Le buone abitudini si inscrivono nell’interiore.
La coltivazione della consapevolezza diviene un’attitudine e un’abitudine.
La disconnessione diviene un’abitudine.
L’interrogarsi sul tasso di egoismo che ci attraversa, diviene un’abitudine.
Il considerare se ti ho ferito, danneggiato, usato diviene un’abitudine.
Un nuovo monachesimo
Domanda, discepolo, maestro, realtà
E’ il sentire relativo, quello proprio degli umani e degli altri esseri viventi, che crea la realtà.
Quel sentire contiene nel suo dna un programma che lo orienta: “provengo da un sentire più limitato e sono in continuo ampliamento”.
I sentire relativi costituiscono il sentire assoluto il quale non ha quel programma, ma è la realtà compiuta, infinita ed eterna del sentire.
Il sentire assoluto non diviene e non crea, non ha domande, non cerca risposte.
Il sentire relativo, in virtù di quella sua disposizione-programma di fondo, genera il divenire e le domande, cerca le risposte.
Il mito e la fine della religione
Mi interroga il rapporto delle persone con le tradizioni e con i miti, ne ho parlato in questo post recente.
Riconosco il valore del mito: oltre la lettera rivela una realtà più profonda e significativa per l’umano in genere.
Il mito svela alla mente una realtà vasta che solo in parte da essa può essere indagata.
E’ una specie di segnale direzionale, indica dove va condotta la ricerca ma, questa, va portata avanti con gli strumenti propri della mente (1), o con altri strumenti?
La ricerca esistenziale e la sua responsabilità
Una ricerca esistenziale sorge da una duplice spinta:
– quella della coscienza che ha bisogno di dati, di comprensioni;
– quella dell’identità che avverte una mancanza, una frustrazione, una alienazione.
La ricerca può essere consapevole o inconsapevole. Non c’è essere umano che non persegua la via della conoscenza: tutto il vivente sviluppa la consapevolezza di sé e della scomparsa di sé, che lo voglia o no, che ne sia consapevole o no.
La tradizione e la fiducia nel cammino spirituale
Ho letto con interesse questa intervista a Raphael. Ho anche evidenziato delle parti: quelle in cui c’è piena condivisione di sguardo; quelle dove c’è perplessità e infine quelle che mi sono sembrate approssimative.
Ad esempio, trovo approssimativo quello che, in genere, dice in merito al cristianesimo.
Raphael riconosce una funzione insostituibile alla tradizione nella via spirituale: solo conoscendo l’esperienza degli altri sedimentata nel tempo, puoi sapere dove sei ora, dove è l’altro a cui magari ti affidi.
Quel che è trasmissibile nella via spirituale
In un cammino interiore non puoi trasmettere il sentire: è il frutto del lungo processo esistenziale del conoscere-divenire consapevoli-comprendere.
Può capitarti di condividere un sentire, di vibrare all’unisono con un sentire di ampiezza prossima alla tua, questo può accadere.
Puoi trasmettere un sapere, una visione, un paradigma: gli strumenti per affrontare sè e la vita. Questo è possibile.
Rivolto a te, non a tutti
Il seminatore per lungo tempo ha seminato a spaglio poi, quando gli è sembrato che il tempo fosse giunto, ha dismesso il gesto ampio e generalizzato, lo spargere il seme, per rivolgersi al singolo gesto, al singolo seme colto e trattato nella sua unicità.
La parola diviene rivolta a te, non a voi; l’azione interpella te, non voi.
Un’omelia di Enzo Bianchi, promettere la propria vita a Dio e all’altro: è possibile promettere qualcosa che non si possiede?
Parto da un’omelia di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, tenuta in occasione della ricorrenza della trasfigurazione di Gesù e della professione monastica definitiva di un fratello, per sviluppare una riflessione su un tema che mi preme: promettere.
Mettere in vista, porre sotto gli occhi, mettere avanti è il significato di promettere.
Enzo Bianchi nella sua omelia dice cose impegnative, intrise di idealità, di slancio, di volontà come di abbandono: parla della comunione in Cristo, dell’uomo che promette, della coerenza che ne consegue, del peso di non essere affidabile se l’epilogo dell’esperienza vede l’intenzione originaria svanire.
Tanta idealità, tanto slancio, tanto peso. Questa è una prima e approssimativa conclusione cui giungo: tanto peso sulle spalle di chi apre la propria esistenza al processo del conoscere, del divenire consapevole, del comprendere.
L’umano che si affida, che si impegna, che fa una promessa, che dà una parola, di questo parla Enzo: rispetto questa visione, ma non ne condivido l’impianto ispiratore.
Su cosa posso impegnarmi? Su qualcosa che non mi appartiene, che non è conseguito nel mio sentire? Sarei destinato alla frustrazione, alla lotta contro me stesso, all’irretimento dentro qualcosa che non sento, ad una alienazione sostanziale.
Allora, su cosa posso impegnarmi? Su ciò che è già configurato nel mio sentire, anche se non ancora maturo e pienamente consapevole.
In questo caso l’impegno è alla mia portata, è sostenibile perché fondato non sulla volontà dell’identità, ma sul compreso che risiede nella coscienza, nel sentire.
Questo promettere comporta uno sforzo molto relativo e, in molti casi, nessuno sforzo.
Il Sentiero contemplativo è anche una comunità monastica, persone che vanno consapevolmente incontro a sé e alla condizione unitaria dell’esistere:
se questo cammino fosse basato sulla volontà, noi avremmo perduto in partenza;
se fosse fondato sulla idealità, non avremmo fondamenta salde;
se fosse fondato sulla responsabilità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle nel cammino, saremmo prigionieri della nostra promessa.
La nostra comunità è fondata sul sentire e i suoi membri ad esso obbediscono, ad esso si abbandonano, da esso sono guidati e condotti nei passi personali e in quelli comunitari: non alla volontà, non all’idealità, non alla responsabilità essi fanno appello, ma a ciò che risiede nel loro sentire, che li conduce incontro a questa esperienza e non lascia loro alcuna vera libertà di scelta, né di dire sì, né di dire no.
Possiamo noi parlare di promessa, di mettere avanti? Si, mettiamo avanti l’evidenza di non scegliere alcunché, di arrenderci a ciò che già esiste nel sentire e da questo è determinato.
Se le persone che sono parte dell’organismo comunitario fossero qui per scelta, noi avremmo sbagliato tutto e tradito il poco che abbiamo compreso: le persone sono qui perché non hanno potuto sciegliere, quello si è presentato, quello hanno riconosciuto, a quello si sono arresi.
L’identità, quando è legata alle proprie visioni e ai propri principi, sceglie, o crede di scegliere; quando non è più identificata con il proprio piccolo mondo sceglie molto poco, il più delle volete accoglie, obbedisce, asseconda, si piega al sentire.
Se nella nostra comunità fossimo legati anche, non solo evidentemente, dalla responsabilità nei confronti di Dio e degli altri, saremmo prigionieri: ciò che ci fonda è la comunione nel sentire, “l’essere uniti in Cristo/da Cristo” direbbe Enzo, questa unione e comunione è dinamica, fluida, responsabilizzante e liberante perché non si preoccupa di costruire, di preservare ciò che solo al sentire compete e da esso è alimentato, sostenuto, condotto aldilà della fragile intenzione umana.
Non sento pesi sulle mie spalle e sulle mie incoerenze; non ci sono pesi sulle spalle dei fratelli e delle sorelle nel cammino; rispondono a sé stessi e solo di sé si occupano e preoccupano? No, rispondono al sentire che li conduce dove è bene per i loro processi. Vanno dove sono, dove possono, dove non possono che essere.
Concludo: se l’umano costruisce, desidera anche preservare e perseverare. Se il sentire edifica, tutto è soggetto a trasformazione e nessuno deve promettere a qualcuno qualcosa che non sia già accaduto e in accadere.
Il nostro monachesimo è la consapevolezza dell’azione di un archetipo in noi, di quella forza che ci conduce incontro a noi stessi e all’unitarietà dell’essere e del vivere. E’ il monachesimo scritto nell’intimo di ogni vivente, consapevole o no che sia.
Immagine da: http://v.gd/6jPT1H
Un sogno lungo vent’anni
Avevo nella mente e nel sentire un gruppo di persone adulte nella comprensione, autonome nell’identità, mature nella relazione che, vivendo le loro vite e le loro sfide, fossero capaci di generare conoscenza di sé, consapevolezza, condivisione, atteggiamento contemplativo.
Avevo, e ho avuto lungo questo arco di tempo così impegnativo e vitale, nella mente e nel sentire la consapevolezza di una possibilità: che persone laiche, lontane dalle religioni e dalle appartenenze percorressero una via originale, semplice, in continua revisione e approfondimento, scoprendo e vivendo in sé la dimensione archetipa del monaco, di colui/ei che si carica il proprio essere sulle spalle e va incontro all’unità dell’essere e dell’esistere.
Ho avuto nella mente e nel sentire la possibilità di edificare una comunità nel sentire che fosse testimonianza visibile di un’altra vita, di un’altra declinazione dell’umano.
Tutto questo nel tempo ha preso una forma e oggi un organismo comincia ad avere una vita sua, sembra potersi alimentare di una forza propria, non indotta.
Il sognatore intravvede ora la possibilità di riposarsi dal sogno.
E’ stanco, il cammino è stato faticoso, i veli negli occhi dell’umano molti; alla fine del suo sogno una commozione lo pervade, lascia che la stanchezza possa fare il suo corso.
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