senza orizzonte

La nostra vita senza obbiettivi

Per molti anni ci siamo alimentati e dissetati alla fonte dell’amore che provavamo per il nostro partner: ci dava senso, esperienza, orizzonte.
Per tanto tempo il nostro lavoro è stato la nostra vita. Le nostre mansioni, la nostra funzione, le relazioni erano il nutrimento delle nostre giornate.
Quando tutto questo, e molto altro, viene meno, oscilliamo tra il non senso e la depressione che incombe.
Quando non abbiamo più adesioni a qualcosa e siamo privi di obbiettivi, di cosa si sostanzia il nostro vivere? Che cosa ci rimane?
Quello che abbiamo.
Quello che accade.
Quello che si presenta e ci chiede di essere vissuto.
Dobbiamo riconvertirci dall’essere protesi, dall’incessante edificazione di una interpretazione della realtà che ci gratifichi, al ciò che è, al ciò che accade.
Dal sogno dell’esserci, alla realtà dell’essere.

Immagine da http://goo.gl/t6xYtY



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realtà

La realtà del sentire, dell’Assoluto, del divenire

Estratto dal libro “Per un mondo migliore”, Cerchio Firenze 77, Edizioni Mediterranee.
Tratto da http://goo.gl/5GvTTu

In verità vi dico che non v’ è cosa piú insensata che tapparsi le orecchie per non dimenticare ciò che si è udito. 0 chiudere gli occhi e non voler piú vedere perché si è convinti che non vi sia nulla di piú bello di ciò che si è visto. 0 credere importante ritrovare nell’oceano la lacrima che un lontano giorno, scendendo lungo il volto, cadde nel fiume. (Dali)

 La realtà del “sentire” (Kempis)

Niente quindi spiriti che sono creati e che evolvono, o acquistano coscienza o esperienza; ma completezza di coscienza divina che comprende ogni sentire.
L’idea stessa degli « esseri », o spiriti, che evolvono o prendono coscienza, è un’illusione; come lo è la molteplicità intesa come realtà vera, perché tutto, in effetti, è una sola Realtà, un solo Essere: Dio.

Finché si dice che l’uomo ha una parte immortale, cioè che sopravvive alla morte del suo corpo, non vi sono problemi di comprensione: al massimo uno non ci crede, ma capisce che cosa non crede.
Invece, quando si parla di che cosa è questa parte immortale, come nasce, eccetera, la questione si fa assai più complessa. Intanto – se non la si inquadra in un disegno generale che spieghi, sia pur per sommi capi, la struttura della Realtà si può dire quello che si vuole come la mitologia (senso occulto a parte) insegna. E in effetti, quando si è cercato di spiegare chi è l’uomo, da dove viene e quale è il suo destino, lo si è fatto disinteressandosi di quella che è la Realtà – cioè il complesso di come le cose sono in sé, della vera condizione e qualità di tutto ciò che esiste.[…]
Il testo completo in pdf.

Immagine da http://goo.gl/ufgdpK


Intuizione

C’è un momento in cui tutto il conosciuto, le tradizioni, le religioni, le filosofie sono solo di ostacolo.
In quel momento, quando ci si inoltra in una data dimensione dell’essere, la conoscenza avviene nell’immediatezza dell’esperienza ed è guidata ed orientata non dal conosciuto, ma soltanto dall’intuizione.
Si è condotti, non si conduce.
Ciò detto, nulla giustifica la grande ignoranza delle tradizioni propria di questo tempo.


Coloro che se ne vanno di loro volontà

Un nostra amica, scossa dal suicidio di una giovane donna, Silvia, mi chiede una parola. Che cosa l’ha portata alla determinazione di appendersi ad un albero con il suo foulard?
Non lo sapremo mai: anche quelli che la conoscevano, poco sapevano di lei.
Tutti, poco sappiamo del nostro prossimo. Tutti, senza eccezioni.
Perché? Perché ciò che vediamo e cogliamo non è ciò che è, ma ciò che per noi è necessario che sia.
Dunque dell’altro non cogliamo la sua realtà, ma il suo essere comparsa sul set del nostro film.
Se non si guarda la realtà in quest’ottica, si coltiva la pretesa di capire, di sapere, magari di essere responsabili di qualcosa.
Viviamo, lavoriamo, condividiamo la vita con delle persone e, alla fine, magari attraverso un gesto inaspettato e tragico come il loro suicidio, ci accorgiamo che di esse non conoscevamo niente.
La lezione? Ridimensionarci nella nostra pretesa assurda di conoscere l’altro da noi.
Silvia, ha posto fine alla propria vita in anticipo? Si, secondo le menti; no secondo la coscienza.
Nel disegno del proprio sentire, Silvia ha finito il proprio calendario nell’ultimo giorno previsto, come tutti.
A 41 anni è morta suicida; a 41 anni sarebbe comunque morta di altro.
Non è questo, evidentemente il nodo problematico: di fronte a qualcosa che la faceva soffrire – e se la faceva soffrire è perché quel qualcosa non l’aveva compreso – invece di affrontare la situazione, di continuare a vivere le esperienze e a lottare dentro di esse, si è arresa.
Evidentemente per lei la misura era piena; evidentemente doveva anche muovere la causa del morire suicida per apprendere dagli effetti di quella causa mossa, per comprendere che di fronte alle sfide del non compreso bisogna, da un lato saper lottare, dall’altro saper accettare il limite, il dolore, l’assurdità delle situazioni, la propria o altrui inadeguatezza.
Non sappiamo che cosa Silvia andrà ad imparare, sappiamo che la vita è apprendimento e bisogna trovare un modo di starci dentro senza farsi a pezzi, senza portare le situazioni al limite della sopportabilità del dolore.
Alla nostra amica che ha posto la questione: guardando Silvia, comprendi l’importanza del nostro cammino che cerca di offrire la prospettiva di un senso al vivere e al soffrire?
Quella vita così giovane e generosa che tu vedi scomparire al tuo sguardo e alla tua compagnia, non scompare invano: in tutti voi che l’avete conosciuta, in tutti noi che ne trattiamo, insinua un tarlo, una domanda, un dubbio, un invito ad andare più a fondo nella vita, nella conoscenza, nella ricerca di senso.
Non scompare invano per sé, perché la radice di quel gesto, e il gesto stesso produrranno processi e insegnamenti nella vita futura della sua coscienza.
Accogli, cara amica, il tuo dolore e il tuo sgomento ma non farti travolgere: impara da ciò che accade, senza indulgere su di te e sul tuo soffrire.

Immagine da http://goo.gl/zQew1R


scarabocchio

Quando un genitore muore e lascia dei figli piccoli

Accade che una madre, o un padre, debbano separarsi dai loro figli quando questi sono ancora piccoli e avrebbero bisogno di quella presenza al loro fianco.
Un genitore deve lasciare per diverse ragioni: perché muore; perché si separa in malo modo; perché emigra.
Qui ci interessa trattare il primo caso. Accade di morire giovani, con figli ancora piccoli.
Molte volte abbiamo detto che nessuno muore prima che il proprio calendario sia finito: non un giorno prima.
Ma chi resta, come fa? Come fanno quei bambini senza più quel volto, quella presenza, quelle attenzioni, quella mano che li accompagna?
Sono di quel genitore, quei figli? Sono di quella madre, di quel padre? Siete sicuri?
Oppure quella madre, quel padre sono stati gli strumenti attivi di un progetto esistenziale che li precede e che va ben oltre loro?
Un figlio è, dal nostro punto di vista, un progetto e un processo che contempla la presenza del genitore, ma non è da essa condizionato.
Cosa significa? Che quel progetto/processo proseguirà comunque, a prescindere dalla sopravvivenza di coloro che l’hanno avviato, perché quel processo è esistenziale e si sostanzia nella relazione, nelle esperienze, nel tempo, nella conoscenza, nella consapevolezza, nella comprensione: la scomparsa di quel genitore impatta nell’esistenza del figlio, ma non la stravolge nel suo impianto esistenziale.
Quell’impatto così duro è tale da condurre allo smarrimento, o non è invece una condizione orientante, esplicitante  e rivelante il processo stesso?
Un genitore morendo toglie qualcosa a quel figlio o, invece, dona qualcosa che, dal momento che accade, è già dentro l’ecologia di quel tracciato esistenziale che lo accoglie: non che lo subisce, ma che, nel profondo, lo accoglie perché anche quella separazione è la sua vita.
Dona il genitore, attraverso il trauma della separazione, una possibilità di conoscenza-consapevolezza-comprensione nuove alle proprie creature?
Quel seme che muore, nel tempo darà vita?
Noi, nella nostra limitata visione, diciamo che nulla accade a caso: né il nascere, né il morire, né il perdere una persona amata.
Coloro che rimangono saranno certamente i più adatti a prendere per mano quei figli e ad accompagnarli là dove essi non possono che andare; questo perché il processo esistenziale di ciascuno di noi non dipende dagli altri e sempre, nell’ambiente di relazione, trova le risorse necessarie al perseguimento del proprio scopo esistenziale.

Immagine da http://granellidipsicologia.com/2013/01/