Cosa sono gli assoluti? Quei valori alti ed ultimi di cui parlano la morale, l’etica, la religione.
Una delle grazie di questa vita è stata per me la possibilità di crescere lontano da una formazione religiosa.
La mia era una famiglia di contadini e di comunisti; sono cresciuto nella fascinazione dell’anarchia e del Cristo di San Francesco. Più tardi lo zen è stato casa.
Tutto il cammino è avvenuto e avviene lontano dagli assoluti, dalle adesioni, dalle promesse, dai doveri.
Umano e assoluto
La realtà della vita, dell’umano, e quindi dell’Assoluto, secondo la visione del Cerchio firenze 77 e del Cerchio Ifior
Tutta la realtà è una proiezione della coscienza
Qui trovate un compendio dell’escatologia cristiana: a noi sembra che, non avendo l’autore dell’omelia altro paradigma che quello della propria fede, mostri una difficoltà nel scendere nella profondità del simbolo che le stesse scritture a lui sacre gli aprono.
Tutta la realtà è simbolo e tutta parla dei processi dell’interiore: personali, individuali, collettivi.
Nel Sentiero, mettiamo in evidenza solo il negativo dell’umano?
Scrive un’amica: “Mi sembra che sempre più questo cammino sia caratterizzato da quegli aspetti e parole della vita più “desertici” (disarmonia, dolore, sofferenza, eccessi, errori, distanza, freddezza a volte, fatica, incomprensioni….), come se gli aspetti più gioiosi, pacificanti, frizzanti, divertenti e perché no, anche premiativi dell’esistenza, siano marginali e comunque di nessun valore educativo ed evolutivo”.
E’ un’osservazione importante, che certamente coglie un aspetto del nostro procedere.
Perché parlo, in prevalenza, degli aspetti più difficili, più duri, più scarni dell’esistenza? Perché il limite è il centro della nostra elaborazione?
Perché il limite è ciò che appesantisce le vite delle persone ed è la porta per la libertà.
Perché il limite attiva il processo della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione.
Non c’è consolazione nel nostro cammino? In effetti ce n’è poca. Perché?
Perché se possiamo dare, e sottolineo il se, un contributo al cammino di conoscenza, emancipazione e liberazione delle persone, lo possiamo fare a partire da ciò che nella loro vita rappresenta un ostacolo; di conseguenza parliamo degli ostacoli e delle potenzialità di cui essi sono portatori.
La visione del Sentiero è, nella sua radicalità, piuttosto semplice: la libertà si trova nel quotidiano attraverso l’esperienza delle nostre limitazioni.
Non servono dunque a niente gli stati di armonia, di gioa, di pacificazione?
Non servono per una ragione molto semplice: non hanno una funzione di servizio, ma di strutturazione; per loro natura testimoniano una trasformazione avvenuta, realizzano una piattaforma di sentire a partire dalla quale si attiveranno nuovi processi messi in atto dal limite che ci pungola.
Hanno importanza gli aspetti premiativi, le gratificazioni? Certamente, tutti lo sappiamo, tutti sperimentiamo il loro valore di supporto, di consolazione, di incoraggiamento.
L’autore dei post del Sentiero, vede le difficoltà e il disorientamento delle persone;
non è interessato a parlare di sé, della propria libertà dal condizionamento;
è mosso da una compassione profonda per il cammino esistenziale delle persone e cerca, per come gli è dato, di essere loro d’aiuto.
Invece di aiutarle, le deprime perché mostra un mondo fatto di limiti, di cadute, di difficoltà, di deserto?
Può darsi che questo accada, ma mi permetto una domanda:
perché il lettore non coglie la compassione che attraversa tutto il nostro dire e il nostro operare?
Perché non sappiamo esprimerla e, forse, perché non permea sufficientemente la nostra vita e i nostri scritti? Può darsi che sia cosi.
Può anche darsi che il lettore risuoni su quella che in effetti è la sua condizione e viva un moto di rifiuto per noi che è simbolo del rifiuto per sé.
Forse non vede la compassione e l’amore senza condizione che il nostro scrivere porta, perché il riverbero di un proprio disagio provocato dal nostro scrivere, lo focalizza sulla propria difficoltà, sul proprio compito, su ciò che l’attende nella sfera esistenziale. Può darsi anche questo.
Vi chiedo: se uno scritto non serve a mettervi a nudo, a confrontarvi con voi stessi, a cosa serve? Forse penserete che dovrei equilibrare portando contenuti positivi, esperienze di edificazione, esempi e metafore che sostengano in positivo il vostro cammino quotidiano. Ne è pieno il web; ne sono pieni i libri; ne traboccano gli insegnamenti dei “maestri”, non vi manca il materiale, credo.
Mi interesso al letame umano e ve lo propongo come la via alla libertà: questo mi riesce, altro mi rimane difficile.
Per parlare dell’armonia, della gioa, della meraviglia, della vita pregna di senso dovrei scoprirmi, dovrei parlare di me, del mio vivere che quello è.
Non lo farò. Né citerò altri che quello hanno vissuto, perché avendo una sorgente interiore non si capisce perché dovrei andare a prendere l’acqua da un’altra parte.
Concludo dicendo: a mio parere le persone hanno bisogno di trovare nel limite che sperimentano, una possibilità, non un impedimento.
Di questa possibilità sepolta sotto il letame noi parliamo, spinti dall’amore per l’altro.
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Evolve chi?
Prendo lo spunto da questo bel post di U. Ridi.
Ad una percezione ordinaria, sembra che tutto sia conseguenza di qualcosa e dia origine a qualcos’altro.
Sembra che il divenire del tempo, delle condizioni ambientali, sociali, esistenziali, sia la norma.
Questa sembra essere la realtà, ma lo è? E’ reale questa percezione, o è un’illusione?
Come appare la realtà dall’interno dell’esperienza contemplativa dove la presenza del soggetto si stempera fino a scomparire?
Appare come accadere di fatti.
Fatti che non si susseguono, ma che sono.
Fatti senza tempo e senza qualità.
Fatti senza scopo.
C’è una dimensione d’esistere e d’essere che poco ha a che fare con il divenire, molto con l’assenza di sé, l’irrilevanza, l’essere senza connotazione.
Conduce questa esperienza ad un alienazione dal reale? Viene meno il nostro compito incarnativo, l’imparare sporcandosi le mani? Diveniamo come funghi, infine?
Domande ascoltate mille volte, proprie delle menti che non riescono a concepire la realtà che per opposti: o l’incarnazione, o la contemplazione!
Poveri noi.
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I cattolici, il mondo, la via della libertà
Confesso che provo un moto di fastidio quando i cattolici insistono sulle questioni economiche, sociali, etiche.
Sottolineo insistono, perché è certamente un loro diritto occuparsi di tali questioni.
L’ultima occasione ieri: il Papa a Torino, è entrato così nel dettaglio delle questioni sociali che a me è sembrato più un leader politico che una guida spirituale e religiosa.
Quando leggo i vangeli, non ne traggo l’impressione di un Gesù in continua tensione con il suo tempo: vedo un uomo che ha scelto di parlare alla gente del popolo, alle donne di cose che riguardavano la loro vita interiore, il loro sentire, i loro condizionamenti.
Non mi sembra che Gesù parlasse in continuazione dei mali del suo tempo: mi sembra che indicasse una via alla libertà, un cammino esistenziale e di conoscenza ai suoi interlocutori, a coloro che riponevano fiducia in lui.
Mi sembra che parlasse all’intimo delle persone e quello privilegiasse, consapevole che ogni cambiamento sociale ha bisogno di una conversione interiore e mi sembra in lui evidente la tensione al Regno, alla relazione con il Padre, al processo di unificazione interiore.
Non mi riesce sempre di vedere oggi, nelle persone che al suo insegnamento si riconducono, questa tensione interiore, quel vivere la vita accompagnati dalla guida dello Spirito, ad esso affidati: vedo gente che molto di frequente pressa il mondo per il suo limite e per le sue ingiustizie. Sembra che la realtà, per i cattolici, non sia creata dallo Spirito ma da quello che loro chiamano il male, e questo rimanda ad un problema mai risolto, la funzione del limite, dell’imperfetto, del contingente, del separato.
Come ho tante volte detto, per noi il mondo non è il luogo dell’ingiustizia immotivata, è lo specchio fedele dell’interiore dell’umano: abbiamo il mondo che creiamo e che, dato il nostro tasso di egoismo e di ignoranza, ci meritiamo.
Dunque non ci lamentiamo, né invitiamo alla protesta quasi fossimo vittime di quella ingiustizia: ci rimbocchiamo le maniche cambiando noi stessi e invitando gli altri a farlo, se possono e se vogliono: senza pressione, senza pressare alcuno perché si cambia solo quando si è pronti, non quando secondo qualcun altro sarebbe tempo.
Il mondo con tutti i suoi limiti, è per noi l’occasione, la possibilità della nostra trasformazione: la sua ingiustizia, il dolore che lo compenetra sono l’opportunità che ci induce a conoscerci, a divenire consapevoli, a comprendere; a camminare lungo il sentiero che da ego conduce ad amore.
Crediamo che sia così anche per i cattolici, ma poniamo accenti molto differenti: nella nostra irrilevanza, insistiamo sul cammino della conoscenza interiore, individuale e collettivo, poniamo al centro il processo interiore, su questo va la nostra insistenza, il nostro sforzo, la nostra dedizione.
Sappiamo che il resto, il cambiamento del mondo, la giustizia, sono conseguenza.
La libertà interiore, frutto della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione, genera la giustizia.
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Amare è un atto di volontà?
Dice Enzo Bianchi, e con lui i cristiani in genere: “Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù”.
Dunque sembra che l’amore sia il frutto di un atto di volontà del soggetto che crede nell’amore e ama perché Dio lo ha amato per primo.
Definirei questo amore, l’amore voluto e lo raffronterei con l’esperienza dell’amore che accade, l’amore accaduto.
La mia tesi è molto semplice: l’umano scopre l’amore, non lo impara, non lo può volere, non può indursi, non più di tanto almeno, ad amare se questa spinta non gli sorge dall’intimo.
Scoprire l’amore significa che quando lo vedi, lui era già lì: non è tuo, non l’hai fatto tu, non è un tuo frutto. Lui c’era già, l’hai solo scoperto.
L’amore c’è per tutti e tutti, a loro tempo, lo scoprono.
L’amore accaduto è l’esperienza dell’amare che ti attraversa e che non hai voluta, non l’hai cercata, è accaduta a prescindere da te: attraverso te, ma a prescindere dalla tua volontà.
L’amore frutto della volontà lo chiamerei, più propriamente, il bene voluto, il bene fatto, l’operare il bene: è un’esperienza interiore molto differente dall’amore, dall’essere attraversati dall’amore. Altrettanto importante.
L’esperienza dell’amore conduce l’umano incontro alla pienezza di sé e, naturalmente, non può che divenire vita, azione, relazione.
A me sembra che nella visione cristiana dell’amore e dell’amare ci sia del non chiarito: espressioni come credere all’amore, amare gli altri perché Dio ci ha amati, mi sembrano non significanti, non si ama per queste ragioni, non si ama per nessuna ragione. Per queste ragioni si fa il bene.
Si ama perché l’insieme delle esperienze e delle comprensioni ci hanno condotti, passo passo, oltre il limite dell’egoismo e della cecità interiore, fino a far sorgere in noi quell’esperienza precisa e sconvolgente che chiamiamo amore.
La visione cristiana esercita su noi una costante sottile pressione, quasi a volerci indurre e condurre ad amare: pedagogia pessima, come molte delle pressioni, non si può costringere una pianta a crescere più in fretta, non si può indurre un umano ad amare quando non ha in sé la disposizione a farlo.
Si può educare alla generosità, alla collaborazione, alla condivisione, al rispetto. Si può educare al bene, dunque, certo!
L’amore sorgerà nell’intimo della persona quando essa, lavorata dal non-amore, avrà compreso – non capito – che non c’è nulla da difendere, nulla di nostro, nulla che non sia dell’Assoluto, dentro l’Assoluto.
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La realtà del sentire, dell’Assoluto, del divenire
Estratto dal libro “Per un mondo migliore”, Cerchio Firenze 77, Edizioni Mediterranee.
Tratto da http://goo.gl/5GvTTu
In verità vi dico che non v’ è cosa piú insensata che tapparsi le orecchie per non dimenticare ciò che si è udito. 0 chiudere gli occhi e non voler piú vedere perché si è convinti che non vi sia nulla di piú bello di ciò che si è visto. 0 credere importante ritrovare nell’oceano la lacrima che un lontano giorno, scendendo lungo il volto, cadde nel fiume. (Dali)
La realtà del “sentire” (Kempis)
Niente quindi spiriti che sono creati e che evolvono, o acquistano coscienza o esperienza; ma completezza di coscienza divina che comprende ogni sentire.
L’idea stessa degli « esseri », o spiriti, che evolvono o prendono coscienza, è un’illusione; come lo è la molteplicità intesa come realtà vera, perché tutto, in effetti, è una sola Realtà, un solo Essere: Dio.
Finché si dice che l’uomo ha una parte immortale, cioè che sopravvive alla morte del suo corpo, non vi sono problemi di comprensione: al massimo uno non ci crede, ma capisce che cosa non crede.
Invece, quando si parla di che cosa è questa parte immortale, come nasce, eccetera, la questione si fa assai più complessa. Intanto – se non la si inquadra in un disegno generale che spieghi, sia pur per sommi capi, la struttura della Realtà si può dire quello che si vuole come la mitologia (senso occulto a parte) insegna. E in effetti, quando si è cercato di spiegare chi è l’uomo, da dove viene e quale è il suo destino, lo si è fatto disinteressandosi di quella che è la Realtà – cioè il complesso di come le cose sono in sé, della vera condizione e qualità di tutto ciò che esiste.[…]
Il testo completo in pdf.
Immagine da http://goo.gl/ufgdpK
La natura dell’amore
Vito Mancuso parla di amore come fenomeno che si sviluppa nella dipendenza, nel possesso, nella esclusività.
Alla fine del post trovate i brani salienti evidenziati e nel link l’intera intervista a Franco Calabrò in pdf.
Vito, nel parlare dell’amore, parla di ciò che noi chiamiamo affetto e che è, per sua natura, condizionato dai bisogni delle identità che condividono l’esperienza.
Se fosse solo questo, sarebbe una questione di termini e di niente altro. Ma Vito dice che è nella logica cosmica dell’amore essere l’agente che lega, che crea dipendenza e possesso.
Qui fa una notevole confusione e temo non abbia visto bene: l’amore attiva il processo dell’incontrarsi, dell’aggregarsi e attraverso quel processo conduce al superamento di ogni dipendenza e di ogni possesso.
L’amore è processo creativo innescato da una forza unitaria, non duale: quella forza, quando impatta con l’umano, diviene processo che da un punto conduce ad un altro punto, essendo tutto nell’umano soggetto al divenire e al tempo.
L’amore conduce due persone ad incontrarsi, ad innamorarsi, a vivere la stagione della maturità affettiva condizionata ancora dal bisogno uno dell’altro, da un certo tasso di dipendenza, da una possessività di vario grado: tutto questo è mosso da quella forza chiamata amore, ma non la esprime; certo, forse, per sommi tratti, la prefigura.
Siamo ancora lontani dall’amore perché ancora alto è il condizionamento che le identità introducono.
Molti di noi arrivano a miglior vita che mai hanno, se non per lampi e frammenti, vissuto l’esperienza dell’amore.
L’amore nulla ha a che fare con la dipendenza.
L’amore nulla ha a che fare con il possesso.
L’amore nulla a che fare con l’esclusività.
Quando la persona sperimenta l’amore non può dire: “Io amo!” perché l’amore non ha un soggetto, né un oggetto.
L’amore è un’esperienza che nella gratuità sorge e diviene sperimentabile, e nella gratuità tramonta e ci lascia dentro ai nostri piccoli attaccamenti.
L’amore è la forza che ci conduce ad incontrarci, ad intrigarci, a collaborare, a condividere e, mentre viviamo questi processi, ci rende liberi dalla dipendenza, dal possesso, da noi stessi.
Man mano che l’amore si innerva in noi, trasforma l’intero ambito del nostro vivere, delle nostre relazioni, del nostro essere.
Alla fine, quando la sua azione è giunta a maturità, l’amante e l’amato sono scomparsi come soggetti che possono affermare: “Io ci sono, io amo”.
L’esperienza dell’amore è, allora, universale e copre tutti gli esseri e tutte le creature.
La coppia non esiste più in quanto tale e i due, se hanno proceduto nella comprensione assieme, sono testimoni dell’amore senza nome che accade.
Intervista a Vito Mancuso di Paolo Calabrò
[…] Questo a significare che, quando parliamo dell’amore, parliamo certamente di un sentimento – è chiaro che la prima manifestazione dell’amore sia il sentimento, all’interno del mondo degli umani – ma questo sentimento a sua volta rimanda a quella logica di cui ho parlato finora: cioè quella logica cosmica che porta gli enti ad aggregarsi ad altri enti, quelli piccolissimi come quelli grandissimi.
Se si tratta di una cosa così innata e intrinseca a tutto ciò che esiste: perché è così difficile vivere liberamente e serenamente l’amore? Perché l’uomo rimane invischiato nelle tante autocensure e regolette morali tipiche della nostra cultura? Soprattutto: si può venirne fuori? È infine possibile vivere l’amore come libertà?
Comincerei col chiarire che è colpa della cultura soltanto in parte: è vero che sono tante le istanze culturali che tendono a trasformare il “fiore” dell’amore, sbocciato spontaneamente nel campo, in fiore di serra, e poi in pianta d’appartamento (ride);in una parola, a irregimentarlo. Però qui occorre chiedersi: com’è che queste regole sopravvivono al passare dei secoli, delle organizzazioni collettive e delle morali? Una parte va certamente addebitata alla società, che non è perfetta. Ma a mio avviso tutto nasce ancor più a monte, da quel sentimento delicatissimo e peculiare che è l’amore e che non è indipendenza. Se lo si guarda più da vicino si scopre che il senso del precetto, della legge, della convenzione, non nasce semplicemente dall’imposizione eteronoma di una società cattiva: esso sorge piuttosto dalla dimensione più viva che è alla radice del fenomeno dell’amore, che è un fenomeno di dipendenza: si vuole che l’altro – o l’altra – dipenda da noi. E il legame (o il legaccio, se vogliamo evidenziarne l’aspetto negativo) è già insito in esso: ciò spiega come mai gli esseri umani, ancora oggi, si leghino tra di loro. In passato c’era il clan che assegnava a ciascuno il marito o la moglie, e c’era tutta una struttura sociale che in maniera pervasiva legava il singolo dalla nascita alla morte: non c’era spontaneità nell’amore, i matrimoni erano programmati eccetera eccetera. Ma oggi non è più così, almeno in Occidente: e tuttavia gli esseri umani sentono ancora il bisogno di legarsi. Perché dunque è così difficile ritrovare quella spontaneità originaria, oggi, dove la libertà individuale lo permetterebbe? Perché si tratta di un equilibrio delicato, perché se c’è l’amore -vorrei precisare che non sto parlando degli amori (che è tutto un altro campo, anch’esso a suo modo interessante per l’esplorazione intellettuale), dell’avventura, quella di cui canta Battisti, dove meno legacci ci sono, meglio è – insomma, se c’è l’amore, cioè quel sentimento assoluto che provoca un’attrazione irresistibile, allora c’è, per così dire aautomaticamente anche il desiderio del possesso, dell’esclusività. Quando questa cosa viene meno, si può probabilmente dire che anche l’amore, nel senso più pieno, sia venuto meno (del resto non c’è da sorprendersi: l’amore è energia, è qualcosa che va e che viene), o che forse sia entrato in una nuova fase del suo sviluppo. […]