Doghen, Jinzu (1), L’autonomo e libero operare

Eihei Doghen Zenji
SHOBOGHENZO JINZU

L’AUTONOMO E LIBERO OPERARE (JINZU)
(Quale è il senso del vivere quotidiano?)

Introduzione e trasposizione
Watanabe Koho Roshi

La realtà fondamentale che è lo scopo, il significato vero per coloro che mettono in pratica il perseguimento della via di Budda, vale a dire l’autonomo e libero operare, non è la ristagnante ripetitività di gesti della vita di ogni giorno come bere il thè, mangiare i pasti. non è procedere per forza dell’abitudine e di inerzia, bensì agire vivacemente con freschezza.
Quello che a prima vista sono le azioni ed i comportamenti estremamente usuali della vita quotidiana, è l’operare straordinario, l’autonomo e libero lavoro, lo sconfinato funzionamento. Perciò, colui che con sincerità mette davvero in pratica il perseguimento della via di Budda. dedica fino in fondo con impegno tutta la propria energia e capacità a mettere in opera ogni cosa, ogni accadimento, uno per uno, che incontra momento per momento, situazione per situazione, nell’arco di tutta la propria vita di ogni giorno, uniformandosi alla necessità che è suggerita da quella particolare realtà: allora, proprio lì, si sviluppa e si svolge il modo di vivere libero ed autonomo, che non è limitato da alcuna restrizione. (1)

continua..

silenzio

Periodo di silenzio

Rispetteremo un periodo di silenzio.

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limiti

Nel Sentiero, mettiamo in evidenza solo il negativo dell’umano?

Scrive un’amica: “Mi sembra che sempre più questo cammino sia caratterizzato da quegli aspetti e parole della vita più “desertici” (disarmonia, dolore, sofferenza, eccessi, errori, distanza, freddezza a volte, fatica, incomprensioni….), come se gli aspetti più gioiosi, pacificanti, frizzanti, divertenti e perché no, anche premiativi dell’esistenza, siano marginali e comunque di nessun valore educativo ed evolutivo”.
E’ un’osservazione importante, che certamente coglie un aspetto del nostro procedere.
Perché parlo, in prevalenza, degli aspetti più difficili, più duri, più scarni dell’esistenza? Perché il limite è il centro della nostra elaborazione?
Perché il limite è ciò che appesantisce le vite delle persone ed è la porta per la libertà.
Perché il limite attiva il processo della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione.
Non c’è consolazione nel nostro cammino? In effetti ce n’è poca. Perché?
Perché se possiamo dare, e sottolineo il se, un contributo al cammino di conoscenza, emancipazione e liberazione delle persone, lo possiamo fare a partire da ciò che nella loro vita rappresenta un ostacolo; di conseguenza parliamo degli ostacoli e delle potenzialità di cui essi sono portatori.
La visione del Sentiero è, nella sua radicalità, piuttosto semplice: la libertà si trova nel quotidiano attraverso l’esperienza delle nostre limitazioni.
Non servono dunque a niente gli stati di armonia, di gioa, di pacificazione?
Non servono per una ragione molto semplice: non hanno una funzione di servizio, ma di strutturazione; per loro natura testimoniano una trasformazione avvenuta, realizzano una piattaforma di sentire a partire dalla quale si attiveranno nuovi processi messi in atto dal limite che ci pungola.
Hanno importanza gli aspetti premiativi, le gratificazioni? Certamente, tutti lo sappiamo, tutti sperimentiamo il loro valore di supporto, di consolazione, di incoraggiamento.
L’autore dei post del Sentiero, vede le difficoltà e il disorientamento delle persone;
non è interessato a parlare di sé, della propria libertà dal condizionamento;
è mosso da una compassione profonda per il cammino esistenziale delle persone e cerca, per come gli è dato, di essere loro d’aiuto.
Invece di aiutarle, le deprime perché mostra un mondo fatto di limiti, di cadute, di difficoltà, di deserto?
Può darsi che questo accada, ma mi permetto una domanda:
perché il lettore non coglie la compassione che attraversa tutto il nostro dire e il nostro operare?
Perché non sappiamo esprimerla e, forse, perché non permea sufficientemente la nostra vita e i nostri scritti? Può darsi che sia cosi.
Può anche darsi che il lettore risuoni su quella che in effetti è la sua condizione e viva un moto di rifiuto per noi che è simbolo del rifiuto per sé.
Forse non vede la compassione e l’amore senza condizione che il nostro scrivere porta, perché il riverbero di un proprio disagio provocato dal nostro scrivere, lo focalizza sulla propria difficoltà, sul proprio compito, su ciò che l’attende nella sfera esistenziale. Può darsi anche questo.
Vi chiedo: se uno scritto non serve a mettervi a nudo, a confrontarvi con voi stessi, a cosa serve? Forse penserete che dovrei equilibrare portando contenuti positivi, esperienze di edificazione, esempi e metafore che sostengano in positivo il vostro cammino quotidiano. Ne è pieno il web; ne sono pieni i libri; ne traboccano gli insegnamenti dei “maestri”, non vi manca il materiale, credo.
Mi interesso al letame umano e ve lo propongo come la via alla libertà: questo mi riesce, altro mi rimane difficile.
Per parlare dell’armonia, della gioa, della meraviglia, della vita pregna di senso dovrei scoprirmi, dovrei parlare di me, del mio vivere che quello è.
Non lo farò. Né citerò altri che quello hanno vissuto, perché avendo una sorgente interiore non si capisce perché dovrei andare a prendere l’acqua da un’altra parte.
Concludo dicendo: a mio parere le persone hanno bisogno di trovare nel limite che sperimentano, una possibilità, non un impedimento.
Di questa possibilità sepolta sotto il letame noi parliamo, spinti dall’amore per l’altro.

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Immagine da https://goo.gl/2KQb3R

imparare

Emozione e apprendimento

Siamo molto attenti a ciò che proviamo, durante le esperienze attiviamo un monitoraggio continuo: le gratificazioni, le delusioni, il grado di simpatia e di antipatia, di approvazione e di rifiuto.
Giudizio ed emozione procedono assieme e sono ciò che ci interessa: non di rado l’altro è solo colui/ei che è funzionale ai nostri processi e lo vediamo poco, lo ascoltiamo anche meno.
Direi che questa è la visione, l’esperienza egocentrica della realtà.
C’è un altro modo di procedere, di sperimentare: focalizzarsi sul processo esistenziale in corso, su quello che ci insegna, sull’imparare.
Questo modo di procedere, di interpretare la realtà, ha bisogno di una lettura simbolica dei fatti, ha necessità di una osservazione attenta dell’altro e delle nostre reazioni ad esso. Ha bisogno, in definitiva, di una consapevolezza lucida del portato della relazione: è qualcosa di molto diverso dall’essere noi il centro, è trarre insegnamento da ogni possibilità che la relazione offre, con al centro la relazione stessa, consapevoli che senza essa, e senza l’altro che in essa si presenta, nulla potremmo.
Quindi l’accadere non ha senso per ciò che ci permette di provare emotivamente, cognitivamente, ma per la possibilità di apprendimento che ci dischiude.

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accoglienza

Portare il peso del limite dell’altro

Ognuno ha i propri eroi, io ho questo piccolo uomo che porta a scuola sulle spalle, tutti i giorni, per 30 km il figlio disabile.

Viviamo tutti in relazione e tutti abbiamo figli, partner, colleghi, amici, fratelli e sorelle nel cammino interiore.
Nella relazione ci mostriamo a loro con i nostri limiti, il nostro non compreso, e loro si mostrano a noi.
Non c’è scampo e ad ogni ora siamo chiamati a caricarci sulle spalle il peso del nostro e dell’altrui limite.
Un rifiuto di questa assunzione di responsabilità, si evidenzia attraverso il giudizio: quando l’altro viene stigmatizzato per il limite che ha marcato, quel giudizio ci ricorda che lo stiamo rifiutando, che non lo stiamo accogliendo, che non ci carichiamo il suo essere limitato sulle spalle e lo portiamo nella nostra vita, come l’altro porta noi.
Vogliamo che l’altro porti noi, ma noi non portiamo lui.
Vogliamo essere accolti e sostenuti, ma non accogliamo e sosteniamo.
Ci ricordiamo allora che la vita è una sequenza infinita di gesti di accoglienza, di situazioni in cui ci pieghiamo e diciamo quel si che cambia le cose, la natura della relazione stessa, di ogni relazione.
Per favore, non tirate in campo il fatto che bisogna anche dire dei no, non stiamo affrontando la questione a quel livello in questo momento.
Chi ha dei figli, chi vive con un partner da tempo, chi vive in una comunità, chi svolge una relazione di aiuto queste cose le sa.
Ci si carica sulle spalle il limite dell’altro perché in noi è germogliata l’esperienza della compassione, non per altro.

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