amore

Amare è un atto di volontà?

Dice Enzo Bianchi, e con lui i cristiani in genere: “Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù”.
Dunque sembra che l’amore sia il frutto di un atto di volontà del soggetto che crede nell’amore e ama perché Dio lo ha amato per primo.
Definirei questo amore, l’amore voluto e lo raffronterei con l’esperienza dell’amore che accade, l’amore accaduto.
La mia tesi è molto semplice: l’umano scopre l’amore, non lo impara, non lo può volere, non può indursi, non più di tanto almeno, ad amare se questa spinta non gli sorge dall’intimo.
Scoprire l’amore significa che quando lo vedi, lui era già lì: non è tuo, non l’hai fatto tu, non è un tuo frutto. Lui c’era già, l’hai solo scoperto.
L’amore c’è per tutti e tutti, a loro tempo, lo scoprono.
L’amore accaduto è l’esperienza dell’amare che ti attraversa e che non hai voluta, non l’hai cercata, è accaduta a prescindere da te: attraverso te, ma a prescindere dalla tua volontà.
L’amore frutto della volontà lo chiamerei, più propriamente, il bene voluto, il bene fatto, l’operare il bene: è un’esperienza interiore molto differente dall’amore, dall’essere attraversati dall’amore. Altrettanto importante.
L’esperienza dell’amore conduce l’umano incontro alla pienezza di sé e, naturalmente, non può che divenire vita, azione, relazione.
A me sembra che nella visione cristiana dell’amore e dell’amare ci sia del non chiarito: espressioni come credere all’amore, amare gli altri perché Dio ci ha amati, mi sembrano non significanti, non si ama per queste ragioni, non si ama per nessuna ragione. Per queste ragioni si fa il bene.
Si ama perché l’insieme delle esperienze e delle comprensioni ci hanno condotti, passo passo, oltre il limite dell’egoismo e della cecità interiore, fino a far sorgere in noi quell’esperienza precisa e sconvolgente che chiamiamo amore.
La visione cristiana esercita su noi una costante sottile pressione, quasi a volerci indurre e condurre ad amare: pedagogia pessima, come molte delle pressioni, non si può costringere una pianta a crescere più in fretta, non si può indurre un umano ad amare quando non ha in sé la disposizione a farlo.
Si può educare alla generosità, alla collaborazione, alla condivisione, al rispetto. Si può educare al bene, dunque, certo!
L’amore sorgerà nell’intimo della persona quando essa, lavorata dal non-amore, avrà compreso – non capito – che non c’è nulla da difendere, nulla di nostro, nulla che non sia dell’Assoluto, dentro l’Assoluto.

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realtà

La realtà del sentire, dell’Assoluto, del divenire

Estratto dal libro “Per un mondo migliore”, Cerchio Firenze 77, Edizioni Mediterranee.
Tratto da http://goo.gl/5GvTTu

In verità vi dico che non v’ è cosa piú insensata che tapparsi le orecchie per non dimenticare ciò che si è udito. 0 chiudere gli occhi e non voler piú vedere perché si è convinti che non vi sia nulla di piú bello di ciò che si è visto. 0 credere importante ritrovare nell’oceano la lacrima che un lontano giorno, scendendo lungo il volto, cadde nel fiume. (Dali)

 La realtà del “sentire” (Kempis)

Niente quindi spiriti che sono creati e che evolvono, o acquistano coscienza o esperienza; ma completezza di coscienza divina che comprende ogni sentire.
L’idea stessa degli « esseri », o spiriti, che evolvono o prendono coscienza, è un’illusione; come lo è la molteplicità intesa come realtà vera, perché tutto, in effetti, è una sola Realtà, un solo Essere: Dio.

Finché si dice che l’uomo ha una parte immortale, cioè che sopravvive alla morte del suo corpo, non vi sono problemi di comprensione: al massimo uno non ci crede, ma capisce che cosa non crede.
Invece, quando si parla di che cosa è questa parte immortale, come nasce, eccetera, la questione si fa assai più complessa. Intanto – se non la si inquadra in un disegno generale che spieghi, sia pur per sommi capi, la struttura della Realtà si può dire quello che si vuole come la mitologia (senso occulto a parte) insegna. E in effetti, quando si è cercato di spiegare chi è l’uomo, da dove viene e quale è il suo destino, lo si è fatto disinteressandosi di quella che è la Realtà – cioè il complesso di come le cose sono in sé, della vera condizione e qualità di tutto ciò che esiste.[…]
Il testo completo in pdf.

Immagine da http://goo.gl/ufgdpK


amore

La natura dell’amore

Vito Mancuso parla di amore come fenomeno che si sviluppa nella dipendenza, nel possesso, nella esclusività.
Alla fine del post trovate i brani salienti evidenziati e nel link l’intera intervista a Franco Calabrò in pdf.
Vito, nel parlare dell’amore, parla di ciò che noi chiamiamo affetto e che è, per sua natura, condizionato dai bisogni delle identità che condividono l’esperienza.
Se fosse solo questo, sarebbe una questione di termini e di niente altro. Ma Vito dice che è nella logica cosmica dell’amore essere l’agente che lega, che crea dipendenza e possesso.
Qui fa una notevole confusione e temo non abbia visto bene: l’amore attiva il processo dell’incontrarsi, dell’aggregarsi e attraverso quel processo conduce al superamento di ogni dipendenza e di ogni possesso.
L’amore è processo creativo innescato da una forza unitaria, non duale: quella forza, quando impatta con l’umano, diviene processo che da un punto conduce ad un altro punto, essendo tutto nell’umano soggetto al divenire e al tempo.
L’amore conduce due persone ad incontrarsi, ad innamorarsi, a vivere la stagione della maturità affettiva condizionata ancora dal bisogno uno dell’altro, da un certo tasso di dipendenza, da una possessività di vario grado: tutto questo è mosso da quella forza chiamata amore, ma non la esprime; certo, forse, per sommi tratti, la prefigura.
Siamo ancora lontani dall’amore perché ancora alto è il condizionamento che le identità introducono.
Molti di noi arrivano a miglior vita che mai hanno, se non per lampi e frammenti, vissuto l’esperienza dell’amore.
L’amore nulla ha a che fare con la dipendenza.
L’amore nulla ha a che fare con il possesso.
L’amore nulla a che fare con l’esclusività.
Quando la persona sperimenta l’amore non può dire: “Io amo!” perché l’amore non ha un soggetto, né un oggetto.
L’amore è un’esperienza che nella gratuità sorge e diviene sperimentabile, e nella gratuità tramonta e ci lascia dentro ai nostri piccoli attaccamenti.
L’amore è la forza che ci conduce ad incontrarci, ad intrigarci, a collaborare, a condividere e, mentre viviamo questi processi, ci rende liberi dalla dipendenza, dal possesso, da noi stessi.
Man mano che l’amore si innerva in noi, trasforma l’intero ambito del nostro vivere, delle nostre relazioni, del nostro essere.
Alla fine, quando la sua azione è giunta a maturità, l’amante e l’amato sono scomparsi come soggetti che possono affermare: “Io ci sono, io amo”.
L’esperienza dell’amore è, allora, universale e copre tutti gli esseri e tutte le creature.
La coppia non esiste più in quanto tale e i due, se hanno proceduto nella comprensione assieme, sono testimoni dell’amore senza nome che accade.


Intervista a Vito Mancuso di Paolo Calabrò
[…] Questo a significare che, quando parliamo dell’amore, parliamo certamente di un sentimento – è chiaro che la prima manifestazione dell’amore sia il sentimento, all’interno del mondo degli umani – ma questo sentimento a sua volta rimanda a quella logica di cui ho parlato finora: cioè quella logica cosmica che porta gli enti ad aggregarsi ad altri enti, quelli piccolissimi come quelli grandissimi.

Se si tratta di una cosa così innata e intrinseca a tutto ciò che esiste: perché è così difficile vivere liberamente e serenamente l’amore? Perché l’uomo rimane invischiato nelle tante autocensure e regolette morali tipiche della nostra cultura? Soprattutto: si può venirne fuori? È infine possibile vivere l’amore come libertà?

Comincerei col chiarire che è colpa della cultura soltanto in parte: è vero che sono tante le istanze culturali che tendono a trasformare il “fiore” dell’amore, sbocciato spontaneamente nel campo, in fiore di serra, e poi in pianta d’appartamento (​ride);​in una parola, a irregimentarlo. Però qui occorre chiedersi: com’è che queste regole sopravvivono al passare dei secoli, delle organizzazioni collettive e delle morali? Una parte va certamente addebitata alla società, che non è perfetta. Ma a mio avviso tutto nasce ancor più a monte, da quel sentimento delicatissimo e peculiare che è l’amore e che non è indipendenza. Se lo si guarda più da vicino si scopre che il senso del precetto, della legge, della convenzione, non nasce semplicemente dall’imposizione eteronoma di una società cattiva: esso sorge piuttosto dalla dimensione più viva che è alla radice del fenomeno dell’amore, che è un fenomeno di dipendenza: si vuole che l’altro – o l’altra – dipenda da noi. E il legame (o il legaccio, se vogliamo evidenziarne l’aspetto negativo) è già insito in esso: ciò spiega come mai gli esseri umani, ancora oggi, si leghino tra di loro. In passato c’era il clan che assegnava a ciascuno il marito o la moglie, e c’era tutta una struttura sociale che in maniera pervasiva legava il singolo dalla nascita alla morte: non c’era spontaneità nell’amore, i matrimoni erano programmati eccetera eccetera. Ma oggi non è più così, almeno in Occidente: e tuttavia gli esseri umani sentono ancora il bisogno di legarsi. Perché dunque è così difficile ritrovare quella spontaneità originaria, oggi, dove la libertà individuale lo permetterebbe? Perché si tratta di un equilibrio delicato, perché se c’è l​’amore -​vorrei precisare che non sto parlando d​egli amori (che è tutto un altro campo, anch’esso a suo modo interessante per l’esplorazione intellettuale), dell’avventura, quella di cui canta Battisti, dove meno legacci ci sono, meglio è – insomma, se c’è l’amore, cioè quel sentimento assoluto che provoca un’attrazione irresistibile, allora c’è, per così dire a​automaticamente anche il desiderio del possesso, dell’esclusività. Quando questa cosa viene meno, si può probabilmente dire che anche l’amore, nel senso più pieno, sia venuto meno (del resto non c’è da sorprendersi: l’amore è energia, è qualcosa che va e che viene), o che forse sia entrato in una nuova fase del suo sviluppo. […]


La stagione del mito e quella della coscienza

Si insegnano i fondamentali etici e morali ai bambini attraverso le fiabe.
Si insegnano le stesse cose e la via incontro a se stessi agli adulti, attraverso i miti.
Entrambi gli approcci vengono generati all’interno degli archetipi transitori, grazie alle figure, ai ruoli, ai processi di cui essi sono portatori.
Non c’è archetipo transitorio che non tragga la propria origine da uno o più archetipi permanenti.
Mentre gli archetipi transitori nascono e tramontano nel tempo, gli archetipi permanenti sono stabili e non condizionati dal divenire.
L’archetipo permanente dell’amore così è sempre stato e così sempre sarà; mutano invece gli archetipi transitori che da quello dell’amore derivano a seconda delle latitudini, delle epoche, delle culture.
Le menti e le identità sono informate, plasmate e strutturate dagli archetipi transitori e quindi dalle fiabe e dai miti.
Le coscienze sono sotto il diretto influsso degli archetipi permanenti, primo tra tutti quello dell’amore, e da questi sono condotte e guidate nelle esperienze che realizzano nel tempo e nello spazio attraverso le identità che da esse sono generate.
L’umano dominato dall’identificazione con i suoi processi, è raggiunto dalla fascinazione e dall’insegnamento delle fiabe e dei miti; l’umano che ha superato l’identificazione inconsapevole, sente consapevolmente operare su di sé in maniera diretta ed inequivocabile l’influsso e l’azione degli archetipi permanenti.
Questo umano non impara più attraverso le fiabe e i miti, ma impara in virtù della sua esposizione alla sorgente.

Immagine da http://goo.gl/Dujszf


Raimon Panikkar, l’acqua della goccia, la creazione illusoria della realtà

Raimon usa la metafora antica della goccia d’acqua e la illumina con il suo bel sorriso che, da solo, racconta molte cose.
Scrivo questo post per porre domande, più che altro.
Se ciò che è rilevante è l’acqua, ovvero la radice comune a ciò che chiamiamo esistente, questo come si forma, come assume la realtà forma, consistenza, moto?
Perché Panikkar, e con lui tutti i ricercatori dell’interiore di tutti i tempi, afferma che lo scomparire è niente anche se a noi sembra tanto, così importante sia la goccia che il suo dissolversi?
Perché il processo da goccia ad acqua è ineluttabile?
Le risposte a queste domande non sono poi così difficili: esistono fonti autorevoli che dalla dimensione della coscienza parlano di questo argomentando secondo logiche coerenti, non facendo ricorso agli argomenti della mistica, ma giungendo alle stesse conclusioni di questa.
Ma, dal punto di vista di chi scrive, la questione non è questa:
posso io, persona immersa nel reale, sperimentarne la natura?
La risposta è si, anche senza la conoscenza che deriva dal sapere, attraverso la conoscenza che sorge dallo sperimentare.
E’ sperimentabile la natura della goccia e, guardando nella sua profondità, è sperimentabile la natura dell’acqua: sperimentate entrambe, si configura nell’interiore la chiarezza dell’inconsistenza della goccia.
Successivamente può essere utile una qualche strutturazione cognitiva dello sperimentato.
Questa esperienza della goccia e dell’acqua, è esperienza per pochi?
No è esperienza di tutti, approfondita in grado differente da ciascuno.

Immagine di Marcus Reygels, da: http://goo.gl/fy5Ee4


 

Un’omelia di Enzo Bianchi, promettere la propria vita a Dio e all’altro: è possibile promettere qualcosa che non si possiede?

Parto da un’omelia di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, tenuta in occasione della ricorrenza della trasfigurazione di Gesù e della professione monastica definitiva di un fratello, per sviluppare una riflessione su un tema che mi preme: promettere.
Mettere in vista, porre sotto gli occhi, mettere avanti è il significato di promettere.
Enzo Bianchi nella sua omelia dice cose impegnative, intrise di idealità, di slancio, di volontà come di abbandono: parla della comunione in Cristo, dell’uomo che promette, della coerenza che ne consegue, del peso di non essere affidabile se l’epilogo dell’esperienza vede l’intenzione originaria svanire.
Tanta idealità, tanto slancio, tanto peso. Questa è una prima e approssimativa conclusione cui giungo: tanto peso sulle spalle di chi apre la propria esistenza al processo del conoscere, del divenire consapevole, del comprendere.
L’umano che si affida, che si impegna, che fa una promessa, che dà una parola, di questo parla Enzo: rispetto questa visione, ma non ne condivido l’impianto ispiratore.
Su cosa posso impegnarmi? Su qualcosa che non mi appartiene, che non è conseguito nel mio sentire? Sarei destinato alla frustrazione, alla lotta contro me stesso, all’irretimento dentro qualcosa che non sento, ad una alienazione sostanziale.
Allora, su cosa posso impegnarmi? Su ciò che è già configurato nel mio sentire, anche se non ancora maturo e pienamente consapevole.
In questo caso l’impegno è alla mia portata, è sostenibile perché fondato non sulla volontà dell’identità, ma sul compreso che risiede nella coscienza, nel sentire.
Questo promettere comporta uno sforzo molto relativo e, in molti casi, nessuno sforzo.
Il Sentiero contemplativo è anche una comunità monastica, persone che vanno consapevolmente incontro a sé e alla condizione unitaria dell’esistere:
se questo cammino fosse basato sulla volontà, noi avremmo perduto in partenza;
se fosse fondato sulla idealità, non avremmo fondamenta salde;
se fosse fondato sulla responsabilità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle nel cammino, saremmo prigionieri della nostra promessa.
La nostra comunità è fondata sul sentire e i suoi membri ad esso obbediscono, ad esso si abbandonano, da esso sono guidati e condotti nei passi personali e in quelli comunitari: non alla volontà, non all’idealità, non alla responsabilità essi fanno appello, ma a ciò che risiede nel loro sentire, che li conduce incontro a questa esperienza e non lascia loro alcuna vera libertà di scelta, né di dire sì, né di dire no.
Possiamo noi parlare di promessa, di mettere avanti? Si, mettiamo avanti l’evidenza di non scegliere alcunché, di arrenderci a ciò che già esiste nel sentire e da questo è determinato.
Se le persone che sono parte dell’organismo comunitario fossero qui per scelta, noi avremmo sbagliato tutto e tradito il poco che abbiamo compreso: le persone sono qui perché non hanno potuto sciegliere, quello si è presentato, quello hanno riconosciuto, a quello si sono arresi.
L’identità, quando è legata alle proprie visioni e ai propri principi, sceglie, o crede di scegliere; quando non è più identificata con il proprio piccolo mondo sceglie molto poco, il più delle volete accoglie, obbedisce, asseconda, si piega al sentire.
Se nella nostra comunità fossimo legati anche, non solo evidentemente, dalla responsabilità nei confronti di Dio e degli altri, saremmo prigionieri: ciò che ci fonda è la comunione nel sentire, “l’essere uniti in Cristo/da Cristo” direbbe Enzo, questa unione e comunione è dinamica, fluida, responsabilizzante e liberante perché non si preoccupa di costruire, di preservare ciò che solo al sentire compete e da esso è alimentato, sostenuto, condotto aldilà della fragile intenzione umana.
Non sento pesi sulle mie spalle e sulle mie incoerenze; non ci sono pesi sulle spalle dei fratelli e delle sorelle nel cammino; rispondono a sé stessi e solo di sé si occupano e preoccupano? No, rispondono al sentire che li conduce dove è bene per i loro processi. Vanno dove sono, dove possono, dove non possono che essere.
Concludo: se l’umano costruisce, desidera anche preservare e perseverare. Se il sentire edifica, tutto è soggetto a trasformazione e nessuno deve promettere a qualcuno qualcosa che non sia già accaduto e in accadere.
Il nostro monachesimo è la consapevolezza dell’azione di un archetipo in noi, di quella forza che ci conduce incontro a noi stessi e all’unitarietà dell’essere e del vivere. E’ il monachesimo scritto nell’intimo di ogni vivente, consapevole o no che sia.

Immagine da: http://v.gd/6jPT1H


Un approccio semplice, forse troppo, al tema del giudizio e della punizione

Vito Mancuso si chiede se esiste l’inferno in questo bell’articolo che, ahimè, nonostante l’apertura filosofica dell’autore rimane nelle sabbie di un pensiero che non osa abbastanza.
Per esistere una punizione deve esistere un giudizio; per esistere un giudizio deve esistere un criterio che individui e definisca cosa sia apprezzabile e cosa deprecabile.
La funzione giudicante deve essere assolta da qualcuno che è diverso e separato dal giudicato.
Confesso che ragionare al modo dei cristiani mi costa fatica.
Proverò a guardare all’argomento dal punto di vista del Sentiero.
(Userò i termini assoluto e divino come sinonimi di dio, tutti con l’iniziale minuscola per non creare differenze di valore)
La realtà di umano e divino è una: sebbene nel divenire appaia separata, mai umano e divino sono divenuti due.
L’umano è aspetto del divino; aspetto della consapevolezza e del sentire di questo.
Il cammino dell’umano da ego ad amore è l’illusorio scorrere della consapevolezza/sentire dell’assoluto.
Chi dunque giudica chi? E su quale base il giudizio dovrebbe appoggiare se tutto il dispiegarsi dell’umano non è altro che lo spettro della consapevolezza/sentire dell’assoluto?
Esiste dunque un giudizio e un giudicante dal nostro punto di vista? Esiste l’amore che regge tutte le cose e tutte porta a compimento.
Esiste la colpa nell’umano? Si, solo quando l’umano sa e non ottempera a quel sapere. Dunque viene punito?
Solo i bambini possono pensarlo. Se non attua ciò che ha compreso significa che la comprensione non è completa, se lo fosse non avrebbe altra scelta che praticarla.
Per completare la comprensione proverà e riproverà quell’esperienza, finché l’apprendimento non sarà completo.
Tutti i nostri ragli sono dunque riconducibili all’ignoranza. Saremo puniti perché siamo ignoranti?
Chi pensa questo forse non ha indagato a sufficienza la natura dell’amore, di quella spinta che sempre offre possibilità e che mai nega ad alcuno la propria, aldilà del tempo.
Compassione senza fine.
Il problema dell’umano è che cerca risposte con la mente a questioni che solo nel sentire possono essere comprese e contemplate.

Immagine da : http://goo.gl/cN4kXe Dante si ferma a parlare con Niccolò III. Inferno, canto XIX (Divina Commedia). Illustrazione di Gustave Doré


 

L’identità e la sua scomparsa

Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.

Immagine da: http://goo.gl/f7wB9y


 

Sull’esperienza della preghiera, del pregare e del soggetto che prega

Serena chiede di approfondire l’esperienza della preghiera: il tema è molto vasto, proverò a gettare le basi di una possibile discussione.
– La preghiera è un movimento verso.
Un andare attivo, alimentato da un atto di volontà dell’orante.
– Un andare passivo, privo di volontà, un essere condotto a.
Nell’intimo della persona nasce una spinta a pregare.
L’interpretazione comune secondo cui la persona in preghiera si rivolge a un Tu, è solo una delle possibili letture dell’esperienza.
La persona sente nel proprio intimo la necessità di andare oltre sé, di aprirsi ad altro, di ricevere conforto su un piano diverso da quello umano e identitario: questo nella preghiera attiva.
Oppure avverte, nella preghiera passiva, il sorgere del pregare come forza che la attraversa e la trascende.
Il pregare è l’infinito di “io prego”, è l’esperienza della preghiera che trascende il soggetto, indipendente dalla sua volontà.
Anche quando il pregare ha un soggetto e un oggetto, un “io” che prega e un “Tu” cui si rivolge, in realtà, in sé, l’atto del pregare è l’esteriorizzazione della spinta che conduce dal limite personale al non limite, dal piccolo ambito dell’io allo spazio non condizionato cui ci si affida, dalla dimensione del soggetto che prega a quella del soggetto che è pregato, dunque trasceso.
Un esempio: chi scrive è uso pronunciare questa frase prima di addormentarsi, o in situazioni che gli producono ansia: “Nelle Tue mani affido la mia vita”.
E’ una preghiera attiva, pronunciata attraverso un atto di volontà che posiziona la consapevolezza dell’orante nell’ambito della fiducia senza condizione, sposta la consapevolezza dal piccolo e ristretto fatto all’orizzonte senza fine.
In altre situazioni, quando nascono commozioni profonde, stati di gratitudine, consapevolezze che abbracciano l’insieme unitario delle realtà, l’orante pronuncia un “Grazie!” e questa è preghiera passiva: l’esperienza interiore fiorisce in una parola, in un ringraziamento che ha la tangibilità di una parola pronunciata. L’esteriorizzazione dell’esperienza interiore chiude il ciclo di ciò che è stato sperimentato: la parola è la forma materiale che completa l’esperienza che si è sviluppata su molti piani e che è completa solo quando è anche incarnata, resa fatto, manifestazione.
La preghiera è tale perché usa la parola; esiste anche la preghiera silenziosa che si sviluppa come evoluzione della preghiera orante, ma la preghiera nasce e prende forma nella relazione con l’orazione, attraverso il veicolo della parola che è, lo ripetiamo, solo esteriorizzazione di un moto interiore.
Anche la meditazione è esteriorizzazione di un moto interiore: la persona sceglie di fermarsi, o viene condotta a fermarsi, sedersi, coltivare lo stare. In questo caso la spinta diviene forma fisica, nell’altro caso diviene parola.
La preghiera può essere ritmica come nel rosario, può essere cantata come nella liturgia delle ore monastica, può essere semplice stare che sboccia nella contemplazione.
La forma ritmica e quella cantata placano e distendono la mente e conducono la persona incontro alla spazio neutrale che è il lievito della contemplazione: una mente agitata, o focalizzata sul particolare, è schermo ottuso che non concede apertura, che non apre orizzonte. La preghiera ritmica permette la disidentificazione, la disconnessione dalla quale sorge poi lo spazio per la preghiera attiva o passiva e per la contemplazione dell’esistente.
La preghiera che si esprime attraverso l’orazione non è esperienza concettuale, non si prega con la mente: quando la preghiera è essenzialmente fatto mentale si stanno dicendo “le preghiere”, questa è esperienza altra dalla preghiera e dal pregare.
L’essere nel suo insieme prega: il corpo, l’emozione, la mente si dispongono all’esperienza, la esprimono, sono attraversati da essa.
La frattura tra sentire e vivere, tra coscienza ed identità si sana nell’atto del pregare, nel momento in cui la preghiera afferma se stessa, quando il pregare diviene tutta la realtà e il soggetto orante scompare: scomparendo il soggetto tutta la realtà è coscienza, stare, essere.