La stagione del mito e quella della coscienza

Si insegnano i fondamentali etici e morali ai bambini attraverso le fiabe.
Si insegnano le stesse cose e la via incontro a se stessi agli adulti, attraverso i miti.
Entrambi gli approcci vengono generati all’interno degli archetipi transitori, grazie alle figure, ai ruoli, ai processi di cui essi sono portatori.
Non c’è archetipo transitorio che non tragga la propria origine da uno o più archetipi permanenti.
Mentre gli archetipi transitori nascono e tramontano nel tempo, gli archetipi permanenti sono stabili e non condizionati dal divenire.
L’archetipo permanente dell’amore così è sempre stato e così sempre sarà; mutano invece gli archetipi transitori che da quello dell’amore derivano a seconda delle latitudini, delle epoche, delle culture.
Le menti e le identità sono informate, plasmate e strutturate dagli archetipi transitori e quindi dalle fiabe e dai miti.
Le coscienze sono sotto il diretto influsso degli archetipi permanenti, primo tra tutti quello dell’amore, e da questi sono condotte e guidate nelle esperienze che realizzano nel tempo e nello spazio attraverso le identità che da esse sono generate.
L’umano dominato dall’identificazione con i suoi processi, è raggiunto dalla fascinazione e dall’insegnamento delle fiabe e dei miti; l’umano che ha superato l’identificazione inconsapevole, sente consapevolmente operare su di sé in maniera diretta ed inequivocabile l’influsso e l’azione degli archetipi permanenti.
Questo umano non impara più attraverso le fiabe e i miti, ma impara in virtù della sua esposizione alla sorgente.

Immagine da http://goo.gl/Dujszf


Raimon Panikkar, l’acqua della goccia, la creazione illusoria della realtà

Raimon usa la metafora antica della goccia d’acqua e la illumina con il suo bel sorriso che, da solo, racconta molte cose.
Scrivo questo post per porre domande, più che altro.
Se ciò che è rilevante è l’acqua, ovvero la radice comune a ciò che chiamiamo esistente, questo come si forma, come assume la realtà forma, consistenza, moto?
Perché Panikkar, e con lui tutti i ricercatori dell’interiore di tutti i tempi, afferma che lo scomparire è niente anche se a noi sembra tanto, così importante sia la goccia che il suo dissolversi?
Perché il processo da goccia ad acqua è ineluttabile?
Le risposte a queste domande non sono poi così difficili: esistono fonti autorevoli che dalla dimensione della coscienza parlano di questo argomentando secondo logiche coerenti, non facendo ricorso agli argomenti della mistica, ma giungendo alle stesse conclusioni di questa.
Ma, dal punto di vista di chi scrive, la questione non è questa:
posso io, persona immersa nel reale, sperimentarne la natura?
La risposta è si, anche senza la conoscenza che deriva dal sapere, attraverso la conoscenza che sorge dallo sperimentare.
E’ sperimentabile la natura della goccia e, guardando nella sua profondità, è sperimentabile la natura dell’acqua: sperimentate entrambe, si configura nell’interiore la chiarezza dell’inconsistenza della goccia.
Successivamente può essere utile una qualche strutturazione cognitiva dello sperimentato.
Questa esperienza della goccia e dell’acqua, è esperienza per pochi?
No è esperienza di tutti, approfondita in grado differente da ciascuno.

Immagine di Marcus Reygels, da: http://goo.gl/fy5Ee4


 

Un’omelia di Enzo Bianchi, promettere la propria vita a Dio e all’altro: è possibile promettere qualcosa che non si possiede?

Parto da un’omelia di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, tenuta in occasione della ricorrenza della trasfigurazione di Gesù e della professione monastica definitiva di un fratello, per sviluppare una riflessione su un tema che mi preme: promettere.
Mettere in vista, porre sotto gli occhi, mettere avanti è il significato di promettere.
Enzo Bianchi nella sua omelia dice cose impegnative, intrise di idealità, di slancio, di volontà come di abbandono: parla della comunione in Cristo, dell’uomo che promette, della coerenza che ne consegue, del peso di non essere affidabile se l’epilogo dell’esperienza vede l’intenzione originaria svanire.
Tanta idealità, tanto slancio, tanto peso. Questa è una prima e approssimativa conclusione cui giungo: tanto peso sulle spalle di chi apre la propria esistenza al processo del conoscere, del divenire consapevole, del comprendere.
L’umano che si affida, che si impegna, che fa una promessa, che dà una parola, di questo parla Enzo: rispetto questa visione, ma non ne condivido l’impianto ispiratore.
Su cosa posso impegnarmi? Su qualcosa che non mi appartiene, che non è conseguito nel mio sentire? Sarei destinato alla frustrazione, alla lotta contro me stesso, all’irretimento dentro qualcosa che non sento, ad una alienazione sostanziale.
Allora, su cosa posso impegnarmi? Su ciò che è già configurato nel mio sentire, anche se non ancora maturo e pienamente consapevole.
In questo caso l’impegno è alla mia portata, è sostenibile perché fondato non sulla volontà dell’identità, ma sul compreso che risiede nella coscienza, nel sentire.
Questo promettere comporta uno sforzo molto relativo e, in molti casi, nessuno sforzo.
Il Sentiero contemplativo è anche una comunità monastica, persone che vanno consapevolmente incontro a sé e alla condizione unitaria dell’esistere:
se questo cammino fosse basato sulla volontà, noi avremmo perduto in partenza;
se fosse fondato sulla idealità, non avremmo fondamenta salde;
se fosse fondato sulla responsabilità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle nel cammino, saremmo prigionieri della nostra promessa.
La nostra comunità è fondata sul sentire e i suoi membri ad esso obbediscono, ad esso si abbandonano, da esso sono guidati e condotti nei passi personali e in quelli comunitari: non alla volontà, non all’idealità, non alla responsabilità essi fanno appello, ma a ciò che risiede nel loro sentire, che li conduce incontro a questa esperienza e non lascia loro alcuna vera libertà di scelta, né di dire sì, né di dire no.
Possiamo noi parlare di promessa, di mettere avanti? Si, mettiamo avanti l’evidenza di non scegliere alcunché, di arrenderci a ciò che già esiste nel sentire e da questo è determinato.
Se le persone che sono parte dell’organismo comunitario fossero qui per scelta, noi avremmo sbagliato tutto e tradito il poco che abbiamo compreso: le persone sono qui perché non hanno potuto sciegliere, quello si è presentato, quello hanno riconosciuto, a quello si sono arresi.
L’identità, quando è legata alle proprie visioni e ai propri principi, sceglie, o crede di scegliere; quando non è più identificata con il proprio piccolo mondo sceglie molto poco, il più delle volete accoglie, obbedisce, asseconda, si piega al sentire.
Se nella nostra comunità fossimo legati anche, non solo evidentemente, dalla responsabilità nei confronti di Dio e degli altri, saremmo prigionieri: ciò che ci fonda è la comunione nel sentire, “l’essere uniti in Cristo/da Cristo” direbbe Enzo, questa unione e comunione è dinamica, fluida, responsabilizzante e liberante perché non si preoccupa di costruire, di preservare ciò che solo al sentire compete e da esso è alimentato, sostenuto, condotto aldilà della fragile intenzione umana.
Non sento pesi sulle mie spalle e sulle mie incoerenze; non ci sono pesi sulle spalle dei fratelli e delle sorelle nel cammino; rispondono a sé stessi e solo di sé si occupano e preoccupano? No, rispondono al sentire che li conduce dove è bene per i loro processi. Vanno dove sono, dove possono, dove non possono che essere.
Concludo: se l’umano costruisce, desidera anche preservare e perseverare. Se il sentire edifica, tutto è soggetto a trasformazione e nessuno deve promettere a qualcuno qualcosa che non sia già accaduto e in accadere.
Il nostro monachesimo è la consapevolezza dell’azione di un archetipo in noi, di quella forza che ci conduce incontro a noi stessi e all’unitarietà dell’essere e del vivere. E’ il monachesimo scritto nell’intimo di ogni vivente, consapevole o no che sia.

Immagine da: http://v.gd/6jPT1H


Un approccio semplice, forse troppo, al tema del giudizio e della punizione

Vito Mancuso si chiede se esiste l’inferno in questo bell’articolo che, ahimè, nonostante l’apertura filosofica dell’autore rimane nelle sabbie di un pensiero che non osa abbastanza.
Per esistere una punizione deve esistere un giudizio; per esistere un giudizio deve esistere un criterio che individui e definisca cosa sia apprezzabile e cosa deprecabile.
La funzione giudicante deve essere assolta da qualcuno che è diverso e separato dal giudicato.
Confesso che ragionare al modo dei cristiani mi costa fatica.
Proverò a guardare all’argomento dal punto di vista del Sentiero.
(Userò i termini assoluto e divino come sinonimi di dio, tutti con l’iniziale minuscola per non creare differenze di valore)
La realtà di umano e divino è una: sebbene nel divenire appaia separata, mai umano e divino sono divenuti due.
L’umano è aspetto del divino; aspetto della consapevolezza e del sentire di questo.
Il cammino dell’umano da ego ad amore è l’illusorio scorrere della consapevolezza/sentire dell’assoluto.
Chi dunque giudica chi? E su quale base il giudizio dovrebbe appoggiare se tutto il dispiegarsi dell’umano non è altro che lo spettro della consapevolezza/sentire dell’assoluto?
Esiste dunque un giudizio e un giudicante dal nostro punto di vista? Esiste l’amore che regge tutte le cose e tutte porta a compimento.
Esiste la colpa nell’umano? Si, solo quando l’umano sa e non ottempera a quel sapere. Dunque viene punito?
Solo i bambini possono pensarlo. Se non attua ciò che ha compreso significa che la comprensione non è completa, se lo fosse non avrebbe altra scelta che praticarla.
Per completare la comprensione proverà e riproverà quell’esperienza, finché l’apprendimento non sarà completo.
Tutti i nostri ragli sono dunque riconducibili all’ignoranza. Saremo puniti perché siamo ignoranti?
Chi pensa questo forse non ha indagato a sufficienza la natura dell’amore, di quella spinta che sempre offre possibilità e che mai nega ad alcuno la propria, aldilà del tempo.
Compassione senza fine.
Il problema dell’umano è che cerca risposte con la mente a questioni che solo nel sentire possono essere comprese e contemplate.

Immagine da : http://goo.gl/cN4kXe Dante si ferma a parlare con Niccolò III. Inferno, canto XIX (Divina Commedia). Illustrazione di Gustave Doré


 

L’identità e la sua scomparsa

Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.

Immagine da: http://goo.gl/f7wB9y


 

Sull’esperienza della preghiera, del pregare e del soggetto che prega

Serena chiede di approfondire l’esperienza della preghiera: il tema è molto vasto, proverò a gettare le basi di una possibile discussione.
– La preghiera è un movimento verso.
Un andare attivo, alimentato da un atto di volontà dell’orante.
– Un andare passivo, privo di volontà, un essere condotto a.
Nell’intimo della persona nasce una spinta a pregare.
L’interpretazione comune secondo cui la persona in preghiera si rivolge a un Tu, è solo una delle possibili letture dell’esperienza.
La persona sente nel proprio intimo la necessità di andare oltre sé, di aprirsi ad altro, di ricevere conforto su un piano diverso da quello umano e identitario: questo nella preghiera attiva.
Oppure avverte, nella preghiera passiva, il sorgere del pregare come forza che la attraversa e la trascende.
Il pregare è l’infinito di “io prego”, è l’esperienza della preghiera che trascende il soggetto, indipendente dalla sua volontà.
Anche quando il pregare ha un soggetto e un oggetto, un “io” che prega e un “Tu” cui si rivolge, in realtà, in sé, l’atto del pregare è l’esteriorizzazione della spinta che conduce dal limite personale al non limite, dal piccolo ambito dell’io allo spazio non condizionato cui ci si affida, dalla dimensione del soggetto che prega a quella del soggetto che è pregato, dunque trasceso.
Un esempio: chi scrive è uso pronunciare questa frase prima di addormentarsi, o in situazioni che gli producono ansia: “Nelle Tue mani affido la mia vita”.
E’ una preghiera attiva, pronunciata attraverso un atto di volontà che posiziona la consapevolezza dell’orante nell’ambito della fiducia senza condizione, sposta la consapevolezza dal piccolo e ristretto fatto all’orizzonte senza fine.
In altre situazioni, quando nascono commozioni profonde, stati di gratitudine, consapevolezze che abbracciano l’insieme unitario delle realtà, l’orante pronuncia un “Grazie!” e questa è preghiera passiva: l’esperienza interiore fiorisce in una parola, in un ringraziamento che ha la tangibilità di una parola pronunciata. L’esteriorizzazione dell’esperienza interiore chiude il ciclo di ciò che è stato sperimentato: la parola è la forma materiale che completa l’esperienza che si è sviluppata su molti piani e che è completa solo quando è anche incarnata, resa fatto, manifestazione.
La preghiera è tale perché usa la parola; esiste anche la preghiera silenziosa che si sviluppa come evoluzione della preghiera orante, ma la preghiera nasce e prende forma nella relazione con l’orazione, attraverso il veicolo della parola che è, lo ripetiamo, solo esteriorizzazione di un moto interiore.
Anche la meditazione è esteriorizzazione di un moto interiore: la persona sceglie di fermarsi, o viene condotta a fermarsi, sedersi, coltivare lo stare. In questo caso la spinta diviene forma fisica, nell’altro caso diviene parola.
La preghiera può essere ritmica come nel rosario, può essere cantata come nella liturgia delle ore monastica, può essere semplice stare che sboccia nella contemplazione.
La forma ritmica e quella cantata placano e distendono la mente e conducono la persona incontro alla spazio neutrale che è il lievito della contemplazione: una mente agitata, o focalizzata sul particolare, è schermo ottuso che non concede apertura, che non apre orizzonte. La preghiera ritmica permette la disidentificazione, la disconnessione dalla quale sorge poi lo spazio per la preghiera attiva o passiva e per la contemplazione dell’esistente.
La preghiera che si esprime attraverso l’orazione non è esperienza concettuale, non si prega con la mente: quando la preghiera è essenzialmente fatto mentale si stanno dicendo “le preghiere”, questa è esperienza altra dalla preghiera e dal pregare.
L’essere nel suo insieme prega: il corpo, l’emozione, la mente si dispongono all’esperienza, la esprimono, sono attraversati da essa.
La frattura tra sentire e vivere, tra coscienza ed identità si sana nell’atto del pregare, nel momento in cui la preghiera afferma se stessa, quando il pregare diviene tutta la realtà e il soggetto orante scompare: scomparendo il soggetto tutta la realtà è coscienza, stare, essere.

La frattura tra insegnamento e vita in non pochi “maestri”

Stiamo lavorando alla traduzione di un libro che parla della vita privata di J.Krishnamurti e prendo spunto da questo per affrontare una questione a mio parere mai abbastanza chiarita.
Ogni accompagnatore, insegnante, guida, “maestro” (virgoletto perché il termine non mi piace), ha una vita pubblica e una privata.
Se voi pensate che queste figure dovrebbero avere una solo vita, una coerenza che abbraccia il pubblico e il privato, perché altrimenti non hanno autorità per insegnare alcunché, temo non ci sia chiarezza su chi è che insegna.
Chi insegna? Chi accompagna? Chi orienta e guida?
Quella persona, quel portatore di nome, quella figura che noi diciamo aver trasceso l’umano?
O non è forse che quel portatore di nome è il veicolo di una spinta che lo precede, lo trascende e lo attraversa?
Quella spinta, quella tensione, quello ispirazione se preferite, opera per tutto il tempo, per tutto il giorno, per tutta la vita?
Sciocchezza considerevole.
Quella spinta opera quando c’è un contenitore adatto a contenerla.
Il veicolo, il portatore di nome diviene il mezzo della spinta quando qualcuno si presenta, bussa ed è disposto ad accogliere quella forza.
Il portatore di nome è lo strumento che sta tra la spinta e l’utente.
Quando non c’è contenitore che si dispone ad accogliere, il portatore di nome vive la sua giornata nella più assoluta ferialità e impara dalle esperienze e dalle relazioni come tutti.
Impara quello che gli è necessario imparare: se è qui, se è incarnato qualcosa da imparare certamente lo ha; se non avesse nulla da imparare nel mondo del divenire non sarebbe nemmeno incarnato.
Obbietterete che esistono incarnazioni di solo servizio, generate per trasmettere qualcosa all’umano: può darsi, ho dubbi consistenti in merito e la scena di Gesù il Cristo nell’orto del Getsemani simbolicamente dice molte cose in merito.
Agli occhi piuttosto disincantati di chi scrive, l’insegnate appare nella sua ferialità come una persona dedita alla via interiore che attraverso le esperienze modella consapevolmente e inconsapevolmente il proprio sentire nelle aree in cui questo ha comprensioni incomplete.

Immagine da: http://goo.gl/aIHgU4


Una riflessione sull’amore, sull’essere, sull’Assoluto

Chiede una lettrice cosa noi intendiamo per Assoluto. Vorrei rispondere non con una definizione, o un tentativo di essa, ma con la descrizione di un’esperienza, di come noi viviamo la dimensione dell’Assoluto.

L’esperienza del ciò che è

I fatti, i pensieri, le emozioni, le azioni sono quel che sono, privi di attribuzione.
La realtà è neutrale, priva di commento, di giudizio, di interpretazione.
La realtà è , tempo e non tempo sono irrilevanti e inesistenti.
La realtà mai è personale, non esiste soggetto percepente, esiste solo un sistema di percezione.
L’accadere non ha scopo, è pura gratuità.

L’esperienza dell’essere

L’essere è il fondo delle cose: prima del divenire, del tempo, dei fenomeni, del vivere c’è l’essere.
L’esperienza dell’essere è risiedere nell’uno che mai è divenuto due, è la comprensione vivida che tutto ciò che esiste è il sentire assoluto in manifestazione, non altro da esso, mai separato da esso, inseparabile non da ciò che l’ha generato – quasi esistesse il generatore e il generato – ma da sé stesso.
Niente genera niente, non esiste Assoluto che genera realtà, questa è solo l’illusione creata dalla mente e dai sensi dell’umano.
La realtà testimoniata dall’essere è una ed è realtà di sentire; non di pensare, non di provare, non di agire: questo accade solo in virtù della percezione.

L’esperienza dell’amore

Le esperienze del ciò che è e dell’essere creano le condizioni perché venga sperimentata la natura dell’amore, ciò che all’umano si configura come natura dell’amore.
L’amore non è un’emozione, non è un’esperienza affettiva né cognitiva, l’amore precede tutto questo e precede il sentire stesso sebbene attraverso questo sia dall’umano sperimentabile.
Senza l’amore – quello che l’umano chiama amore – le realtà del ciò che è e dell’essere sarebbero caratterizzate come neutrali e percepite come irrimediabilmente lontane e altre.
L’esperienza dell’amore rende possibili tutti i paradossi:
l’infinitamente lontano è, simultaneamente, infinitamente vicino;
l’infinitamente altro è, simultaneamente, anche ciò che ci riguarda;
l’assenza totale è presenza totale;
l’immobilità del non tempo è, simultaneamente, il pulsare del divenire di tutti gli esseri e di tutte le cose.
L’esperienza dell’amore è esperienza che in sé compendia tutte le esperienze: l’Assoluto è sentito e sperimentato come amore.
L’esperienza dell’amore è inequivocabile:
– non è personale, non è rivolta a qualcuno, non ha oggetto; se ha oggetto allora possiamo definirla innamoramento o affetto, ma non amore;
– non ha tempo, non diviene, non evolve: cambia il modo possibile all’umano di incarnarla, ma in sé è potenza in atto che non diviene.

L’Assoluto è ciò che l’umano vive come vita,
è le forze che questa vita rende possibile,
è l’ambiente entro cui questa vita prende forma:
l’umano sperimenta l’Assoluto come vita e vivendo impara a comprendere che non esiste un sé, un portatore di nome, esiste solo l’essere dell’Assoluto che l’umano chiama con un nome di persona, di animale, di pianta, di minerale.
L’Assoluto è l’esistente e il non-esistente, è ciò che è: non potendo l’umano contenere nella propria comprensione questo, lo limita, lo restringe, ne coglie frammenti, frazioni e a queste dà il nome di tempo, divenire, esseri.
In sé non esiste umano, né esiste tempo, né esistono esseri: è il ciò che è.

Immagine di Mirco Belacchi