La compassione è la sfida più grande quando in noi il bisogno di giustizia è urgente

Questa discussione in Comunità del Sentiero mi induce ad alcune riflessioni.
In alcuni di noi il bisogno di giustizia, di pulizia, di rispetto bussa con urgenza e produce, non di rado, una frustrazione interiore, una ribellione, una protesta colorata spesso di rabbia.
Reazioni molto umane, comprensibili, condivisibili.
Inutili.
Parlano di noi e del nostro non compreso, del non avere ancora interiorizzato un principio di base: il mondo è quello che le coscienze dei suoi abitanti creano.
Quelle reazioni parlano della nostra lettura duale della realtà: ci sono i carnefici e ci sono le vittime.
Denunciano il cammino che ci separa dalla compassione.
Che cos’è l’esperienza della compassione?
L’aver compreso che nessuno è vittima;
l’aver chiaro che ciò che accade è specchio del sentire personale e collettivo;
il testimoniare una vicinanza al cammino delle persone e al loro faticare o gioire;
l’inchinarsi ai loro processi interiori (che si manifestano negli accadimenti esteriori);
l’essere fattori e agenti attivi di cambiamento per sé, per l’altro, per la società;
tutto questo insieme è la compassione.
La frustrazione e la rabbia quando maturano, quando non sono più la manifestazione della ribellione che sorge dalla non comprensione dell’essere della vita, germogliano in compassione, il lievito che tutte le cose cambia.
Dal moto egoico colorato di frustrazione e rabbia, passiamo alla presa d’atto di quel che è e alla testimonianza attiva di un vivere non condizionato.

Immagine da: http://eccoavoigrc.wordpress.com/


 

La natura della trascendenza, l’esperienza della disconnessione, l’equivoco della meditazione

Chi trascende che cosa?
Io trascendo il mio limite? Lo vedo, ne sono consapevole e poi? Appoggio la consapevolezza su altro? Mi focalizzo sul respiro, sulle sensazioni, su un contenuto concettuale, sapienziale, spirituale?
Prendo atto che il limite esiste: basta così?
Oppure osservo quel limite e cerco di imparare da quello che mi porta, che mi induce a fare, ad essere?
Se osservo ed imparo, inizia il cammino del capire che conduce all’essere consapevole e sfocia nel comprendere.
Se osservo e basta, che cosa inizia? Una disconnessione. Ma la disconnessione se non è legata all’analisi dell’insegnamento che quel limite porta, è semplice rimozione: vivo una vita di pratica della meditazione, della contemplazione – entrambe incernierate sulla disconnessione – e in me cambia poco, pochissimo.
Se la disconnessione non è associata in modo indissolubile alla via del “conosci te stesso” è pura rimozione.
Se la meditazione è solo pratica dell’adesso non germoglia in altro, se non in modo residuale.
Se la meditazione cammina assieme all’insegnamento che sorge dalla pratica del limite, fiorisce in contemplazione.
La contemplazione esiste solo nel ventre dell’immanente: nell’adesso illuminato dalla conoscenza, dalla consapevolezza, dalla comprensione fiorisce la scomparsa del soggetto che conosce, che è consapevole, che comprende.
Ha un senso la pratica della meditazione? Si, se è integrata nel complesso processo del conoscere, essere consapevoli, comprendere.
Si, se è integrata in un paradigma, in una lettura della realtà personale e sociale.
Ha senso relativo quando è consumata come esperienza tra esperienze, disgiunta dal processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione, praticata per rilassarsi, concentrarsi, divenire efficienti.
In altri termini, ha funzione relativa tutte le volte che viene utilizzata e vissuta in un’ottica mondana e utilitaristica.
Un esempio. Anni fa tenevo delle meditazioni guidate tutti i sabati; venivano diverse persone e tornavano a casa rilassate e centrate: mi sentivo un bancomat del benessere, ho smesso.
Non mi interessava, non mi interessa far star bene le persone, mi interessa dare il mio minuscolo contributo perché possano trasformare se stesse e le proprie vite e questo non necessariamente avviene “stando bene”.

Immagine da: http://goo.gl/swaFVl


L’identità e la sua scomparsa

Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.

Immagine da: http://goo.gl/f7wB9y


 

Sull’origine del dolore

Discutevo ieri in un altro post sull’originale idea secondo cui la realtà, personale o collettiva, sarebbe spesso, a nostro giudizio, sbagliata.
Preciso che qui dolore e sofferenza sono sinonimi.
Individuerei l’origine del soffrire in due gangli:
– il non compreso nella coscienza;
– l’interpretazione della mente/identità.
Il non compreso nella coscienza genera determinate scene di apprendimento/verifica: là dove alla coscienza mancano dati ed informazioni, quello è soggetto ad indagine, a sperimentazione, a ripetuti tentativi di messa a fuoco.
Siccome durante i vari cicli incarnativi alla coscienza mancano sempre dati, perché se li avesse tutti – se fosse completa nelle sue comprensioni – non darebbe più luogo ad alcuna incarnazione, ecco che l’esistenza dell’umano conosce sempre e comunque qualche forma di sofferenza.
Un determinato sentire, di una data ampiezza, non genera solo scene congruenti, genera anche una immagine dell’attuatore di quelle scene: ovvero i tre corpi (mentale, astrale/emotivo e fisico) che realizzano la scena la interpretano anche.
Ad esempio, durante la giornata mi può accadere un determinato fatto ed io, lo scrivente, posso interpretarmi come vittima di qualcuno, o di qualcosa.
La vittima è colei che subisce un’ingiustizia e questa presunta condizione genera un ampio spettro di emozioni e pensieri conseguenti.
Da una non comprensione della coscienza deriva una certa scena la quale viene interpretata dall’identità in un certo modo: se la coscienza avesse un’altra comprensione di un dato fatto, genererebbe un’altra scena e questa sarebbe interpretata dalla mente in un altro modo.
C’è dunque l’ampiezza del sentire all’origine di tutto il processo.
La capacità di interpretazione propria dell’identità dipende dal modello interpretativo che questa adopera e questo, a sua volta, dipende dall’ampiezza del sentire: il classico serpente che si morde la coda.
Naturalmente la situazione non è bloccata, in qualunque punto del cerchio si intervenga la rotazione può essere cambiata:
– le esperienze della vita modificano il sentire;
– ciò che viene conosciuto, integrato come modello interpretativo, modifica la lettura/interpretazione dei fatti e quindi cambia sia l’insorgere della vittima, o d’altro, che il materiale psichico che solleva.
Conclusione: l’essere umano è uno e pienamente integrato, il conoscerne le dinamiche interne ci aiuterà a fluire con più leggerezza nella vita e con un minore tasso di dolore.
Nessuna vita è condannata alla sofferenza perché in ogni vita le esperienze modificano sia il sentire che l’interpretazione di esso.

Immagine di Gaia Lionello da http://goo.gl/mAS36f


 

Quanto possiamo scegliere in realtà?

Afferma Rudolf Bultmann che la predicazione di Gesù “richiama l’uomo alla sua posizione di essere di fronte a Dio e alla presenza di Dio a lui, gli indica il suo presente come l’ora della decisione per Dio.” (Teologia del nuovo testamento, Queriniana, pag.30)
Il presente come l’ora della decisione per Dio: è così dal nostro punto di vista?
Perché, se non decidiamo per Dio per chi decidiamo? Per mammona?
Non essendo il mondo diviso tra mammona e Dio forse non siamo tenuti ad alcuna decisione, a nessuna scelta essendo il mondo niente altro che aspetto dell’Uno che mai è divenuto due.
Nel presente l’umano sceglie qualcosa?
Nella sostanza, la possibilità di scelta è molto relativa. Ogni persona opera ciò che gli è possibile operare e anche quando una certa cosa che potrebbe fare, non viene fatta, questo accade perché quella cosa non è stata sufficientemente compresa: non essendo compresa nella sua compiutezza esiste un certo tasso di libero arbitrio, si può fare o no.
Se è compresa senza riserve non rimane alcun margine di libero arbitrio, quella è.
Nell’ignoranza rilevante o parziale la decisione dell’umano ha un certo margine, nella comprensione no.
La persona che ha compreso la realtà unitaria dell’esistente non ha alcuna possibilità di scelta e può vivere, eseguire, incarnare, solo “la volontà di Dio”.
Ma l’umano che ha una comprensione parziale, su un dato fatto, tra cosa sceglie in realtà?
Tra due o più opzioni relative che le sue comprensioni gli permettono di avere: non sceglie tra Dio e mammona, tuttalpiù sceglie tra una azione con un certo tasso di egoismo, ad esempio, e un’altra con un’altro tasso di egoismo.
Le comprensioni vengono conseguite solo attraverso le esperienze; non perché ce lo dicono, ce lo suggeriscono, ce lo impongono: solo sperimentando l’umano impara e comprende.
Se dunque le esperienze sono indispensabili e irrinunciabili e se vengono compiute proprio perché, in alcuni ambiti dell’essere, non c’è comprensione adeguata, perché caricare sulle esperienze la responsabilità, il peso della decisione per Dio, o contro di Lui?
Noi pensiamo che le esperienze siano solo esperienze e che mai l’umano è chiamato a decidere alcunché in merito a Dio, essendo egli niente altro che aspetto della Sua coscienza.

Immagine da: http://goo.gl/dl4H7Y