Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione: introduzione

R[1]: Cominciamo questo viaggio che ci condurrà ad indagare il cammino dell’uomo incontro a se stesso; nell’avviare i nostri passi definiamo anche che siamo due persone della via che in un qualche modo dedicano la loro esistenza a questo percorso, le cui giornate sono permeate di questa ricerca e che interpretano la vita come processo senza fine di conoscenza, consapevolezza e comprensione.
Questa discussione introduttiva sarà una rapida escursione all’interno dei temi della via interiore; adesso ci interessa creare un clima, un ambiente, un contesto che disponga la mente del lettore ad essere macerata da questi argomenti. Nelle discussioni seguenti approfondiremo alcuni aspetti, altri rimarranno sospesi o inevasi, non ha importanza.
Perché abbiamo chiamato questo ciclo di conversazioni “La scomparsa dell’orizzonte”? [2]
Che cos’è la perdita dell’orizzonte per un umano?
L’uomo si muove dentro un orizzonte spaziale e temporale e, dentro quell’orizzonte, realizza la rappresentazione che chiama vita: se guarda davanti ha l’orizzonte di ciò che diverrà, se guarda indietro vede ciò da cui proviene. Ovunque l’uomo guardi la sua vita ha un orizzonte, è tesa nella ricerca di uno scopo, sente di essere all’interno di uno slancio, di un divenire esistenziale.
Ma quando l’uomo, per le ragioni che poi vedremo, si impatta con la via interiore, con il percorso spirituale, va incontro ad una esperienza che lo disorienta nel profondo: la via interiore non conduce ad essere migliori, ad un arricchimento di sé, ma ad un perdersi e ad un lasciar andare, ad un arrendersi e divenire piccoli e insignificanti; conduce oltre le categorie di migliore o peggiore, evoluto o limitato, adeguato o inadeguato.
La via interiore ha bisogno che l’uomo manifesti e porti a compimento la propria umanità, poggia sulle salde radici che l’umano ha costruito nel suo percorso esistenziale, ma edifica l’umano solo in una prima fase, in seguito lo svuota.
La via interiore conduce una persona oltre la propria umanità, oltre l’essere una identità, un nome; la conduce verso territori sconosciuti, privi di riferimenti, dove ciò che si è conosciuto nell’umano non ha più valore, dove la condivisione con l’altro del pensiero, dell’emozione, dell’azione, perde la sua rilevanza.
La via interiore è andare incontro ad un non sapere fondato sulla perdita di tutto ciò che si sapeva; è andare verso un non sentire se raffrontato a ciò che si sentiva; è andare verso un rapporto con la volontà completamente differente da quello conosciuto.
La via interiore non è la via verso la spiritualità, la santità, l’illuminazione, è la via verso la perdita di sé, del proprio essere individui; chi ritiene che la via sia il luogo dove si fanno esperienze straordinarie, dove il proprio essere, in virtù della pratica e della comprensione raggiunte, si perfeziona e vede superarsi il proprio limite, quel limite che tanto angustia l’umano, questa persona è destinata ad un amaro risveglio. Non c’è liberazione dal limite per volontà propria; non c’è miglioramento per volontà propria; non c’è libertà che poggi sul proprio sforzo. La persona della via sperimenta sulla propria pelle che non si migliora, non si cambia nei meccanismi più profondi, non si ottiene la libertà perché la si desidera: si viene liberati, è molto diverso. Il cammino spirituale conduce nell’intimo della propria natura, nell’intimo del limite, nella radice delle forze creative e distruttive che sostengono l’esperienza umana.
Se si crede che la via sia l’incontro con tutto ciò che di bene esiste nel creato, bisognerà ricredersi: la via conduce in faccia alle forze che governano la rappresentazione ed è impietosa nel mostrarle nella loro nudità; non c’è edulcorazione, ma nemmeno durezza nella via: c’è l’esperienza dell’uomo vissuta nella consapevolezza che il bene e il male sono solo bastioni della mente dell’uomo, la vita è oltre l’opposizione bene-male, la vita canta se stessa e non sa che farsene degli schemi duali dell’uomo.
La vita non consola e non punisce, accade, e lì, in quell’accadere, chiede un’attenzione, un disporsi, una resa.
La via interiore chiama l’uomo alla vita: che questi abbia scelto un monte per abitare, un appartamento in città, una barca su un fiume, una comunità o la solitudine di un eremo, non può fuggire alla vita; la via interiore è il canto della vita, non è una filosofia, non una morale, non un’etica, non una pratica, non un ruolo o una funzione, non una sapienza o un’ignoranza.
La via è l’essere piegati alla vita che giunge e sempre ti spiazza, che non bussa, non chiede permesso: irrompe e nel farlo devi fare i conti con lei, sei costretto a vederla; puoi opporti, puoi lottare, ma alla fine devi piegarti.
Piegarsi. Perdere. Venire svuotati: queste sono le esperienze con cui si confronta la persona nella via. Piegare la mente e la sua opposizione. Perdere l’identificazione con il pensiero, con l’emozione, con l’azione. Venire svuotati di tutto ciò che sentivamo come nostra ricchezza.
Queste conversazioni, questo libro parlano di questo e si rivolgono a coloro che non cercano una consolazione o una esperienza significante: queste parole sono rivolte al cuore e alla mente di chi è sufficientemente stanco di sé e ha compreso che un circo non va sostituito con un altro circo, magari profumato d’incenso. Il cammino spirituale è uno spogliarsi, indumento dopo indumento finché non sorge la propria nudità difficile, a volte, da reggere allo sguardo; il cammino è un lento incedere dentro ad un morire della parola, della pretesa di dire, di spiegare, ed infine conduce alla morte di tutte le domande, di tutto l’investigare, del principio stesso del provare interesse per qualcosa.
La via comporta un disimparare tutto ciò che si è appreso sulla via stessa, porta nel suo grembo il processo dell’abortire se stessa.
La via comporta un perdersi, uno smarrire i riferimenti, un sentirsi sospinti senza conoscere la direzione, senza avere volontà propria nel procedere.
La via è il luogo dell’incertezza, della non risposta, del dubbio, dell’osservazione perplessa. Di fronte all’esistenza che mostra il suo campionario, per lungo tempo, l’unico sentimento persistente è la perplessità.
La via ti butta nell’esistenza e ti sradica dall’esistente, ti conferisce l’intima gioia del nascere a te stesso e, un attimo dopo, ti fa sorgere un sorriso beffardo su quello che credi di aver raggiunto.
La via è una madre con gli occhi strabici, non hai mai la certezza che si occupi di te.
La via è in gran parte mistificazione della mente: da un punto di vista veramente neutrale, direi che non esiste alcuna via, ma sola la rappresentazione della via dentro al divenire, dentro alla mente. Fuori dal divenire non c’è via.
Fuori dalla mente non c’è via.
Dentro le logiche della mente c’è qualcuno che diviene da ottusità a libertà e il film che sta guardando parla di una via, di un processo, di un divenire: se è identificato, il film è la sua vita, ma se non è identificato il film è solo un film e la vita vera è nelle pieghe del film, oltre ciò che appare.
Nella vita vera nulla diviene, tutto è, nessuno passa da ottusità a libertà, ogni cosa, ogni stato è perfetto così come è. Noi parliamo della via ed usiamo questa mistificazione, questa rappresentazione della realtà, per farci comprendere dalle menti ma dal nostro punto di vista non c’è via, c’è la vita che è così come è e non chiede a nessuno di essere diverso da quel che è.
Non chiediamo al lettore di comprendere ora, quel che diciamo: se queste parole non l’hanno scandalizzato scoprirà, più avanti, che queste affermazioni non sono paradossi ma rappresentano la visione feriale di un viandante che non si racconta favole, ma guarda alla realtà per quello che essa è. In un tempo in cui tutto è consumo era inevitabile che anche la via fosse oggetto di consumo, luogo dove cercare l’emozione piuttosto che la resa; sono alcuni decenni che questa parodia è in scena e non sembra che gli spettatori abbiano ancora compreso l’inganno: non importa, non ci riguarda.
Non abbiamo niente in comune con il percorso interiore ridotto a circo, ma non vogliamo nemmeno trasmettere l’idea di una via che è solo fatica, difficoltà, solitudine.
Dal nostro punto di vista l’interrogazione su di sé e sulla vita, il coltivare la consapevolezza e la disconnessione sono la dignità dell’uomo, ciò che rende delle vite degne di chiamarsi tali, sono la fioritura dell’umano e dell’avventura nel tempo e nello spazio; ciascuno, nel proprio intimo può scoprire che non parliamo di lacrime e sangue, ma dell’esistenza nella sua dignità.
La via interiore passa dalla porta stretta della conoscenza di sé e dei meccanismi, dei modi, delle particolarità che compongono quel sé così reale, così presente, al quale siamo così attaccati, senza il quale sprofondiamo nella dissociazione schizoide; quel sé in realtà non esiste, se non come artifizio prodotto dalla mente. Nella realtà, evidente alla persona che osserva la vita attraverso gli occhi della contemplazione, non c’è alcun portatore di nome; la vita, in quest’ottica, non è l’edificazione di sé, ma lo svelamento del meccanismo che porta alla costruzione di sé come portatore di un nome.
La via interiore non può non passare attraverso la conoscenza della mente[3]: tutte le vie, qualunque sia l’ambito che prediligono debbono confrontarsi con i contenuti della mente e tutte hanno elaborato approcci alle dinamiche mentali, più o meno sofisticati.
Ora posiamo lo sguardo sulla mente con rapidi passaggi, per sviluppare una prima confidenza; il discorso ha una sua complessità e il lettore che è essenzialmente focalizzato sul sentire può trovarsi in affanno, ma ricordiamo che ciò che non trova mutamento sul piano della mente non muta nemmeno sugli altri piani: se non cambiano le convinzioni, niente cambia.
La mente si costituisce nel tempo come sedimentazione: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, struttura i suoi contenuti e li organizza in virtù delle facoltà della memoria e del giudizio.
Non è una stanza dove si buttano cose alla rinfusa, è un contenitore che nel tempo si stratifica secondo dei criteri di archiviazione, alcuni personali, altri propri alla struttura dell’organismo.
Quando è necessario, confronta ciò che accade nell’adesso, con ciò che c’è nei suoi archivi; qualunque cosa viva, la mente la paragona con ciò che già conosce. Quindi è un organismo che si sviluppa nel tempo e guarda al presente con gli occhi del passato.
Direi inoltre che la mente è un organismo energetico che ha bisogno di mantenere un certo livello di stabilità e per farlo deve operare ad un certo regime; chiaramente ogni mente è un mondo a sé, però tutte le menti hanno tratti in comune e tutte tendono ad un livello di stabilità che poggia su fonti continue di approvvigionamento e rinnovamento.
Credo potremmo dire che la mente è simile ad un ecosistema dove una serie di elementi cooperano per mantenere un equilibrio: ci sono elementi di crescita e di distruzione, c’è un continuo mutamento e rinnovamento ma nel complesso, tra il crescere e il distruggere c’è un fondamentale equilibrio.
A me non riesce di pensare che la mente sia un organismo nemico dell’uomo, come viene sostenuto direttamente e indirettamente in alcune scuole di pensiero spirituali, credo che ogni organo abbia la sua funzione: il fegato ha la sua funzione; i reni, gli organi genitali hanno la loro funzione; il corpo mentale e astrale hanno le loro funzioni: una via spirituale che consideri la mente come il problema credo che introduca una distorsione.
La questione riguarda il punto di vista da cui la guardiamo, ecco perché parliamo di mente come ecosistema: in essa ci sono crescita ed equilibrio, conflitto e distruzione ed è certo che questo organismo ha una struttura che credo sia la risultante dalla connessione che si stabilisce tra pensieri, emozioni ed azioni o, detto in altri termini, tra il pensare, il sentire ed il volere.
Sia i pensieri, che le emozioni, che le azioni, sono soggetti ad un’operazione incessante di etichettatura e di giudizio; il pensiero è etichettato, l’emozione è etichettata, l’azione è etichettata e tra essi si stabilisce una connessione la cui risultante è il senso di identità: la relazione tra questi tre agenti che portano a manifestazione gli impulsi della coscienza, genera l’ego.
Ogni pensiero porta con sé un’emozione e ogni emozione è legata ad un pensiero, ed ognuno di essi porta a manifestazione un determinato sentire, una richiesta di dati, un’intenzione che giunge dalla coscienza; da questa connessione tra molteplici fattori scaturisce l’identità: queste singole concatenazioni poste in relazione con altre concatenazioni danno luogo all’immagine di sé.
In questo percorso parleremo costantemente delle mente, qui tracciamo poche, sommarie pennellate di colore per inquadrare la questione; una trattazione completa non ci interessa, rimandiamo al formidabile lavoro compiuto dalla Via della Conoscenza e dal suo maestro, Soggetto.
Tutta la nostra vita, la nostra rappresentazione, è un muoverci tra pensiero, emozione, azione, alla ricerca di una significanza, di una densità, di una pregnanza, di una pienezza. É come se noi cercassimo, per tutta l’esistenza, la piena significanza del nostro pensiero, della nostra emozione, della nostra azione: uno splendore dentro questa concatenazione.
É un tentativo continuo di proiettare e assaporare una densità sempre maggiore, spinti dal bisogno di conferire un senso alle nostre esistenze.
Quand’è che una persona inizia a confrontarsi seriamente con le dinamiche della propria mente e si impatta nella via spirituale? Che cosa accade nella sua esistenza e nella sua mente?
G: Il quando secondo me è determinato da un fallimento profondo nella relazione con tutto ciò che c’era fuori di sé. Quando, per molti anni, c’è stato un impulso continuo a cercare fuori un obiettivo saliente o un significato consistente, quando tutto l’essere si è proteso verso quello, con tutta l’energia, lo sforzo, come un arco troppo tirato verso un obiettivo – che nel tempo è cambiato secondo le sfide che la mente imponeva – quando giunge all’ennesimo fallimento secondo me, allora lì, si chiudono le porte del fuori e si smette di cercare fuori. Si è sempre pensato che la risposta fosse fuori.
R: Quindi dipendesse dall’altro?
G: Dall’altro, dalla relazione, dal successo lavorativo, dalla posizione sociale.
R: Dalla vita che è ingiusta..
G: Dall’incolpare gli altri, dal karma.
R: D’accordo. Invece poi ad un certo punto c’è un riposizionamento e cosa inizia a fare quella persona?
G: Comincia a indagare dentro.
R: Cosa significa?
G: La prima cosa che si fa, è cercare le radici dei propri errori nel passato e lì, per molti versi, c’è un impaludamento.
R: Però è anche una necessità. Perché è necessaria, per tanti aspetti, l’indagine sul passato?
G: Perché si ha bisogno di una bussola, di una mappa logica, la mente chiede una logicità, un nesso di causa-effetto.
R: Ma anche perché, in un certo modo, quello che siamo oggi è il risultato di strati di sedimentazioni che nel tempo si sono accumulati e strutturati. Se vuoi capire molte cose di oggi, del tuo modo di funzionare, necessariamente devi andare a vedere come si sono formate nel tempo, come la mente funziona: come connette quel pensiero a quella emozione e a quella azione, come etichetta, come giudica, come si avvita ed entra in stallo.
Quindi lo sguardo rivolto verso il dentro è indirizzato alla comprensione della modalità di lavoro della propria mente, della propria identità. Questa è, in parte, la funzione di indagine svolta dalla psicologia.
Poi la persona, indagando sulla propria mente e sui propri meccanismi, che cosa scopre?
G: Scopre che se le va dietro è un gioco infinito, è come farsi prendere in giro da una giostra perpetua, un disco incantato, che vuole raccontare sempre la stessa storia trita e ritrita, finché non si accorge che in tutto questo c’è una forma di godimento.
R: Il godimento di chi?
G: Del riaprire la ferita, della vittima.
R: Ma, fammi capire, che cosa ne trae la persona, o la mente, dall’andare a mettere continuamente il dito nella ferita?
G: Cibo per se stessa.
R: Sì, eccitazione. Guarda il depresso nel suo dolore, dentro la cuccia del suo dolore: ad un certo punto il suo stare male – il suo essere devastato per tanti versi – quel risiedere nel dolore diventa un modo di nutrire la mente, un modo di alimentarla e di strutturare identità. Un modo di dare a quell’ecosistema un’energia che gli conferisce forma e sostanza. La mente, l’identità, ha una sua relativa autonomia, questo noi lo dimentichiamo sempre. É un organismo che esegue gli impulsi della coscienza ma è anche autoreferente: purtroppo noi ci identifichiamo con essa e con quell’apparenza di essere che genera.
G: Io penso, io ho un problema..
R: La mente pensa, la mente ha un problema. E’ qui che generiamo la nostra prigione, nella identificazione. La mente è un organismo a sé stante, con leggi sue, con dinamiche sue, noi la consideriamo noi stessi, perché è essa che genera il nostro nome, che ci genera come individui. Ovvio che diciamo: “Noi e la mente siamo la stessa cosa” e parliamo della mente come di noi stessi: siamo generati da essa.
In realtà, se tu guardi spassionatamente da fuori la mente, la vedi funzionare con la sua complessità ma come un organismo a sé; se invece partecipi al suo funzionare è lì che diventi un nome.
La speculazione senza fine, il rimuginare continuamente, non sono altro che una maniera di mantenere ad un determinato livello di eccitazione e di vitalità l’organo mente, attraverso l’identificazione con i processi che realizza.
Diamo energia al sistema senza sosta, ed il sistema è vorace e ha continuamente bisogno di stimoli: più lo solleciti, più ne vuole, più alza il livello del sua richiesta.
Tu guarda il sistema dell’informazione, guarda l’eccesso cui sono arrivati, dove tutto tende ad eccitare la mente dello spettatore, fino al paradosso che poi questa si anestetizza, si assuefa, e allora cosa fanno? Se prima ti eccitavo la mente facendoti vedere un cadavere per strada, adesso la eccito facendoti vedere un cadavere tutto sventrato. E poi ti faccio vedere il gesto dell’ uccidere e poi ancora di più, ancora di più.
Se prima le nostre menti arrossivano nel vedere la gamba di una donna fino al polpaccio, ora ti mostro la donna in posizione ginecologica perché la caviglia nemmeno la vedi; è così, perché la mente è un organismo fatto in questo modo: più tu alzi il livello, più lei si ristruttura e divora quel nuovo livello che sperimenta.
Poi, ad un certo punto, tutto questo non la nutre più e dice: “Oh, che noia! Ma qui non accade niente di significante; non ci sono pensieri, né emozioni, né azioni significanti!” É come un bambino o un adolescente alla ricerca di un qualcosa di nuovo, che le dia significato. E’ costantemente proiettata verso nuovi livelli di pregnanza e di senso, continuamente alla ricerca di uno stimolo che la qualifichi, le permetta di sentirsi d’essere attraverso la delimitazione di ciò che è di sua pertinenza e ciò che è altro da sé.
Questo è fisiologico, perché se così non fosse il bambino rimarrebbe bambino, non indagherebbe mai. La mente si struttura e diventa complessa e varia, proprio perché c’è questa spinta verso una complessità che giunge dalla coscienza[4]. C’è questa fame, questa sete di stimolazione e di esperienza nuova, di punti di vista nuovi: questo è fondamentale, altrimenti non esisterebbe questa rappresentazione che chiamiamo vita.
Questa persona che ha vissuto i moti eccitatori della mente, ad un certo punto arriva ad una perdita di senso, si trova costretta dall’insoddisfazione che la realtà le determina, a dirigere lo sguardo verso di sé; necessariamente deve rivolgere lo sguardo verso di sé e si rende conto che è intrappolata in una giostra; e quando si rende conto che è in una giostra?
G: Deve decidere se continuare a stare lì o scendere. Perché come dicevi tu è stata una tappa evolutiva quella della mente, perché la mente è processo; non saremmo nel 2008 con tutto quello che abbiamo realizzato in tanti campi. Soltanto che la mente legata all’emozionalità della persona è una trappola, bisognerebbe disinnescarla dal proprio processo affettivo-emozionale e usarla come un computer per fare delle cose meccaniche di sopravvivenza. Non bisognerebbe includerla nel processo vitale della persona..
R: Però non sarebbe più vita. La vita è tale perché c’è una connessione tra pensiero, emozione e azione. Allora, questa persona può dire: “Se continuo così sono in balia delle dinamiche della mia mente che ha necessità sempre più complesse, di eccitazione sempre più forte: la vita mi è diventata insopportabile, ho capito che è a causa della mente e di conseguenza devo disconnettere dai suoi processi”.
Su questa crisi della persona poggia tutto il nostro ragionare e il percorso che noi proponiamo: tutto ciò che abbiamo detto all’inizio preparava questo: ad un certo punto la persona si trova nella situazione che se non riesce a distaccarsi dai propri processi mentali non solo può soccombere, ma la propria vita rimane in un ambito di frustrazione e non può conseguire quella significanza cui aspira; allora disconnettere dai processi mentali diventa una questione veramente importante, la questione principale che la persona, nella crisi, si trova ad affrontare.
Abbiamo detto che il processo mentale è stabilito dalla connessione tra pensiero, emozione e azione. Se io ho un determinato pensiero, normalmente questo è associato anche ad un determinato stato emotivo. Se ho una emozione, normalmente è sostenuta da un pensiero. Se compio una certa azione, normalmente dietro c’è un pensiero e uno stato  emozionale: i tre sono connessi.
La persona, stanca della sua frustrazione si rende conto che è prigioniera di un meccanismo che la sovrasta; se andiamo a guardare che cosa può fare, scopriamo che può distaccarsi dal pensiero, da quell’emozione legata a quel pensiero, e magari anche da quell’azione che sta compiendo.
Non solo, ma può dire: “Ho una certa emozione e devo imparare a viverla in quanto tale, non legata a nessun pensiero, e a nessuna azione cui può dar luogo. Devo vivere l’emozione in sé, o devo vivere il pensiero in sé, separati”.
Ad esempio se a me adesso, in questo preciso istante, passa per la mente un pensiero osceno, oppure uno terribile, vedo che quel pensiero porta con sé un contenuto emotivo e potrebbe condurre anche ad un’azione, ma posso viverlo a sé stante e basta, pensiero che attraversa la mente; vedo anche che è legato ad un’emozione, ed anch’essa attraversa la mente; sullo sfondo c’è una possibile azione ma io non connetto, non collego tra loro pensiero-emozione-azione, vivo il pensiero nella sua oscenità e nella sua violenza e lo lascio andare.
Riconosco il pensiero, ma non mi lego ad esso, perché se mi lego cosa faccio? Necessariamente mi porto dietro tutta l’emozione e forse anche tutta l’azione, questo secondo il principio che all’origine di tutto c’è sempre un pensiero, conscio o inconscio che sia; invece mi fermo a guardare il pensiero: ecco, c’è questo pensiero, e lo lascio andare.
Quando nella mia mente sorge un pensiero forte, cosa sorge insieme a quel pensiero?
G: Il giudizio.
R: Sorge una parte della mente, legata a tutto un sentire emotivo, che dice: “Ma cosa pensi?”
Questa è una faccenda complicata: ogni pensiero, emozione ed azione portano con sé un giudizio, come fai a distaccarti da qualcosa per cui ti colpevolizzi?
Se ogni pensiero, emozione, azione che sorge è etichettata e giudicata, di che disconnessione parliamo? Se c’è il giudizio, c’è qualcuno che lo emette e siamo legati a quella sentenza che emettiamo e sentiamo come ineluttabile, rispetto alla mostruosità che ci è transitata in testa.
Ciò che ci lega al pensiero è il giudizio sul pensiero stesso. L’identificazione poggia e si sviluppa sul giudizio: il giudicare qualifica come individuo il giudicante.
Il giudizio è il pilastro dell’identità e della mente.
L’identificazione non nasce dal fatto che nella mente possano scorrere pensieri, emozioni, azioni, nasce dal fatto che su ciò che sorge qualcuno esprime un giudizio. E quando lo esprime lo fa proprio, si identifica, è esso stesso quel giudizio.
E’ il giudizio che mette il mio nome su quell’azione.
G: Però estirpare la radice del giudizio, è un’impresa titanica perché è dalla primissima infanzia che viene sviluppata questa funzione. Appena nati non abbiamo il giudizio.
R: Certo, non abbiamo la mente ancora strutturata.
G: Infatti, vorrei chiederti se il giudizio è una funzione propria della mente..
R: Sì, intrinseca; è nella natura della mente definire in vari modi la realtà.
G: Però ogni vissuto individuale e personale dà un filtro a quel giudizio, un colore, chiamiamolo così.
R: Sì, certamente, però tutte le menti giudicano, è veramente nella natura della mente giudicare. Nel neonato questo non c’è perché non c’è l’esperienza; man mano che si struttura nasce l’organismo mente e assume sempre più connotazione questa qualità intrinseca del giudizio.
Il giudizio su cosa è fondato?
G: Sulla polarità.
R: Sì, dalle polarità elementari come il bene-male alle più sofisticate; poi man mano che la mente/identità cresce e si organizza, genera e struttura una visione morale.
Che cos’è la morale?
G: La morale, “istruzioni per l’uso”.
R: Come si forma la morale?
G: Secondo me si forma perché l’uomo ha paura della vita intesa come molteplicità delle possibilità. Allora la morale ti offre un modo per aggrapparti a qualche cosa e farti sentire al sicuro e meritevole di rispetto, di dignità e fiducia; all’interno di quella gabbietta uno sa come muoversi, altrimenti..
Io penso sempre al primo uomo, all’uomo preistorico, alla paura che deve aver avuto in un mondo che non conosceva e lui non aveva doti intellettive per capire come gestirla; la morale ti dà un controllo illusorio sulla vita e se tu ti attieni a quello, hai meno paura della tua vita, perché credi di poterla controllare in base a quei due principi manichei, il bene e il male, e sei come un burattino con dei fili: se vai di qua sei accettato, sei vai di là non lo sei.
R: Tu pensa al bambino che se fa una cosa è accettato, se ne fa un’altra non lo è. Pian  piano, il tutto si sofistica, ma il principio rimane quello, il bisogno di un posto, di un’accoglienza.
G: Un riconoscimento; io sono qui per lo stesso motivo.
R: Fammi capire..
G: Voglio dire che ho riflettuto molto sulla tua proposta e chiaramente è una cosa che mi dà tanta gratitudine e riconoscimento per quello che mi stai offrendo, per il fatto di poter parlare con te, questo nutre una parte dentro di me che ha bisogno di essere riconosciuta; è di fondamentale importanza per me respirarci tranquillamente e non nascondermi dietro un capello, perché mi fa enormemente piacere.
R: Certo, la bambina è riconosciuta. L’uomo primitivo ha dovuto in un qualche modo imparare cosa scottava, cosa l’affogava, chi lo ammazzava; ha dovuto capire, ha creato quella piccola saggezza attraverso l’esperienza. Così nella mente del bambino si sviluppa quella piccola saggezza che gli consente di crearsi degli alleati.
G: Una strategia di sopravvivenza.
R: La cosa principale per il bambino è essere riconosciuto e questo ci porta al fatto che la cosa fondamentale nella vita di un umano è la realizzazione della propria identità; tutto è proteso a questo e la mente è un organismo efficace per questo, quella è la sua natura.
La mente è uno strumento formidabile, perché porta l’essere alla compiutezza della sua rappresentazione umana e, intrinsecamente a questo, della sua alienazione. L’umano è questo, ma l’essere in manifestazione non è solo umano che accade.
La mente è un fiore che deve essere aperto, utilizzato, dispiegato, accolto, conosciuto perché possa portare a splendore il principio dell’identità, la manifestazione del nome, la consapevolezza della separazione: questo va affermato in una via interiore, perché ci sono molti equivoci.
La mente, per sua intima struttura, porta l’uomo a separarsi da tutto il resto, a sentirsi a se stante, unico e, pian piano, lo modella e gli conferisce il senso di essere un individuo, con capacità proprie, con un valore e creatività proprie, caratteristiche uniche.
La mente è un organismo che secerne e genera l’identità e, per sua natura, da una massa estrae un componente che modella nel tempo fino a conferirgli una forma compiuta[5]. Come lo scultore che vede il blocco di marmo e comincia a lavorarselo finché non estrae la forma che aveva immaginato.
La vita diventa nient’altro che questa operazione governata dalla mente, dalle sue dinamiche, attraverso l’esperienza, la connessione pensiero – emozione – azione, l’interazione con l’altro, con l’ambiente, con le forze cosmiche; diventa la possibilità che quel piccolo bambino, senza nessun confine, acquisisca consapevolezza di sé e si sviluppi nei suoi processi e, nel suo divenire adulto, dica: “Perbacco, ho un nome!”. Essere portatori di un nome, è bella questa cosa, la trovo stupenda; il nome esprime la propria natura limitata.
Qualcuno capace finalmente di pronunciare il proprio nome, che liberazione! Non c’è niente, se non c’è questo diventare persona e poter pronunciare liberamente il proprio nome, perché questo è il gioco della vita, la prima metà del gioco della vita.
Questo è l’inspiro.
Ma dopo l’inspiro inizia l’espiro, l’inspiro prepara l’espiro, ed è qui l’interessante dal nostro punto di vista, la crisi che sopraggiunge quando l’uomo inspira e ad un certo punto non sa più cosa fare, e si perde: a quel punto deve espirare. In queste conversazioni parleremo soprattutto dell’espiro, della danza tra inspiro ed espiro, ma soprattutto del lasciar andare, perché la via interiore, la via spirituale, è innanzitutto questo svuotarsi.
Ma se quest’uomo non è capace di inspirare, se il suo respiro è corto, asmatico, se quando respira gli fanno male i polmoni, se non ce la fa, o sente che non c’è mai quella pienezza, che c’è sempre qualcosa che lo trattiene, diventa prigioniero della sua gabbia toracica, della sua vita, capisci?
Tutta la rappresentazione dell’uomo si svolge all’interno di questo movimento dell’inspiro; tutte le complicanze e le difficoltà si svolgono lì dentro. L’uomo è inserito in questo ritmo cosmico che è l’inspiro e l’espiro, ma soffoca, arranca e si arrende dentro all’inspiro.
Arranca nel pronunciare il proprio nome, nel pronunciare i propri diritti, nel rivendicare, nel mettere in atto una rappresentazione piena dove possa dire: “Io sono io. Questo è il mio spazio, quello è il tuo spazio”, arranca nell’affermazione di un suo diritto inalienabile, sentirsi individuo, delimitato e circoscritto; lì arranca.
É buffa questa cosa, perché non pongo l’accento sul fatto che l’uomo non sa relazionarsi all’altro, non sa amare; sto dicendo che non sa fino in fondo proclamarsi individuo. Non nel fatto che non sa condividere, non sa scambiare, non sa donarsi: il problema dell’uomo è che non sa dire “io” o, quando lo dice, non ci crede.
Non sa dire “io” pienamente, liberamente, fluidamente, sfacciatamente, non lo sa dire.
G: Perché c’è la censura..
R: L’uomo ha dovuto trovare un modo, una modulazione, nel dire “io”, per non sopraffare l’altro; tanti uomini che vivono assieme nella natura, se ciascuno avesse gridato il proprio io senza tenere conto dell’io dell’altro, a clavate sulla testa sarebbe finita!
Ha dovuto trovare un modo e ha posto tutti i paletti della morale, fino a che, ad un certo punto, questo impianto diventa una prigione, un soffocamento di sé.
Guarda dove siamo arrivati con il nostro ragionamento: l’uomo durante il suo percorso, ad un certo punto, non può che affrancarsi dalla morale perché altrimenti non fa l’ultimo passo, l’ultimo salto. Significa che l’uomo diventa senza morale? Non direi, è più complicato.
Stiamo dicendo che una mente che si forma e si struttura, ha bisogno evidentemente di regole, e non è che ogni volta uno può sperimentare tutto quanto da capo; c’è il genitore che ti dice: “Non toccare il fuoco, perché scotta”, non abbiamo bisogno di riprovare l’esperienza diretta, impariamo anche in un altro modo; però ad un certo punto la persona deve affrancarsi da questo impianto condizionante.
Questo significa che l’uomo al culmine del suo inspiro sente che il legame morale gli sta stretto, ma tu hai idea di quante implicazioni porta con sé questo stato interiore?
G: Tantissime, deve rompere tutte le catene. Agli occhi degli altri diventa un disadattato.
R: E agli occhi propri cosa diventa? Tu devi rompere le catene morali o ti si rompono? Sei portato a fare delle cose che ti disorientano, hai una visione delle cose che ti spiazza ma non l’hai scelta, ti è accaduta.
G: Non è una cosa che segue la volontà, accade e basta. Se posso dirti la mia esperienza, quando ho deciso di lasciare il lavoro, le notti precedenti alla scelta, ho sognato uno schiavo nero, africano, molto robusto, che nella stiva tirava le braccia con le catene ai polsi. Dopo la scelta, la notte ricompare lo schiavo nero, ma luminosissimo. Prima era tutto lividi e rattrappito, dopo mi veniva incontro libero, per ringraziarmi. Per me è stata una liberazione, io mi sentivo come lui.  Anche se fuori vivevo una situazione apparentemente libera, mi sono tolta dei pesi enormi. Non è che uno diventa un ribelle forzatamente, è proprio un scegliere te stesso.
Sei unico al mondo, ci sei solo tu così e se sei così, ci sarà un motivo, vorrà dire che dovrai portare una differenza nel collettivo; vogliamo tutti essere uguali, in realtà Dio ci ha creato tutti diversi. Allora ho pensato: “Devo riprendermi il mio diritto di nascita”, perché alla fine è quello che viene calpestato nel tendere ad essere tutti uguali per sentirsi approvati e sentirsi mancanti quando stride questa omologazione; è lì il problema, è capire che se sei nato così, ci sarà un posto anche per te, magari in una maniera diversa.
R: Quindi ad un certo punto ti devi liberare dai condizionamenti e lasciare quella piccola nicchia che hai occupato fino a quel momento; questo processo lo chiamerei: lo splendere della propria umanità. Hai bisogno di rompere le catene per splendere nella tua umanità; o la persona compie questo gesto o è  destinata ..
G: Ad una morte lenta.
R: L’umano al culmine del suo inspiro, pronuncia il suo nome, ma nel pronunciarlo è veramente differente da tutti gli altri, ed è veramente il “suo” nome; adesso può pronunciarlo pienamente, perché non corre più il rischio di essere di danno al proprio prossimo, nel momento in cui ha fatto le sue scelte, ormai riguardano solo lui ed è capace di assumersene la responsabilità. Molto del resto è ammaestrato, le spinte, le forze, sono sufficientemente domate e nella mente hanno un loro modo di funzionare automatico: la mente si è sofisticata, non è più un organismo elementare e la coscienza guida con più saldezza i processi avendo, di esperienza in esperienza, organizzato ed ampliato il suo sentire.
Finché c’è una spinta vitale, un istinto vitale non gestito, può produrre sull’altro un’offesa, ma quando la mente è evoluta attraverso l’esperienza e la sedimentazione, quella spinta vitale viene pienamente gestita dall’organismo mente. Quella spinta, di per sé, ha sempre una forza dirompente, una vitalità, sia nel troglodita con la clava, che nell’uomo evoluto, è sempre potenzialmente devastante, ma viene gestita nel troglodita da una mente rudimentale non ancora strutturata, e nell’uomo evoluto da una mente estremamente elaborata che, in vari modi, la ingloba, la trasforma, la direziona.
La persona pronuncia il proprio nome e sente che è un fiore in mezzo al prato, con tanti altri fiori, ma ha una connotazione particolare, un profumo e un colore particolari, diversi rispetto a tutti gli altri, distinti dagli altri, e per giungere a quello ha fatto mille piccole scelte di distinzione, differenziazione e, a volte, di rottura.
La morale tende a uniformarci, a piallarci. Ci riconduce a schemi di comportamento, necessari fino ad un certo punto perché la mente non è ancora giunta ad un livello di sofisticazione soddisfacente, ma da un certo livello in poi la mente non può che far esplodere quel contenitore, perché diventa un qualcosa che soffoca il pieno dispiegarsi del suo essere organismo.
Siccome non c’è più un pericolo derivante da un uso insulso degli istinti, allora l’operazione può avvenire e avviene: la persona alla fine del suo inspirare pronuncia il proprio nome, ed è una persona libera dal vincolo.
Questa è tutta la grande fatica dell’uomo: giungere a questo pieno inspiro, pieno pronunciare la parola e pieno essere libero dal vincolo.
Lì può cominciare a espirare. Naturalmente comincia anche prima; quando una persona entra nella via spirituale spesso non è arrivata a questo compimento della propria identità, a questa piena maturazione, a questo pieno splendore nell’umano e si trova a percorrere le due strade contemporaneamente: da un lato la via dell’imparare a mollare e ad arrendersi, dall’altro, nello stesso tempo, la strada dell’imparare a pronunciare il proprio nome senza più avere paura.
Ancora una parte del suo viaggio umano la deve fare, deve espirare; ha gettato le basi ed è sorta una quiete rispetto alla propria manifestazione.
Secondo me, gran parte di quelle persone che si affacciano alla via interiore hanno compiuto un lungo tratto di strada sulla via della propria manifestazione come individui, perché il poter dire: “Ma che mi importa?” e cominciare ad abbandonare, è un lusso che si può permettere chi già ha maturato una intima espressione di sé.
Chi non ha sperimentato compiutamente, ancora brama, ha desiderio, rincorre quella espressione piena. Che cosa porta un uomo a cominciare ad espirare?
G: Il dolore.


[1] R: Roberto, G: Giulia
[2] Nella prima edizione il libro è uscito con questo titolo.
[3] Con il termine mente si intende la capacità cognitiva dell’uomo ma anche, più estesamente, il suo corpo mentale; si intende anche l’ego, o io, o sé inferiore, o identità. La mente/identità è la risultante della relazione tra esperienza fisica, emotiva, cognitiva e viene concepita come espressione, veicolo della coscienza: ciò che sorge nella coscienza trova espressione nello spazio-tempo attraverso il veicolo dell’identità/mente. In alcuni passaggi del libro il termine mente diventa più estensivo: si intende con esso tutto ciò che è duale, non unitario; tutto ciò che viene vissuto ed interpretato come divenire che ottunde l’esperienza dell’essere.
[4] Più avanti descriveremo la funzione della coscienza e la sua relazione con la mente/ego/identità.
[5] Qui non entriamo nel merito di che cosa spinga la mente a compiere questo processo; è evidente, ai nostri occhi, che su qualunque piano della manifestazione ci si collochi, esistono dei processi che obbediscono a delle logiche intrinseche alla manifestazione stessa, esistono delle leggi insomma, un programma secondo cui tutto si svolge. Qui non interessa l’analisi del come ciò avvenga, ci rivolgiamo semmai, per comprendere, all’esperienza della natura intima della realtà sperimentata attraverso l’atto contemplativo.

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