Pubblico il messaggio di addio ai colleghi di Letizia Leviti, giornalista di Sky, trapassata a 45 anni.
Il suo è un andare via a mani basse, con gli occhi chiari su ciò che nella vita conta: l’amare, il cercare di amare come a ciascuno è dato.
Le sue parole semplici ci portano al centro dell’esistere, in quell’equilibrio cui tendiamo e che mai completamente realizziamo tra il dentro e il fuori, il fare e lo stare, l’alto e il basso e il superamento di tutto questo che avviene nel momento in cui l’amore ci attraversa.
Il mondo visto dall’eremo
Riflessioni sul mondo visto dall’eremo, da una lontananza che è anche profonda prossimità.
Negli abissi del non senso
Dagli abissi del non senso sorgono i gesti che portano a compimento il karma di alcuni e spargono simboli per tutti.
Giovani che poco sanno della vita e molto conoscono la propria frustrazione e l’assenza di scopo che li pervade, imbracciano un mitra e gridano Allahu Akbar, appellandosi ad un dio di cui nulla sanno nella ricerca di una giustificazione al loro odio.
Poco centra il terrorismo, molto i tracciati esistenziali dei carnefici, delle vittime e i simboli per tutti noi che siamo invitati a riflettere sulle cause, sulle ingiustizie, sul vuoto esistenziale di troppi.
Attivatori di simboli, come tumori
Leggete questo articolo, se potete.
“Sono figli della globalizzazione, come noi. Non gente che da qualche villaggio ai confini del mondo sta cercando di combatterla. Il loro risentimento è individuale e nasce e si coltiva, tutt’al più in piccoli gruppi che ne alimentano odio e paranoia. Non hanno guerre da vincere, obiettivi da raggiungere. Le loro azioni iniziano e concludono la loro guerra personale.”
Fiamme che si accendono e si spengono, alla bisogna. Il disagio esistenziale che percorre il corpo dell’occidente, accende micce in quella persona o in quell’altra, negli anelli più fragili di un corpo sociale fragilissimo.
La paura del giorno che viene
Ad ogni latitudine ed infine e ancora, sotto casa, a Nizza.
Il giorno e la notte si inseguono e noi non sappiamo che cosa accadrà a noi e ai nostri figli, alle persone vicine e a quelle sperdute in qualche villaggio senza un nome riconoscibile.
Poco ci occupiamo di queste ultime, molto dei vicini, dei prossimi: non è una colpa, è un fatto.
L’umano reagisce quando qualcosa lo impatta negli attaccamenti, nelle cose e nelle persone che sono dentro il suo recinto: Nizza è dentro il nostro recinto e sentiamo la lezione.
ll mito della democrazia diretta
A leggere il fondo del Blog di Grillo di oggi c’è da riflettere, la fragilità di alcuni aspetti dell’analisi, la forza di altri pienamente condivisibili, mostra il cammino di quel movimento a cui molti guardano, compreso chi scrive.
Non è questo lo spazio per un’analisi approfondita, qui mi interessa affrontare la questione della democrazia diretta e della nozione di popolo.
Chiedere al popolo dunque, dicono i sostenitori della democrazia diretta espressa attraverso lo strumento referendario.
Cosa non mi convince? Che si consideri uno strumento di democrazia diretta il referendum, un quesito con due sole risposte possibili: non vedo cosa centri con la democrazia diretta, semmai centra con il paradosso e la caricatura di essa: ti considero un microcefalo e dunque ti pongo una sola domanda e mi devi rispondere “si” oppure “no”.
Contro la storia del sentire
La Gran Bretagna lascia l’Unione Europea: il piccolo, locale e autonomo ha la meglio sul grande, globale e interdipendente.
Siamo sicuri che questa fosse l’alternativa? Per le menti limitate, forse questa era l’alternativa, non per chi coglieva il respiro del tempo che viviamo.
Qual’è questo respiro?
1- I problemi causati da ciascuno per conto proprio, vanno risolti da tutti assieme, perché su tutti sono ricaduti (penso ai problemi ambientali, all’uso delle risorse, alle conseguenze delle guerre e alle migrazioni, ad esempio).
La sopraffazione, i femminicidi
Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall’esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell’altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.
La fine della scuola?
Finisce un anno scolastico, ma purtroppo non finisce la scuola.
Il più grande cantiere di umiliazione delle risorse personali, sarà ancora lì dopo la pausa estiva.
Come può un sistema sociale fondato sul niente fare a meno della sua piallatrice, della sua macchina del vuoto?
Come potrebbe altrimenti produrre individui seriali privi di strumenti critici e di analisi, di capacità di gestione e di trasformazione di sé e della realtà attorno, disposti a farsi valutare senza fine, a farsi etichettare e incasellare, ad accettare la bulimia dei contenuti senza protestare, a rimanere prigionieri di spazi e tempi, ad essere trattati come polli in batteria?