Solo il giudizio ci separa dall’Uno

Se ogni forma vivente altro non è che aspetto ed essenza dell’Uno, cosa ci separa dalla piena consapevolezza di quell’unità?
Il giudizio che diamo su noi stessi, i nostri pensieri, le nostre emozioni ed azioni.
Non esiste un censore che sia altro da noi stessi, noi blocchiamo l’accesso alla conoscenza, consapevolezza, comprensione ultime semplicemente etichettando, parametrando, giudicando ciò che siamo.
Senza giudizio ogni fatto è solo un fatto, natura ed essenza dell’Uno né alta, né bassa; né evoluta, né inevoluta; né unita, né disunita: il giudizio, che senza sosta opera in noi, è stato proiettato all’esterno ed è divenuto il Dio che chiede, che esige perfezione per essere conosciuto. Una mostruosità.

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Ciò che ci separa da noi stessi e dall’Assoluto

Per ciò che pensiamo, proviamo, agiamo c’è sempre un cosa, un come, un perché.
Qui voglio sostenere una comprensione: non è tanto il cosa e il come pensiamo, proviamo, agiamo, ma il perché che ci mantiene connessi al sentire, a noi stessi, all’Assoluto, o ci aliena da esso.
Il perché riguarda l’intenzione: cosi muove quel pensiero, quell’emozione, quell’azione?
Qui parliamo di una persona consapevole, che sa osservarsi, non parliamo di chi vive e impara sperimentando e sbattendo.

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Il perdersi e la natura della preghiera non duale

Prendo lo spunto da alcuni commenti al post Il dolore, la sua ragione, la funzione della preghiera per approfondire alcuni aspetti inerenti l’esperienza del pregare.
Premetto che, secondo la mia comprensione, esistono almeno due filoni d’esperienza distinti nella pratica della preghiera:
– la pratica che avviene nell’ambito duale, in una relazione dove esiste un io che interloquisce con un Tu considerato altro-da sé, il totalmente-altro;
– la pratica interna alla dimensione unitaria d’Essere, dove non c’è interlocuzione tra due soggetti ma confidenza, intimità, relazione interna ad un Unico Essere.

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Il tempo necessario per contemplare il reale

Ho avuto bisogno di tempo, di molto tempo, di una vita intera da dedicare all’osservazione, all’ascolto, allo stare.
Non avrei potuto vivere diversamente da come ho vissuto e da come vivo: il tempo altro non è che la possibilità di guardare nell’abisso.
Una possibilità che si ripete, che viene offerta ogni giorno, ad ogni ora.
Ho avuto bisogno che il mondo non vorticasse, che la mia mente fosse vuota il più possibile affinché potesse affluire il ciò-che-è.
Non essendo prigioniero del tempo imposto, non dovendo sottostare ai bisogni miei, ho potuto dedicare la grande parte delle energie alla contemplazione del reale, di ciò-che-è, di ciò-che-viene-senza-scopo.

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Il piccolo orizzonte personale e il vasto orizzonte esistenziale

Sapevo che il post Chi sei? Sono il processo dell’obbedire avrebbe provocato qualche mal di pancia, d’altra parte non stiamo qui a “pettinare le bambole”.
Non metto in dubbio che ci siano molte motivazioni valide per quei mal di pancia che affondano le radici nella storia di ciascuno di noi, ciononostante ribadisco un principio: quando si è conosciuta la realtà dell’esistere autentico, l’obbedienza è un’evidenza; se ancora evidenza non è, questo è dovuto al permanere di elementi di identificazione e dunque di condizionamento.
Ogni volta che scrivo dei temi ultimi dell’esistere, mi coglie un timore e il dubbio di parlare di qualcosa che non tocca chi legge o, se lo tocca, lo sfiora ma non lo impatta.

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Chi sei? Sono il processo dell’obbedire

Obbedire: latino oboedire, composto di ob e audire «ascoltare».
Il processo dell’aderire all’ascolto senza da esso volersi e potersi affrancare, senza volerlo e poterlo negare, volendo e dovendo per intima natura propria assecondarlo e perseguirlo.
Assecondare l’ascolto perché altro non è dato e non si cerca: quella è la vita di alcuni di noi, obbedire.
Per estensione, ascoltare è anche osservare, come pure recepire, ovvero tutto ciò che ha a che fare con il processo della vita che ci impatta e che registriamo e proteggiamo nel nostro interiore, nella coscienza innanzitutto.

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La non facile risposta al “Chi sei?”

In quanti modi, a quanti livelli si può rispondere ad una domanda simile? A innumerevoli livelli, quanti sono i gradi di sentire che costituiscono ciascuna individualità e che la differenziano dalle altre.
È dunque una domanda dalle mille risposte, tutte vere nella loro relatività. Perché relative?
Perché la consapevolezza di nessuno di noi incarnati è tale da abbracciare l’intero sentire che ci muove e costituisce, e dunque, nel rispondere alla domanda sul “Chi siamo?”, la nostra risposta sarà relativa alla percezione che di noi abbiamo ora, a questo punto del cammino esistenziale in cui si manifesta un certo grado di sentire relativo.
Su questo tema, non posso fare discorsi generali essendo la domanda secca e impietosa.

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Il ciclo del vivente che da amore torna ad amore

“Tu creatura, chi sei?
Tu sei ciò che dai agli altri
Tu sei la compassione che sai donare a chi sta soffrendo.
Tu sei la dolcezza che trasmetti a chi è amareggiato
Tu sei il sorriso che porgi a chi è infelice
Tu sei tutto quello che di te agli altri arriva
Tu sei
Tu, da solo, non sei nulla, creatura
Tu sei

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Permanere nella radice di sé: l’eremo interiore

La vita nell’eremo con i suoi modi, i suoi tempi, i suoi silenzi è la conseguenza di una scelta: permanere nella radice di sé.
Quella scelta è stata compiuta molto tempo fa e non è fondata sulla volontà, ma sul piegarsi ad un’esigenza esistenziale.
Un’esistenza intera chiedeva tempo, ritmo, silenzio, lontananza dalle menti e dalle emozioni, abbandono al semplice processo del vivere così come si srotola nella routine dei giorni.
Solo chi vive qui può comprendere l’incolmabile lontananza dal mondo e la simultanea vicinanza con tutti gli esseri imposta dalla compassione.

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Ciò che ha valore nella conoscenza mistica

Stabiliamo il valore delle cose, delle persone, dei processi a partire dalla centralità dei nostri bisogni: ha valore ciò che interagisce creativamente con un nostro bisogno, possibilmente contribuendo a soddisfarlo.
In una evoluzione di questa visione, ha valore ciò che non riguarda me, ma noi: al soggetto singolare si sostituisce quello plurale ma la sostanza non cambia, c’è ancora qualcosa, o qualcuno che è centrale.
Nella visione più avanzata, quel noi diviene l’umanità intera, il pianeta e i suoi equilibri: la visione abbraccia tutti gli esseri e tutti i processi ma, anche qui, c’è ancora un centro, ampio quanto si vuole, ma un centro.

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L’ingiustizia del mondo e il vero scopo del vivere

 Afferma Nicoletta commentando il post Tra accoglienza e rifiuto non vediamo il problema della giustizia: Mi chiedo: se queste complesse dinamiche sono karmiche, cosa posso fare io? Il senso di impotenza e frustrazione, almeno per me, e’ ormai connaturato. Se il pensiero si spinge a tutte le ingiustizie di questa terra si rimane smarriti e, ripeto, impotenti. 
(Pdf per la stampa, 2 pagine A4)
Cominciare da poco e da vicino ti direi Nicoletta, parafrasando una espressione del Cerchio Ifior.
In altri termini: la realtà si cambia iniziando da sé. 

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