Rivolto a te, non a tutti

Il seminatore per lungo tempo ha seminato a spaglio poi, quando gli è sembrato che il tempo fosse giunto, ha dismesso il gesto ampio e generalizzato, lo spargere il seme, per rivolgersi al singolo gesto, al singolo seme colto e trattato nella sua unicità.
La parola diviene rivolta a te, non a voi; l’azione interpella te, non voi.

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Un’omelia di Enzo Bianchi, promettere la propria vita a Dio e all’altro: è possibile promettere qualcosa che non si possiede?

Parto da un’omelia di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, tenuta in occasione della ricorrenza della trasfigurazione di Gesù e della professione monastica definitiva di un fratello, per sviluppare una riflessione su un tema che mi preme: promettere.
Mettere in vista, porre sotto gli occhi, mettere avanti è il significato di promettere.
Enzo Bianchi nella sua omelia dice cose impegnative, intrise di idealità, di slancio, di volontà come di abbandono: parla della comunione in Cristo, dell’uomo che promette, della coerenza che ne consegue, del peso di non essere affidabile se l’epilogo dell’esperienza vede l’intenzione originaria svanire.
Tanta idealità, tanto slancio, tanto peso. Questa è una prima e approssimativa conclusione cui giungo: tanto peso sulle spalle di chi apre la propria esistenza al processo del conoscere, del divenire consapevole, del comprendere.
L’umano che si affida, che si impegna, che fa una promessa, che dà una parola, di questo parla Enzo: rispetto questa visione, ma non ne condivido l’impianto ispiratore.
Su cosa posso impegnarmi? Su qualcosa che non mi appartiene, che non è conseguito nel mio sentire? Sarei destinato alla frustrazione, alla lotta contro me stesso, all’irretimento dentro qualcosa che non sento, ad una alienazione sostanziale.
Allora, su cosa posso impegnarmi? Su ciò che è già configurato nel mio sentire, anche se non ancora maturo e pienamente consapevole.
In questo caso l’impegno è alla mia portata, è sostenibile perché fondato non sulla volontà dell’identità, ma sul compreso che risiede nella coscienza, nel sentire.
Questo promettere comporta uno sforzo molto relativo e, in molti casi, nessuno sforzo.
Il Sentiero contemplativo è anche una comunità monastica, persone che vanno consapevolmente incontro a sé e alla condizione unitaria dell’esistere:
se questo cammino fosse basato sulla volontà, noi avremmo perduto in partenza;
se fosse fondato sulla idealità, non avremmo fondamenta salde;
se fosse fondato sulla responsabilità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle nel cammino, saremmo prigionieri della nostra promessa.
La nostra comunità è fondata sul sentire e i suoi membri ad esso obbediscono, ad esso si abbandonano, da esso sono guidati e condotti nei passi personali e in quelli comunitari: non alla volontà, non all’idealità, non alla responsabilità essi fanno appello, ma a ciò che risiede nel loro sentire, che li conduce incontro a questa esperienza e non lascia loro alcuna vera libertà di scelta, né di dire sì, né di dire no.
Possiamo noi parlare di promessa, di mettere avanti? Si, mettiamo avanti l’evidenza di non scegliere alcunché, di arrenderci a ciò che già esiste nel sentire e da questo è determinato.
Se le persone che sono parte dell’organismo comunitario fossero qui per scelta, noi avremmo sbagliato tutto e tradito il poco che abbiamo compreso: le persone sono qui perché non hanno potuto sciegliere, quello si è presentato, quello hanno riconosciuto, a quello si sono arresi.
L’identità, quando è legata alle proprie visioni e ai propri principi, sceglie, o crede di scegliere; quando non è più identificata con il proprio piccolo mondo sceglie molto poco, il più delle volete accoglie, obbedisce, asseconda, si piega al sentire.
Se nella nostra comunità fossimo legati anche, non solo evidentemente, dalla responsabilità nei confronti di Dio e degli altri, saremmo prigionieri: ciò che ci fonda è la comunione nel sentire, “l’essere uniti in Cristo/da Cristo” direbbe Enzo, questa unione e comunione è dinamica, fluida, responsabilizzante e liberante perché non si preoccupa di costruire, di preservare ciò che solo al sentire compete e da esso è alimentato, sostenuto, condotto aldilà della fragile intenzione umana.
Non sento pesi sulle mie spalle e sulle mie incoerenze; non ci sono pesi sulle spalle dei fratelli e delle sorelle nel cammino; rispondono a sé stessi e solo di sé si occupano e preoccupano? No, rispondono al sentire che li conduce dove è bene per i loro processi. Vanno dove sono, dove possono, dove non possono che essere.
Concludo: se l’umano costruisce, desidera anche preservare e perseverare. Se il sentire edifica, tutto è soggetto a trasformazione e nessuno deve promettere a qualcuno qualcosa che non sia già accaduto e in accadere.
Il nostro monachesimo è la consapevolezza dell’azione di un archetipo in noi, di quella forza che ci conduce incontro a noi stessi e all’unitarietà dell’essere e del vivere. E’ il monachesimo scritto nell’intimo di ogni vivente, consapevole o no che sia.

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Un sogno lungo vent’anni

Avevo nella mente e nel sentire un gruppo di persone adulte nella comprensione, autonome nell’identità, mature nella relazione che, vivendo le loro vite e le loro sfide, fossero capaci di generare conoscenza di sé, consapevolezza, condivisione, atteggiamento contemplativo.
Avevo, e ho avuto lungo questo arco di tempo così impegnativo e vitale, nella mente e nel sentire la consapevolezza di una possibilità: che persone laiche, lontane dalle religioni e dalle appartenenze percorressero una via originale, semplice, in continua revisione e approfondimento, scoprendo e vivendo in sé la dimensione archetipa del monaco, di colui/ei che si carica il proprio essere sulle spalle e va incontro all’unità dell’essere e dell’esistere.
Ho avuto nella mente e nel sentire la possibilità di edificare una comunità nel sentire che fosse testimonianza visibile di un’altra vita, di un’altra declinazione dell’umano.
Tutto questo nel tempo ha preso una forma e oggi un organismo comincia ad avere una vita sua, sembra potersi alimentare di una forza propria, non indotta.
Il sognatore intravvede ora la possibilità di riposarsi dal sogno.
E’ stanco, il cammino è stato faticoso, i veli negli occhi dell’umano molti; alla fine del suo sogno una commozione lo pervade, lascia che la stanchezza possa fare il suo corso.

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Il dialogo interreligioso e la comunione dei sentire nella contemplazione

Afferma Enzo Bianchi in Deontologia del dialogo (Dialogo Interreligioso Monastico):
3. Definire se stessi a partire dalla propria identità culturale e religiosa. Questo è particolarmente importante per noi cattolici che – sovente sotto il pretesto di universalità e di sympatheia – tendiamo all'”et-et” piuttosto che all'”aut-aut”, siamo tentati di non collocarci mai: in questo caso non ci sarà dialogo ma solo un indifferentismo o un relativismo che si manifesteranno in consensi irreali, specchietti per allodole… Senza sentire le proprie radici non si è autentici interlocutori: essere fedeli alla propria confessione di fede ed esserne oggettivamente portavoce è condizione del dialogo autentico.
Credo di comprendere ciò che Bianchi dice e mi sembra che abbia senso nel mondo delle identità, là dove noi e l’altro siamo entità ben distinte: così è certamente nel mondo, nelle mille relazioni che gli uomini e le donne intessono tra loro.
Se guardo a questo incontrarsi e dialogare dall’interno dell’esperienza della contemplazione così come a noi è dato sperimentarla, debbo dire che quella prassi per noi non ha alcun senso.
E’ per questa ragione forse che non ci occupiamo di tessere relazioni e occasioni di dialogo con altre esperienze spirituali.
Anche quando, nelle situazioni di accompagnamento personale, qualcuno ci chiede una parola e dovremmo rimanere confinati in un ambito più identitario, sempre il nostro interesse è per il superamento di quella limitazione a favore di un incontro sul piano del sentire.
In effetti, non coltiviamo il dialogo, non ci interessa l’incontro tra identità, timida rappresentazione dell’incontro autentico che supera l’essere due, noi e l’altro.
Questa è la questione: il dialogo postula l’essere due.
La comunione dei sentire azzera il postulato e realizza l’incontro autentico: le due identità sfumano e scompaiono nell’ambito del sentire dove, anche quando non c’è comunione di sentire, c’è comunque la neutralità del “ciò che è”.
Si osserverà che questo è possibile ad alcuni e con alcuni.
Può darsi che sia possibile solo ad alcuni, ma se questi vivono la dimensione operante della contemplazione nella loro ferialità, l’incontro con l’altro non si ferma mai sul piano identitario: indipendentemente dall’altro e dalla sua disposizione, la persona che vive lo stato contemplativo usa le proprie parole, il proprio agire, la propria disposizione interiore per incontrare l’altro nel sentire.
Non c’è alcun dialogo in questa prassi: c’è l’aprirsi di un mondo spazioso e neutrale nell’intimo di sé che è ventre per tutto l’esistente, qualsiasi forma questo assuma.
Concludendo: atteggiamento contemplativo e dialogo hanno poco a che fare perché la contemplazione realizza l’incontro su un piano diverso da quello delle identità interessate al dialogo.

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Senza forma

Tutto ha una forma, può un cammino interiore sfuggire a questa regola?
Non credo, una qualche forma la si ha sempre; nel nostro caso la perdita della forma è stata una costante della nostra ricerca.
In che cosa si traduce? In una disarticolazione nella percezione di sé e in una profonda relativizzazione del proprio cammino.
La conseguenza è che l’immagine che si propone all’altro non è catalogabile, non è collocabile negli archivi del conosciuto.
La persona del Sentiero, colui/ei che nel proprio intimo ha lasciato affiorare l’archetipo del monaco, è un senza casa;
nessuna appartenenza può scaldargli il cuore, la disponibilità a vivere in sé l’uno-in-tutto lo apre all’incontro con la realtà dove non porta un immagine ma solo la radicale evidenza del “ciò che è”.
Il Sentiero è un’evidenza per chi lo percorre ma è invisibile a chi non ne conosce i passi.