Non è necessario lasciare tracce di sé

Ieri ho scritto questo post su un certo uso delle immagini e delle parole. Quella maniera sorge forse dalle qualità interiore della persona che redige quei materiali, forse dalla esigenza, propria del web, di usare linguaggi forti per impressionare il potenziale lettore e indurlo a leggerci.
Comunque stiano le cose pare che la necessità di fondo sia: “Esisto, dunque marco il territorio!”
Noi pensiamo che non sia necessario marcare il proprio territorio, che sia possibile transitare nella vita con passo molto leggero e non essere di ingombro a sé e al proprio prossimo.
E’ possibile vivere la pienezza della propria esistenza nella discrezione, nella riservatezza, nella leggerezza che sorge dall’aver compreso la propria irrilevanza.
Quando ci si può confinare consapevolmente, e senza frustrazione alcuna, in questa marginalità?
Quando si è compresa la propria irrilevanza dicevamo, ma va sottolineato che questa non sorge se si ritiene che il mondo sia un luogo pieno di ingiustizia: non sorge perché ci riterremmo autorizzati a lottare, o a protestare, contro quella che a noi appare l’oscenità del presente.
L’irrilevanza di sé nasce dunque dalla comprensione che tutto ciò che al mondo esiste è frutto del sentire individuale e collettivo: il sentire è il frutto delle comprensioni acquisite e queste derivano dalle esperienze vissute.
La nostra realtà personale e collettiva è generata da noi stessi, di conseguenza non esiste un nemico, né siamo vittime di alcuno.
A partire da queste acquisizioni possiamo alleggerire il nostro passo e transitare senza che nella polvere si vedano le nostre impronte.

Immagine di Marisa Gelardi, da: http://goo.gl/1pZhoC


 

Aver cura di sé: il valore insostituibile del fermarsi

Quando si è impegnati in attività che coinvolgono il nostro prossimo a volte è difficile fermarsi, dire no, creare uno spazio o una pausa.
Le ragioni di questa difficoltà sono tante, non è possibile generalizzare e non è quello di cui voglio parlare qui.
Penso in particolare ai tanti che si occupano di attività sociali o politiche, o a coloro che sono impegnati nelle relazioni di aiuto.
Queste persone hanno, molto spesso, una forte spinta interiore, un impulso creativo che si dispiega nella loro attività sociale: ciò che nel loro interiore è stato compreso diviene forza plasmatrice nelle relazioni.
Spesso, se queste persone non hanno relazione, non riescono a veicolare quelle forze: solo nella relazione sentono di esistere, forse perché solo in presenza dell’altro sentono di avere una dimensione individuale, di esistere come individui.
Con questa disposizione interiore le possibilità di eccedere non mancano: la persona è sempre proiettata in avanti e, avendo difficoltà ad accorgersi di questo sbilanciamento, o non sapendo bene come gestirlo, non riesce a fermarsi.
In genere la qualità delle relazioni che crea patisce dell’eccesso di presenza e comunque, nel tempo, la persona è soggetta al logoramento.
Qualunque sia la ragione che spinge al fare, l’imperativo di fondo da cui non si può prescindere è che bisogna essere capaci di introdurre delle pause.
L’attività senza pause è come il giorno senza notte, l’inspiro senza espiro.
Essere capaci di fermarsi è essere capaci di ammettere che non si è indispensabili.
Perdonate, ma non si può agire socialmente o politicamente e pensare di essere indispensabili, o comportarsi come se lo si fosse: quella pretesa smaschera il canto della nostra egoità e condiziona tutto l’operare con il proprio limite.
Bisogna essere capaci di fermarsi, di creare delle pause e di osservare sé e la propria spinta a partire da quello spazio privo di moto.
Nel momento in cui la spinta interiore viene vista, osservata, analizzata e lasciata andare, lo slancio stesso che da essa è generato cambia, assume un altro respiro.
Non essere capaci di fermarsi significa finire, prima o poi, contro il muro, l’unico modo che ha la vita di indurci ad un altro sguardo e ad un altro atteggiamento.

Immagine da: http://goo.gl/Qc67PP


 

La stabilità affettiva ed economica nel cammino spirituale

Non siamo eroi ma piccole persone che necessitano di una piattaforma stabile su cui muovere i propri passi interiori.
La nostra vita affettiva deve tendere alla stabilità, le turbe del corpo emozionale e mentale devono essere limitate e questo in genere è garantito da un rapporto affettivo maturo e stabile, o dalla condizione di singletudine.
Lo stesso si può dire per le condizioni economiche: una preoccupazione continua, o frequente agita l’identità e le impedisce la focalizzazione su qualcosa di più profondo.
Ciò che perseguiamo nella via spirituale è un ampliamento di sguardo e di consapevolezza: le tensioni emotive e mentali indotte dai conflitti interiori, dalla instabilità nei rapporti affettivi, dalla indisponibilità di reddito ci distolgono da quello sguardo e ci focalizzano sui bisogni primari dell’identità.
E’ possibile la stabilizzazione affettiva ed economica? Ci si può lavorare, si può attivare un processo che ad esse conduce: se la persona è consapevole della propria necessità interiore, se questa ha fondamento e concretezza, a partire da questa disposizione di fondo tutto il resto verrà ordinato.
Perché? Perché il bisogno spirituale è uno “stato della coscienza” ed è questa che genera tutte le scene della vita: se la persona mette al centro la dimensione della coscienza il resto si ordinerà affinché la priorità di quel centro possa essere mantenuta stabile.

Immagine da: http://www.centrocoscienza.it/


 

L’ingresso nel silenzio della mente: vivere nella contemplazione del reale

Un’immagine: uscire da un ipermercato e trovarsi immersi in un bosco di faggi.
Nella faggeta non c’è silenzio, inteso come assenza di stimoli, c’è una vita che si dispiega secondo ritmi dilatati, distesi.
Nell’ipermercato c’è l’eccesso di stimoli di ogni genere.
I due esempi sono metafora della realtà della vita nella contemplazione, il primo; della vita nella mente/identità, il secondo.
E’ possibile a tutti il passaggio dall’ipermercato alla faggeta? Non lo so, credo che dipenda dal sentire di coscienza acquisito.
Coloro per i quali è possibile lo faranno: a passi lenti, o rapidi, supereranno le porte automatiche dell’ipermercato e si inoltreranno nel sentiero nel bosco, disposti a fare i conti con le proteste più o meno accese di quella parte di sé legata all’esistenza del passato.

Immagine da: http://goo.gl/gkB9U6


 

Chi crea la via spirituale e il suo “maestro”?

Prendo spunto da questa discussione in Comunità del Sentiero.
La tesi: la necessità di esperienza e di comprensione delle coscienze crea le vie spirituali e i relativi fondatori o maestri.
Il singolo fondatore/maestro non fonda alcunché, è il catalizzatore di una spinta che giunge da gruppi più o meno vasti di coscienze che generano la rappresentazione spazio-temporale a loro necessaria.
Il fondatore che inizia una via si trova a conferire a questa le caratteristiche, la filosofia, la teologia, le ritualità che necessitano alle coscienze che in quella via sperimentano e che è da esse stesse generata.
Il fondatore è il terminale di un processo creativo, non il punto di partenza.
Ciò che le coscienze vanno a condurre a rappresentazione può essere ancorato ad archetipi permanenti o transitori:
-ciò che Gesù il Cristo ha condotto a manifestazione è un impulso, una intenzione sicuramente ancorata ad archetipi permanenti, che durano nel tempo, sono oltre esso e parlano alle coscienze di ogni epoca mutando forma ma non contenuto.
Nella stessa rappresentazione del Cristo sono presenti archetipi transitori, principi che rispondevano alle esigenze di un tempo storico e che sono destinati a tramontare, vittime del tempo e del cambiamento delle necessità delle coscienze e delle identità.
Ogni via, se ha caratteri di autenticità, contiene in sé elementi permanenti ed altri transitori e, se rimane fedele alla sua intenzione originaria, saprà lasciar cadere ciò che è condizionato dal tempo e dal contingente.
Le coscienze hanno domande di fondo che necessitano di risposte/rappresentazioni coerenti: la necessità di imparare ad amare, ad esempio, è comune a tutte le coscienze di tutti i tempi e tutte, in tutti i tempi, genereranno le rappresentazioni spazio-temporali per apprendere e comprendere attraverso le esperienze quella capacità.
Noi chiamiamo queste rappresentazioni religioni o vie spirituali ed onoriamo i loro fondatori; non dovremmo dimenticare che le vie e gli insegnanti sono solo simboli ai sensi percepibili di processi altrimenti invisibili.
Ecco perché la persona che si è formata in una via o con un insegnate, ad un certo punto del proprio cammino sente la necessità di affrancarsi: in sé è nato lo sguardo interiore dei processi e non necessita oltre del simbolo esterno a sé.

Immagine: Vocazione dei primi apostoli, dipinto del Ghirlandaio, nella Cappella Sistina (1481).


 

Biò e Favorì, storie di un altro tempo che parlano all’interiore di oggi, un libro di Catia Belacchi

“Cosa ne sapeva la piccola Lisa, diventata adulta, della competenza e della cura che occorrevano per far crescere il grano che a lei bambina tanto piaceva mietere? Cosa ne sapeva delle lenzuola che vedeva stese, tutte tessute al telaio dalle donne di allora? O della canapa che veniva coltivata presso tutte le famiglie contadine? E dei pastori che ogni anno, durante la transumanza, vedeva immancabilmente passare per andare al mare o tornare verso l’Appennino?
Quel mondo era ormai scomparso e Lisa lo aveva solo sfiorato, non veramente conosciuto; non solo, stavano per scomparire ormai, anche gli ultimi protagonisti di quel mondo.
Ho deciso allora di raccontare quelle storie raccogliendo le ultime testimonianze da chi poteva ancora fornirle. Spero di aver colto lo spirito che sta dietro ogni esperienza e di aver saputo trasmettere gli insegnamenti che da questi racconti emergono.
Voglio credere, inoltre, che quel mondo che ha formato la mia generazione, in qualche modo, con questo libro, continui a vivere e sia d’aiuto alle generazioni future perché senza storia personale, senza storia di popolo ci troveremmo ad essere individui insicuri come lo è un bambino che non ha creato un legame affettivo solido coi genitori. Solo essendo saldi in noi, e in questo la memoria ci aiuta perché ci costituisce nell’immagine interiore, solo riuscendo ad essere in contatto col senso del nostro esistere non saremo spaventati dai cambiamenti personali e sociali e non coglieremo l’altro come minaccia ma come opportunità, come colui o colei che, per il solo fatto di presentarsi nella mia vita, mi induce a conoscermi e a trasformarmi.
Questo libro guarda dunque al nostro passato prossimo non però in modo nostalgico ma riconoscendo in esso la radice creativa dell’oggi.”
Dall’introduzione di Catia Belacchi al libro: Biò e Favorì, scene di vita nella prima metà del novecento tra le valli del Metauro e del Cesano.
Quaderni del Consiglio regionale delle Marche.

Un giorno nuovo

Coloro che vivono una malattia che mina le basi della loro esistenza sanno che cos’è un giorno nuovo.
Noi sembra che non lo sappiamo, mi verrebbe da dire che lo abbiamo dimenticato ma è un’espressione inappropriata: non lo abbiamo ancora imparato, scoperto.
Vivendo noi non nella vita ma nel racconto di essa, molte cose non abbiamo ancora sperimentato.
Il giorno nuovo che viene non è una opportunità, una possibilità: finchè è questo, sono io il centro dell’accadere e quel giorno mi porta qualcosa che mi renderà diverso.
Questo modo di guardare alla vita ha senso fino ad un certo punto del nostro cammino, in seguito altro si presenta: il giorno che viene è un accadere, un fatto.
Come tutti i fatti non è per me, né per te: accade e può essere usato per i fini del proprio processo esistenziale, ma può anche essere solo contemplato.
Contemplarlo significa lasciarlo lì, non ricondurlo a sé, liberarlo di tutto ciò che la mente può aggiungervi:
un giorno nuovo è un giorno nuovo.

Immagine tratta da:http://www.linkiesta.it/donne-festa


 

Vivere ciò che fonda un’esistenza

Abbiamo camminato a lungo ieri con P. discutendo di tutto ciò che fonda e conferisce senso ad un’esistenza.
E’ piovuto molto in questi giorni, la strada è piena di pozzanghere e in qualche punto è sceso del fango dai campi.
I nostri passi scorrevano tra i campi di grano verde intenso e le querce ancora spoglie che bordano le strade.
Vivo queste scene da venti anni, sempre c’è stato qualcuno con cui camminare, sempre si è potuto parlare, o tacere, della vita e del modo di viverla senza essere racchiusi in uno scafandro, o immedesimati in una commedia.
Qui, nell’eremo, lontani esistenze dal mondo, i gesti e le parole, gli incontri e i passi respirano ciò che non subisce l’usura del tempo, non viene rosicchiato dai tarli, non ammuffisce, non è divorato dall’ingordigia delle menti.
Non è merito nostro, è accaduto e continua ad accadere grazie a coloro che, spinti da una domanda, vengono e permettono che la vita senza condizionamento accada.

Immagine tratta da: http://goo.gl/9n7RRA


 

Il lavoro 3: la mansione, e chi mi lavora a fianco, mi trasformano

Il lavoro è relazione: per giorni, mesi, anni abbiamo al fianco delle persone con cui trascorriamo più tempo che con la nostra famiglia.
Chi sono costoro? Parlano delle loro vite, li ascolto? Sollevano in me sensazioni, moti di simpatia e di antipatia, fascinazioni e avversioni, giudizi senza fine, gelosie, ammirazioni, paure.
Otto ore al giorno la presenza dei miei colleghi di lavoro suscita in me una infinità di processi di svelamento, di messa in discussione, di crisi anche.
Se voglio vestire i panni del giudice posso farlo e dispenserò sentenze: se voglio osservare che cosa, attraverso il lavoro comune, l’altro produce nel mio interiore mettendomi a nudo, posso fare anche questo. Posso scegliere.
Qualunque sia il mio ruolo, la mia mansione, l’ambiente di lavoro è un organismo che pulsa insieme e produce processi nell’intimo dei singoli: il fare, il produrre è il collante, ciò che tiene insieme l’organismo, ma ciò che viene lavorato va ben oltre il manufatto prodotto: ciascuno lavora il proprio interiore grazie a come lavora e a con chi lavora.
Ciò che ci cambia è sempre la relazione: tra noi e il lavoro che eseguiamo; tra noi e chi ci lavora a fianco.
La nostra e altrui trasformazione interiore è il vero scopo del lavorare: come sciocchi crediamo che lavorare sia produrre qualcosa, ma non è così: lavorare è trasformare noi stessi grazie alle mansioni e alle relazioni molteplici che nel corso della giornata prendono corpo.

Immagine tratta da: http://goo.gl/yqcc1y