altre letture.
Lo svuotamento e la perdita di senso sono il pane del cammino interiore e la loro esperienza ci interroga e ci interpella: se nulla ci appare apportatore di senso, è perché siamo ammalati? Siamo sani quando la nostra vita ci sembra valga la pena di essere vissuta?
Sano/non sano; senso/non senso: c’è una possibilità di non lasciarsi stringere dentro questa morsa duale?
Quale esperienza si può configurare, ci può attendere oltre quella del senso o del non senso?
E’ possibile vivere non curanti, non prigionieri di questa dicotomia?
Certamente, l’orizzonte altro si chiama gratuità.

Immagine da: Susanna Bertoni http://is.gd/xRMCwt


L’estate è un tempo di silenzio

Per chi scrive, è la stagione della dispersione, dello svuotamento di sé, del non ricondurre ad unità quel “processo in manifestazione” che chiamiamo identità.
E’ il tempo dello stare, del risiedere, dell’osservare, del contemplare: il tempo di un silenzio sostanziale.
Ci troverete poco su queste pagine.
Una parola agli amici nel cammino: dedicate questo tempo a vivere e, se potete, a studiare.

 

La frattura tra insegnamento e vita in non pochi “maestri”

Stiamo lavorando alla traduzione di un libro che parla della vita privata di J.Krishnamurti e prendo spunto da questo per affrontare una questione a mio parere mai abbastanza chiarita.
Ogni accompagnatore, insegnante, guida, “maestro” (virgoletto perché il termine non mi piace), ha una vita pubblica e una privata.
Se voi pensate che queste figure dovrebbero avere una solo vita, una coerenza che abbraccia il pubblico e il privato, perché altrimenti non hanno autorità per insegnare alcunché, temo non ci sia chiarezza su chi è che insegna.
Chi insegna? Chi accompagna? Chi orienta e guida?
Quella persona, quel portatore di nome, quella figura che noi diciamo aver trasceso l’umano?
O non è forse che quel portatore di nome è il veicolo di una spinta che lo precede, lo trascende e lo attraversa?
Quella spinta, quella tensione, quello ispirazione se preferite, opera per tutto il tempo, per tutto il giorno, per tutta la vita?
Sciocchezza considerevole.
Quella spinta opera quando c’è un contenitore adatto a contenerla.
Il veicolo, il portatore di nome diviene il mezzo della spinta quando qualcuno si presenta, bussa ed è disposto ad accogliere quella forza.
Il portatore di nome è lo strumento che sta tra la spinta e l’utente.
Quando non c’è contenitore che si dispone ad accogliere, il portatore di nome vive la sua giornata nella più assoluta ferialità e impara dalle esperienze e dalle relazioni come tutti.
Impara quello che gli è necessario imparare: se è qui, se è incarnato qualcosa da imparare certamente lo ha; se non avesse nulla da imparare nel mondo del divenire non sarebbe nemmeno incarnato.
Obbietterete che esistono incarnazioni di solo servizio, generate per trasmettere qualcosa all’umano: può darsi, ho dubbi consistenti in merito e la scena di Gesù il Cristo nell’orto del Getsemani simbolicamente dice molte cose in merito.
Agli occhi piuttosto disincantati di chi scrive, l’insegnate appare nella sua ferialità come una persona dedita alla via interiore che attraverso le esperienze modella consapevolmente e inconsapevolmente il proprio sentire nelle aree in cui questo ha comprensioni incomplete.

Immagine da: http://goo.gl/aIHgU4


Nella libertà dai propri bisogni si scopre il servizio a chi ci sta vicino

Se l’orizzonte personale è occupato dai propri bisogni non c’è storia, quelli cercheremo di soddisfare, ma se l’orizzonte è libero allora inizia un’avventura senza fine:
chi sono costoro che mi vivono a fianco, cosa chiedono, cosa narrano?
E, indipendentemente dal loro porsi, dal loro chiedere o non chiedere, perché mi sorge dall’intimo la spinta ad essergli d’aiuto, perché sento che posso servire il loro vivere?
Che cosa significa servire?
E’ un’esperienza precisa, diversa dall’aiutare: servire implica il superamento di sé, la propria dimenticanza; aiutare non necessariamente significa questo.
Nella via spirituale il servire ha una portata molto vasta, è un processo che interroga il ricercatore per tutta la sua vita fino a quando non sorge quel sentire che lo rende pronto, sollecito, disinteressato, ricettivo all’accadere, disposto ad un gesto e subito riassorbito dalla marginalità del suo esserci.
Questo è il tema del gruppo di approfondimento del 10 maggio all’Eremo dal silenzio di San Costanzo, (PU). Ore 15,40.

Immagine da: http://goo.gl/DfXwwy