Il cammino di tutti i giorni e lo scacco del proprio esserci

A me sembra che ci sia un equilibrio nella vita tra le conferme alla nostra visione identitaria e le smentite a questa. In altri termini, nel quotidiano troviamo conferme e smentite al nostro esserci come portatori di un nome.
Senza conferme saremmo smarriti; senza smentite rimarremmo immobilizzati dalla nostra presunzione di sapere, conoscere, esserci.
Se questo può essere per la vita nel “mondo”, diverso è all’interno di un cammino spirituale.
Definiamo cammino spirituale quello che ci conduce dalla focalizzazione sul nostro esserci a quella sull’essere: la transizione dalla visione identitaria ed egoica a quella neutrale e impersonale, al ciò che è.
Constato tutti i giorni quanta confusione e quanto equivoco ci sia in merito a questo tema: le persone chiedono ad un cammino spirituale quello che mai potrà dare: la conferma di sé e del proprio esserci.
Sgomberiamo il campo da un equivoco: non sto dicendo che nella via spirituale l’identità viene negletta ed umiliata, ma che viene utilizzata come piede di porco per scardinare la porta che occlude la libertà.
La conoscenza, consapevolezza, comprensione delle proprie dinamiche identitarie sono ingredienti fondamentali per accedere a spazi di consapevolezza non condizionati: conoscere l’identità per superarla, per eliminare il filtro che essa costituisce nel tentativo di definirsi e che è l’elemento che vela la realtà dell’essere.
Conoscere dunque il filtro per non esserne condizionati.
Qualunque fatto della giornata viene piegato e usato nell’ottica di svelare il canto del proprio esserci e della resistenza a lasciare che qualcosa di più vasto si affermi.
Questo è una via spirituale: coloro che camminano con noi, il partner, i figli, i colleghi di lavoro tutti svelano il gioco tra esserci ed essere in noi.
Per poter affrontare questa dinamica interiore occorre aver risolto, almeno nelle sue principali basi, le questioni dell’immagine di sé e del proprio diritto ad esserci, altrimenti si porta nella via spirituale una aspettativa che essa non può, se non in maniera secondaria, risolvere.

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L’esperienza della poesia coi ragazzi a scuola

C’è un momento in classe in cui i ragazzi rispondono in un certo modo, un modo inaspettato e inesplorato.
Succede quando, con davvero poco, li porti all’interno di sé, basta un respiro a volte.
E’ quello che mi è successo sempre come insegnante, toccare con mano la differenza tra il far lezione e lo stare invece insieme a rendere palpabile qualcosa di semplice e speciale.
E’ successo anche stamattina, in una prima media, dove abbiamo sperimentato un primo approccio alla poesia.
Abbiamo iniziato con alcuni minuti di silenzio scandito dal respiro, seduti correttamente sulla stessa seggiola dove di solito stanno stravaccati.
Era la prima volta. Hanno collaborato, nessuno ha riso o si è mosso.
Subito dopo hanno osservato come l’ambiente fosse impregnato di silenzio e di calma.
A metà lezione l’esperienza si è ripetuta per ritrovare il giusto ritmo tra il fare e lo stare.
Così i ragazzi hanno definito il silenzio:
calma
pace
tranquillità
vuoto
concentrazione
positività
libertà
respiro.
Il silenzio è innocuo,
sereno,
prezioso,
libera la mente.
Dopo aver letto il seguente Haiku abbiamo provato insieme a trasporlo

Vedendo la luna                                                    Osservando la luna
riflessa sul mare                                                   rispecchiata sul mare
dalla sacra montagna                                           dall’alta collina
le isole sembrano buchi                                      gli scogli sembrano ombre
in una distesa di ghiaccio                                   sopra una distesa argentata.
Saigyo                                                                                                 I ragazzi

Abbiamo poi provato con l’esperienza che i ragazzi avevano della luna, e dalla frase di uno di loro è stato elaborato insieme il seguente testo:

Tuffandomi nel mare
di sera
ho notato 
onde di luna
cavalcare l’acqua

E’ stato solo un primo approccio, ma significativo, su come sia possibile portare i ragazzi a porre l’attenzione su cose semplici che possono, però, diventare straordinarie: basta saper creare il giusto clima per insegnare a guardarle e scoprire parole adatte per raccontarle.

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Vivere ciò che fonda un’esistenza

Abbiamo camminato a lungo ieri con P. discutendo di tutto ciò che fonda e conferisce senso ad un’esistenza.
E’ piovuto molto in questi giorni, la strada è piena di pozzanghere e in qualche punto è sceso del fango dai campi.
I nostri passi scorrevano tra i campi di grano verde intenso e le querce ancora spoglie che bordano le strade.
Vivo queste scene da venti anni, sempre c’è stato qualcuno con cui camminare, sempre si è potuto parlare, o tacere, della vita e del modo di viverla senza essere racchiusi in uno scafandro, o immedesimati in una commedia.
Qui, nell’eremo, lontani esistenze dal mondo, i gesti e le parole, gli incontri e i passi respirano ciò che non subisce l’usura del tempo, non viene rosicchiato dai tarli, non ammuffisce, non è divorato dall’ingordigia delle menti.
Non è merito nostro, è accaduto e continua ad accadere grazie a coloro che, spinti da una domanda, vengono e permettono che la vita senza condizionamento accada.

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La coppia 12: prendersi cura. L’esperienza dell’amore

Il cammino comune dei due giunge, può giungere, ad una maturità: liberato da tutto ciò che le menti dei protagonisti hanno aggiunto sulla natura di esso, su sé, sull’altro può finalmente emergere il tessuto di comprensioni cui il rapporto ha dato luogo.
Quando è divenuto ai due evidente che la loro unione è un processo, ed un fatto, esistenziale, questa consapevolezza che è maturata attraverso le esperienze mostra ora i propri frutti: l’accoglienza, l’accettazione, il non giudizio, la compassione.
Nomi diversi dell’amore.
Diviene chiaro ora, e solo ora, che quello che i due chiamavano amore, era solo innamoramento; quello che chiamavano amore era solo affetto; quello che chiamavano amore era solo sesso.
Ora i due comprendono che c’è qualcosa di molto più vasto che è fiorito in loro e che contiene innamoramento, affetto e sesso e, nel contempo, non sa che farsene di questi perchè, contenendoli, li supera ed è altro da essi.
Come una persona è più del suo corpo, delle sue emozioni e del suo pensiero, così l’amore è più, e radicalmente diverso, da innamoramento, affetto e sesso.
Ora ai due appare chiaro che tutto ciò che avevano in precedenza sperimentato era condizionato dai loro bisogni e dalla necessità di essere confermati come individui e come esistenti.
L’amore non si cura di esistere, è la natura di tutte le cose.
L’amore non è provato da un soggetto: è la natura della realtà che attraversa un soggetto. Non si può affermare: “Io amo”, è un’espressione che contraddice la natura dell’amore. Si può affermare: “C’è amore”.
L’amore non solo non ha un soggetto, ma non ha nemmeno un oggetto; non si può affermare: “Ti amo”, si può invece affermare: “C’è amore”.
L’amore non è un sentimento, non un’emozione, non un pensiero: tutto questo non centra niente con la natura reale dell’amore, semplicemente lo rappresenta, e non sempre, non comunque.
L’amore è uno stato di coscienza, una condizione dell’essere, una comprensione operante.
Certo, nel suo essere esperienza si veste di pensiero e di emozione ma la sua natura non è quella, non bisogna scambiare la forma per la sostanza, la forma è l’abito della sostanza, della comprensione.
L’amore non è rivolto a qualcuno e non è di qualcuno: là dove c’è amore, non c’è possesso.
L’amore conduce alla scomparsa dell’amante e dell’amato e lascia che affiori soltanto l’esserci unitario della realtà.
L’amore, nell’umano, diviene compassione: pieno inchinarsi di fronte alla natura delle persone e dei fatti; piena accoglienza, piena comprensione; piena vicinanza.
Infine, l’amore diviene esperienza così semplice e feriale da divenire non riconoscibile: diviene il semplice “prendersi cura”, piccoli gesti che nulla di eclatante hanno, che nulla chiedono, che nulla si attendono.
L’amore diviene semplice servire.

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Una piccola storia

Tra i monti, molto lontano dal mondo, c’era un eremo dove vivevano due eremiti.
La loro età era avanzata ma non definibile; abitavano l’eremo da molti decenni, si nutrivano dei frutti del bosco, delle erbe selvatiche e dei prodotti del loro minuscolo orto. Vestivano di abiti disadorni, larghi e piuttosto consunti, sempre gli stessi. Ai piedi portavano ciabatte in tutte le stagioni.
Si scaldavano con una stufa a legna e trascorrevano le loro giornate nella quiete e nel silenzio. Nessuno dei due amava parlare e lo facevano solo quando era necessario.
Nelle loro vite nulla mancava. Un tempo nel loro interiore molte erano state le domande e l’ansia di risposte li aveva sospinti a cercare e a sperimentare.
Da molto tempo nelle loro menti non c’era più alcuna domanda, né alcun bisogno di cui valesse la pena parlare, o per cui fosse necessario adoperarsi.
Dal mondo venivano a visitarli persone che avevano saputo della loro esistenza; queste percorrevano il lungo sentiero tra i monti sospinte da un’inquietudine, una insoddisfazione, una domanda.
I due eremiti ascoltavano e, senza la pretesa di possedere alcuna verità, dicevano ciò che secondo loro poteva essere detto in quella situazione.
Le persone, dopo aver lasciato dei doni fuori dalla porta d’ingresso, riprendevano il cammino per ritornare nel mondo alcune con il volto chiaro e fiducioso, altre preoccupate, altre ancora visibilmente insoddisfatte ed irate.
Così era da decenni e tutto questo avveniva nel ritmo di una vita senza pretese, semplice e discreta.
Un giorno giunsero all’eremo persone ricche di motivazione e di domande; esse furono accolte nella cucina illuminata dalla debole luce del giorno, ciascuna di loro portava sottobraccio doni voluminosi.
Gli ospiti posero le loro domande, ascoltarono in silenzio le risposte; fu loro servita una tisana di frutti del bosco con noci sgusciate e del pane raffermo.
A metà del pomeriggio, quando già la luce nella stanza era calata, i padroni di casa accesero due candele.
Uno degli ospiti osservò: “C’è poca luce, servirebbero altre candele!” Senza attendere la risposta, dall’involto sottobraccio tirò fuori due candelabri, ciascuno di sette candele e disse agli eremiti: “Datemi del fuoco e le accenderò, così vedremo meglio e potremo continuare a discutere confortati dalla luce”.
I due eremiti si guardarono un po’ stupiti, dei due l’uomo si alzò, prese una sola candela dai candelabri, la appoggiò in una ciotola e la accese.
L’ospite sembrò infastidito, forse in cuor suo desiderava che tutte e quattordici le candele fossero accese; all’eremita sembrava che le due candele accese all’imbrunire bastassero a fare una luce cui nulla mancava ma, per non offendere l’ospite, aveva accettato di accenderne una terza.
La conversazione continuò e oramai si avvicinava la sera, il fuoco nella stufa stava morendo e la temperatura nella stanza era diminuita.
Dall’attaccapanni gli eremiti presero due pesanti mantelle di colore scuro, semplici e piuttosto lise e con esse si coprirono; poi da una cassapanca tirarono fuori delle coperte e le offrirono agli ospiti.
Uno di questi, dal pacco che aveva portato come dono, estrasse una mantella molto bella, di un bel colore, ricca di decorazioni e la offrì dicendo: “Prendi questa, è fatta dai migliori artigiani secondo le ultime e più sofisticate tecniche di tessitura!”
I due eremiti si guardano perplessi: le loro mantelle scendevano sulle spalle come fossero parte del corpo e, sebbene fossero vecchie, ben assolvevano alla funzione, i loro corpi erano al caldo: quelle mantelle, i due eremiti, la cucina, l’eremo, il bosco, il tempo che scorreva erano come un unico essere cui nulla mancava; i due sentirono che indossare quella nuova mantella avrebbe significato rompere quella unità di tutte le cose.
Dissero all’ospite: “Alla nostra vita nulla manca: il bosco ci nutre, il torrente ci disseta, l’eremo ci protegge dalla pioggia, la legna ci scalda. Questa mantella così bella che ci hai portato può essere molto utile ad altri, donala a qualcuno che conosci e che sai che affronta l’inverno senza il conforto della stufa che arde”.
L’ospite insistette e l’eremita rispose: “Se osservi attentamente, se rimani qui con noi per alcuni giorni, o per alcuni mesi se vuoi, potrai fare esperienza del nostro modo di vivere, potrai comprendere il ritmo del giorno e della notte, delle stagioni, del divenire; potrai comprendere perchè la vivrai, l’unità sostanziale di tutte le cose e di tutti gli esseri, l’unico respiro che unisce le nostre vite al bosco, alla terra, al lupo e al capriolo. Quando avrai compreso e vissuto in te questa unità allora il tuo silenzio, il tuo occuparti della stufa, il tuo andare a fare legna nel bosco, il tuo ingegno nel costruire un sistema di convogliamento dell’acqua dal tetto al pozzo saranno un dono gradito, utile e necessario”.
Gli ospiti ascoltarono e tacquero, non furono necessarie altre parole; per tutta la sera e anche durante la cena nessuno parlò.
Gli eremiti si ritirarono nelle loro rispettive stanze, gli ospiti distesero le loro coperte, le tre candele furono spente e il silenzio della notte attraversata dal volo muto del barbagianni coprì il loro sonno.