Conversazione con gli studenti del Liceo artistico Mengaroni di Pesaro. 18 febbraio 2009
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L[1]: Vi presento Roberto, un mio caro amico, un maestro di meditazione; ti lascio la parola.
R.: Un piccolo consiglio ragazzi: mettiamoci in modo che sia possibile vedersi, non perché io voglia tenervi sotto controllo ma perché le cose di cui parleremo richiedono un rapporto personale e richiedono che ciascuno sia riconosciuto come persona. A me non interessa parlare a delle persone che non si sa chi sono, mi interessa parlare a delle persone concrete, che sono individui e che come tali vanno considerati e rispettati; quindi è necessario che noi ci vediamo, nella fisicità, e poi ci vedremo anche a livelli più profondi.
Vorrei partire facendovi una domanda: “Perché avete scelto una scuola così, una scuola ad indirizzo artistico? Perché è una scelta molto interessante…”
S: Per la creatività, è diversa da tutte le altre.
R: Diversa in che senso?
S: Unica
S: Permette altre forme di comunicazione.
S: Io non ho scelto questa scuola, ne avevo scelta un’altra, però mi piaceva disegnare; forse era la mia scuola dall’inizio, solo che ho sbagliato e sono arrivata qui due anni dopo.
S: Per esprimersi.
R: Esprimersi, pensate a questa parola. Cosa significa esprimersi?
S: Comunicare qualcosa, farsi capire.
R: Allora, farsi capire, comunicare qualcosa; quel qualcosa che dobbiamo comunicare, quel farci capire, da dove sorge? Dov’è?
S: Tirare fuori noi stessi.
R: Quindi c’è un dato interiore, che ad un certo punto va esteriorizzato, va portato fuori, d’accordo? E quanti sono i modi per portare fuori qualcosa che è interiore?
S: Parlando, scrivendo, disegnando, attraverso la musica, scolpendo, ballando.
R.: Guardate quanti modi ha l’uomo per esprimere sé stesso però, questo è fondamentale, sono modi che esprimono l’interiore, esprimono quello che uno è dentro, siete d’accordo su questo? Allora, tutto ciò che l’uomo fa, non solo nel campo dell’arte, perché tu puoi fare anche l’artigiano, puoi fare il muratore, puoi fare il contadino, puoi fare il facchino, puoi fare qualunque cosa, ma tutto ciò che fai esprime ciò che sei!
S: L’essere unici.
R: Ecco, cosa significa essere unici?
S: Che comunque siamo tutti uguali, ma in un certo senso siamo tutti diversi.
R: Assolutamente sì, tutti diversi: partiamo dal porre l’accento sul fatto che siamo tutti diversi. Poi stabiliremo non che siamo tutti uguali ma che siamo tutti parte di un’unica cosa, però partiamo dal fatto che siamo tutti diversi.
Voi guardate un prato, guardate quanti fiori ci sono in un prato: se andate a vedere, anche se sono tutte margherite, non troverete una margherita uguale all’altra; così tra sei miliardi e settecento milioni di abitanti su questo pianeta non credo che ne esistano due uguali, no? È un prato sconfinato e formidabile dove ci sono tante individualità una diversa dall’altra e questo è l’aspetto più incredibile dell’esistere.
Oppure guardate le forme animali, o guardate le forme minerali; guardate le cose che voi create, i vostri disegni, o i vostri scritti, o i vostri dipinti: non sono mai uguali, non ce n’è mai uno uguale ad un altro, ognuno è differente. È così? Allora, scusate, questo di cosa vi parla, se non di una creazione continua? È come se ci fosse un getto di creazione continuo, inarrestabile dove però ciascuno porta la propria caratterizzazione. Allora, il nome che voi portate, è la vostra caratterizzazione. Siete d’accordo?
S: Sì
R: Vi caratterizza. Non è la stessa cosa che vi chiamiate Antonio o Alberto, non è la stessa cosa. Allora, però, se ciascuno è unico e nel suo essere unico è diverso da un altro, ciascuno è chiamato dalla vita, credo, ad essere se stesso fino in fondo. Siete d’accordo? Perché se non sei te stesso, cosa sei?
S: Uguale agli altri.
S: No, forse no, perché uguale agli altri non lo sarai mai, simile? Non ti distingui.
R: Non solo non ti distingui, ma in un qualche modo non porti a compimento quello che sei. Se tu sei un fiore conformato in una certa maniera, quando il sole la mattina appare ti chiama ad aprirti, ti chiama a splendere, ti chiama ad essere quel che sei, non ti chiama ad essere a seconda di chi hai a fianco: “Beh, lui splende così, allora forse anch’io devo splendere come lui”. Se permettete, il sole ci chiama a splendere ciascuno per quel che siamo.
Ma allora capite che l’esistenza, fondamentalmente, è un divenire ciò che siamo, non è un imitare, non è un essere come l’altro, non è un copiare, non è un mettersi addosso i vestiti dell’altro, le modalità dell’altro, le idee dell’altro. L’esistenza chiama ciascuno ad essere quel che è, così come è!
Ci possiamo essere a questo punto? Avete delle obiezioni? Allora voi capite che il nascere, il crescere, il divenire adulti e poi diventare grandi e poi anche, alla fine, morire, fa parte di un processo del divenire se stessi: questo è fondamentale. Ma io vi chiedo: ”Se stessi che cos’è? Cosa significa questa espressione? Perché si dice divenire se stesso? Ma se stesso, chi? Cos’è uno? Chi è uno? Chi è quella persona?
S: Un’anima, l’interno dove uno è un’anima.
R: Cominciamo a definire questo se stesso. Il primo elemento che appare, qual è?
S: Di una persona è il corpo.
R: Il corpo; allora, uno è un se stesso che ha una certa conformazione fisica così com’è percepita dai sensi fisici e noi, vi ricordo, percepiamo attraverso la vista, attraverso l’udito, attraverso l’olfatto, ma anche attraverso il tatto, non consideriamo mai il tatto abbastanza. Chi di voi scolpisce, spero che qualcuno di voi scolpisca qui; scolpite tutti? Non scolpisce nessuno? Non manipola nessuno? Mannaggia, vedi che in questa scuola non si manipola; (risate) è interessante la manipolazione!
S: L’anno scorso sì.
L.: Quest’anno, invece, hanno smesso di manipolare!
(risate)
R: Il primo se stesso che compare è il se stesso fisico, poi cos’altro c’è?
S: Poi c’è il carattere.
R: Definitemi il termine “carattere”.
S: E’ quella cosa che ci fa fare determinate azioni; ci spinge ad agire in diversi modi; ci fa fare certe cose.
R: Sì, è il programma che ti conduce; è come se tu avessi dentro di te un programma che ti porta a fare quello, a fare quell’altro, d’accordo? Noi siamo una fisicità, ma siamo certo anche un carattere, ma questo è l’elemento di raccordo che organizza diversi fattori. Quali sono i fattori che il carattere organizza? Ce ne sono almeno due: l’emozione e l’intelletto.
Allora: corpo, emozione e intelletto. Sono le cose più facilmente visibili, contattabili in qualunque persona. Siete d’accordo? Voi, dei vostri amici, di voi stessi, che cosa vedete? La prima cosa che vedete è il corpo. La seconda cosa che vedete, è se è una persona emotiva, se non lo è; se vi piace o non vi piace il suo essere emozionale. La terza cosa che vedete, è come si approccia ai problemi, alla vita, a voi, come esprime un concetto, come esprime un problema, se lo esprime o non lo esprime.
Questi sono i tre aspetti più chiaramente contattabili: la fisicità, l’emotività, la cognitività. Allora, voi avete 16, 17 anni?
S: 16.
R: Il vostro crescere è stato pian piano un formarsi del vostro contatto con la fisicità; quando eravate piccoli avete gattonato, avete fatto tutta una serie di esperienze. L’essere umano contatta innanzitutto la propria fisicità. Poi contatta la propria emotività e poi, pian piano, diviene padrone della propria cognitività, della propria intelligenza. Voi guardate come tutte le esperienze dei primi anni sono state caratterizzate dalla..
S: Ricerca.
R: Benissimo. Poi è cominciato a sorgere tutto il mondo emotivo, tutto il mondo del sentire emotivo; poi siete cresciuti e avete cominciato magari a leggervi un libro per conto vostro, una cosa secondo interessi vostri; adesso a questa età cominciate a occuparvi di argomenti che hanno caratteristiche anche filosofiche, astratte. Cominciate a porvi i grandi temi che un essere umano si pone: che senso ha il vivere, chi sono io, dove vado, che senso ha tutto questo; queste sono domande che potete farvi oggi, ma che non potevate porvi a sei anni.
S: Non ci veniva proprio.
R: No, perché ancora in voi non si era formata quella dimensione del vostro essere. Quindi si è formato prima il corpo fisico, poi si forma questa dimensione emotiva, poi si forma la dimensione cognitiva e poi si formano altre dimensioni: più andrete avanti più sentirete che in voi c’è una completezza d’essere. Quindi il vivere è fondamentalmente questo entrare in contatto con qualcosa che dentro di voi cresce e prende una forma. Quando un uomo è entrato in relazione con queste dimensioni, ad un certo punto gli si presenta la possibilità di conoscere qualcosa di più profondo dentro se stesso. Quando voi vi ponete certe domande su chi siete, su dove andate, su che cos’è la vita, c’è una parte di voi che sta crescendo, che si sta formando e che si sta interrogando. Le domande che voi vi ponete non sono solo domande che pone la vostra mente, sono delle domande che vengono da qualcosa di più profondo della vostra mente.
Potete concepirlo questo? Ci sta? Vi sembra un assurdo? Allora, la vostra mente può porre delle domande, la vostra emotività può porre delle domande, il vostro corpo ha delle esigenze, l’emozione ha delle esigenze, la mente ha delle esigenze, ma ad un certo punto viene avanti nella persona qualcosa di più profondo, vengono avanti cose più sottili, vengono avanti domande che non hanno un riscontro nella fisicità ma che appartengono soltanto alla dimensione del sentire. Ad un certo punto voi cominciate a chiedervi: “Ma chi sono io?”, “Che senso ha tutto questo?”, “Che senso ha alzarsi tutte le mattine, venire a scuola tutte le mattine?”, “Che senso ha andare a dormire tutte le sere?”, “Che senso ha questa mia esistenza?”, “Chi sono io che vivo tutto questo?”; cominciate a porvele, giusto? Chi in maniera più serena, tranquilla, chi in maniera anche abbastanza drammatica, a volte.
E chi siete voi? Proviamo un abbozzo di risposta a partire da questa piattaforma che abbiamo costruito, dove abbiamo dato per assodato che siamo una fisicità, una emotività, una cognitività; ma io continuo ancora a farvi una domanda:
“Chi siete voi?” Perché abbiamo soltanto visto la buccia, abbiamo solo visto la scorza esteriore. Chi siete voi?
Mentre io parlo, se vi è possibile, voi state attenti al vostro respiro perché altrimenti non potrete mai rispondere ad una domanda come questa. Se voi cercate la risposta basandovi su quello che la vostra mente sa, non la troverete. Per potere trovare la risposta voi dovete fare una operazione semplice, semplice: mentre io parlo, voi osservate il vostro corpo che respira. Osservate il vostro corpo che respira.
Bisogna che la vostra attenzione non sia posata su di me, non sia posata su quel che vi dico, bisogna che la vostra attenzione sia posata sul ritmo del respiro in voi. Inspirare, espirare, inspirare ed espirare; anche se avete gli occhi aperti, focalizzate l’attenzione su di voi, non su di me. Diventate attenti a quel che accade in voi. Provate un attimo.
Adesso chiudete gli occhi per favore e semplicemente osservate l’inspiro e l’espiro. Non ponetevi il problema del che cosa fare, del che cosa pensare, del come stare; dovete stare lì ad osservare il vostro inspiro e il vostro espiro.
Non ha nessuna importanza, nessuno vi guarda, nessuno vi giudica, voi state dentro voi stessi e semplicemente osservate il vostro corpo; vedete che la mente si intrufola e dice: “Ma che cosa sto facendo?”, “Ma guarda tu!”.
Lasciate correre, lasciate correre, e tornate all’inspiro e all’espiro; qualunque cosa la mente dica, non la seguite e semplicemente osservate il corpo che respira.
Adesso ritornate pure qua.
S: Io ho provato un po’ di angoscia.
R: Va bene, non ti preoccupare, dopo ne parliamo. Semplicemente osservate: ora è chiaro che dentro di noi ci sono molte cose, tra cui ci sono anche tante paure, ci sono tante angosce, ci sono tanti aspetti che non ci piacciono e ci sono tante cose dalle quali vorremmo fuggire, tante cose che vorremmo non ci fossero. Ascoltare il proprio respiro significa ascoltare se stessi, significa smettere di fuggire da se stessi, significa cominciare a conoscere ciò che siamo; allora, voi potete imparare a conoscere ciò che siete in ciò che fate, in ciò che pensate, in ciò che sentite e potete conoscere voi stessi anche in questo silenzio: sono tanti i modi di conoscere se stessi.
Quando voi disegnate, se vi osservate, è un modo di conoscere voi stessi; quando fate la doccia, se vi osservate, è un modo di conoscere voi stessi; quando ballate con qualcun altro, è un modo di conoscere voi stessi, oltre che l’altro: qualunque cosa facciate è un modo di conoscervi, ma non potete conoscervi in nessun modo se avete paura di voi.
Non è possibile nessuna conoscenza se avete il terrore di voi stessi e di ciò che siete. Non c’è nessuno, alla vostra età, che non abbia delle cose di sé che gli fanno paura. Ditemi che non dico una fesseria! Ciascuno di voi ha paura di qualcosa di sé, ciascuno di voi teme qualcosa di sé, non accetta qualcosa di sé e vorrebbe che qualcosa di sé fosse diverso da come è. È vero? Questo è molto interessante, perché è interessante? Perché in un qualche modo vi costringe a vedervi!
Attraverso le cose che non amate di voi stessi, che non accettate, che non vi piacciono, voi siete costretti a guardarvi e siete costretti a conoscervi. Oppure, potete cominciare e coltivare la lunga, lenta e interminabile arte del fuggire.
Avete due possibilità, più o meno alla vostra età, che è l’età in cui la consapevolezza matura. Potete cominciare a coltivare l’arte del fuggire da voi stessi o potete cominciare a coltivare l’arte del conoscere voi stessi. È una scelta che fate in questi anni: più fuggite più tenderete a fuggire.
Più terrete scheletri negli armadi, più cercherete di non vedere le cose che non vi piacciono, le cose che ritenete che gli altri non accettano e più getterete le fondamenta di una vita che è tutta in fuga, tutta assolutamente in fuga: da voi stessi, non in fuga dagli altri perché dentro, all’origine, c’è una non accettazione di voi, un non amore per voi, una non accoglienza per voi, un non apprezzare ciò che siete, perché il giudizio che date su di voi è essenzialmente: “Io son pieno di limiti, non valgo niente, chi mi può amare? Chi mi può accettare? Chi mi può accogliere se sono così intriso di limite?”
Su questa base non potete costruire niente.
Su questa base potete farvi solo del male.
C’è l’altra strada, c’è la strada del conoscere ciò che siete, avere il coraggio di guardare ciò che siete e dell’imparare a trascendere ciò che siete. Ma per poter trascendere dovete accogliervi, per poter trascendere dovete vedervi, e dovete dire: “Sì sono questo, e allora?” “Sono questo, così sono costituito! E su questa base voglio fondare la mia esistenza: ci sono delle cose che non mi piacciono, ci sono delle cose che voglio trasformare, che desidero diverse ma parto dalla presa di contatto con ciò che sono. E devo imparare ad accogliere ciò che sono.”
Perché non è dal conflitto con se stessi che può nascere qualcosa, ma è dalla conoscenza, dalla trasformazione di sé che nasce tutto; non dal conflitto, dal rifiuto di sé, ma dal vedere: “Questo è quel che sono, su questo lavorerò. Questa è l’argilla che ho nelle mani, questo è il colore che ho nelle mani!”
Quando dipingete avrete dei colori, non avete tutti i colori possibili e immaginabili di questo pianeta, avete una gamma di colori ristretta. Ciascuno ha i propri colori nel dipingere la propria esistenza e ciascuno lavora con la sua tavolozza. Non c’è una tavolozza universale, non siamo tutti uguali.
Ognuno è una tavolozza.
O consideriamo che la vita ha sbagliato tutto quanto e a qualcuno gli ha dato la tavolozza sbagliata, o consideriamo che la vita forse non sbaglia, ha un suo progetto e quindi ciascuno ha la tavolozza più opportuna, più adatta, per il suo processo.
Ma qual è il processo? Se ciascuno è un fiore, come abbiamo detto, ed è quel fiore, se ciascuno è quella tavolozza, i colori che ha a disposizione servono per dipingere qualcosa, per dipingere un’esistenza. Ma l’esistenza mia non può essere come la tua: ogni esistenza è differente.
Ma perché ogni esistenza è differente? Fatemi comprendere, perché?
S: Perché siamo diversi.
R: Sì certo, però c’è una ragione più profonda, siamo diversi è una conseguenza: perché tu hai dei colori che io non ho e io ho dei colori che tu non hai?
S: Per completarsi insieme.
R: Diciamo che in un’economia più grande, sicuramente, perché si crei da tanti frammenti l’unità. Però, perché la tua vita ha quei colori lì e non altri?
S: Perché ognuno deve raggiungere una consapevolezza, uno scopo diverso.
R: E qual è lo scopo?
S: Ognuno ha il suo.
R: Sì, ognuno ha il suo però c’è una caratteristica comune che accomuna tutti gli scopi: è vero che ognuno ha il suo, però tutte le persone hanno un percorso, tutte le esistenze sono un percorso, un processo. Esistere è compiere un percorso. Ma un percorso di che cosa?
S: Di crescita
R: Di crescita; poi ancora, declinatelo.
S: Di conoscenza di se stessi.
R: Sì, poi?
S: Di conoscenza di tutto quello che ci circonda.
R: Assolutamente sì, ancora?
S: Raggiungere la libertà.
R: Certamente.
S: Arrivare ad essere soddisfatti di quel che si fa.
R: Sì; se noi andiamo a vedere, tutto quello che voi avete detto, presuppone una trasformazione.
Quando tu dici libertà, soddisfazione, felicità, è come se questi fossero degli obiettivi: si parte dalla mancanza di quella cosa, dal non viverla, dalla non pienezza di quella cosa in noi, perché se io mi sentissi già perfettamente libero, perfettamente felice, perfettamente equilibrato, o se conoscessi perfettamente me stesso, voi capite che non ci sarebbe nessuno stimolo a nessuna ricerca.
Quindi, evidentemente, io mi sento come colui che manca di qualcosa, e proprio perché manco di qualcosa ho lo stimolo di andare verso qualcosa. Vedete che allora la vita è un “andare verso”, la vita è una trasformazione, è un processo inarrestabile di trasformazione.
Tutto è dentro a questo grande divenire. Voi guardatevi: avete 16, 17, 18 anni, da quando ne avevate 2, 3, 4, non vi siete trasformati? Suvvia, e non vi trasformerete ancora? Ma non vi trasformate solo nella fisicità, vi trasformate nelle emozioni, vi trasformate nell’intelletto, vi trasformate nella comprensione di voi e nella comprensione dell’altro, vi trasformate in tutta la vostra capacità di stare nel mondo, di percepire, di relazionarvi.
La vita è essenzialmente trasformazione, d’accordo? Ma ora vorrei chiedervi questo: “Verso quale fine?” Dove ci porta? Guardate il fiume: tutti i fiumi nascono ad una certa altitudine e finiscono al mare, e se non finiscono al mare, finiscono al lago, ma comunque tutti i fiumi finiscono in qualcosa che li contiene, quindi anche tutte le vite finiscono da qualche parte.
Tu hai detto “alla completezza”, declinala, cos’è la completezza?
S: Arrivare al punto di non cercare niente, ho tutto!
R: Bene, interessantissimo. “Ho tutto”. Cosa significa ho tutto?
S: Non ho più desideri per qualcosa.
R: Siete d’accordo con quanto ha detto? Ad un certo punto c’è la fine del desiderio. L’ha detta grossa lei! Perché ha detto: “Ad un certo punto non desidero più niente, ho tutto”. Però cerchiamo di capirci: “Hai tutto perché hai riempito casa e svuotato i magazzini, oppure è uno stato dentro di te?
S: Non devo cercare, non delle scarpe, o qualcosa da mettere a casa: ho un qualcosa che in realtà c’è già.
R: In realtà c’è già.
S: E’ in me.
R: Che in realtà c’è già, l’hai detta grossa un’altra volta! L’hai detta giustissima! Ce l’hai già!
La vita come trasformazione e conseguimento di quella completezza!
Quindi la completezza è quando noi, non manchiamo più di niente. Ci siamo? Non parliamo del mancare dei beni materiali. Non parla lei nemmeno della mancanza dei beni affettivi, non parla nemmeno del mancare delle capacità intellettuali, del sapere intellettuale. Lei dice ad un certo punto: “Io non manco di niente! La mia vita è completa!”
Dopo arriviamo anche alla faccenda che “c’è già”, però adesso riflettiamo un attimo sulla storia che la vita è completa. La vita in sé è un grande mistero, però tu ad un certo punto dici: “Le mie giornate per come si presentano, la mia esistenza per come si presenta, io sento che non manca di nulla”.
Una persona, ad un certo punto, può arrivare a questa completezza, a questa affermazione. Ma che cosa è accaduto? Perché ad un certo punto dice questo? Voi osservate voi stessi e osservate come siete alla ricerca di qualcosa e non c’è niente di sbagliato in questo. È giusto quello che state facendo. È giusto che voi siate alla ricerca di qualcosa però, se vi muovete in una certa direzione che è quella del cercare e non quella di fuggire da voi stessi, arriverà un giorno in cui voi potrete dire: “Non mi manca niente, è tutto a posto, è tutto in ordine, è tutto assolutamente a posto”. Perché potrete ad un certo punto dire questo? Che cosa è accaduto in voi?
S: Dopo un certo percorso si è arrivati; si cresce, ci si accorge di quel che si fa, non serve cercare nient’altro.
R: Scusate, fermiamoci un attimo. Quando tu fai la ricerca, conosci te stesso, penetri dentro tutto questo processo, senti che quello che hai fatto, quello che fai, veramente ti esprime. Qualcuno di voi prima, aveva detto: “Hai espresso completamente te stesso”, d’accordo; quando tu non fuggi da te stesso e non sei nella paura, tu sei nell’espressione di te, questa espressione la puoi portare sino alle estreme conseguenze e quindi veramente puoi dire “Tutte le chance che avevo veramente le ho espresse, tutte le capacità che avevo le ho espresse, tutti i limiti che avevo li ho espressi”.
Qui non si parla solo di esprimere i doni che uno ha, fa piacere a tutti quanti esprimere le proprie parti positive, ma si tratta di esprimere anche le proprie parti negative e di farci pace; e di fare pace col proprio limite. Quando una persona ha espresso tutte le proprie potenzialità, e ha espresso tutto il proprio limite, ad un certo punto può dire: “Perbacco, quella spinta propulsiva ad esprimermi può placarsi!”.
Lì sorge una cosa interessantissima, veramente una nuova condizione d’esistenza proprio perché voi vi siete espressi, proprio perché vi siete manifestati, proprio perché non vi siete trattenuti ma avete osato; non vi sto dicendo che dovete vivere da persone timide, ritratte, vi sto dicendo che chi osa arriva all’espressione del proprio talento e del proprio limite e costruirà sulla base del proprio talento e del proprio limite. Cosa significa?
Significa che quando tu hai osato esprimere te stesso a quel punto sorge una fase completamente nuova. Tutti quanti dipingete, giusto? Disegnate?
Voi sperimentate nell’azione pittorica, quando l’insegnante non vi imbriglia troppo, quando siete lasciati alla vostra libertà e alla vostra creatività, che c’è una fase, la prima, che è molto espressiva, è molto fluida, c’è una grande intensità emotiva e creativa quando il foglio è ancora bianco e lo state cominciando a riempire. Siete d’accordo su questo? C’è un impeto, poi più andate avanti più dentro di voi quell’impeto si placa finché ad un certo punto sentite che il lavoro è finito; prima c’è l’impeto, poi si entra nei particolari poi, ad un certo punto, sentite che è fatto!
Ci sono delle fasi: una è quella che state vivendo adesso, l’adolescenza, ed è una fase esplosiva poi, in seguito, vengono altre fasi. Più conosci te stesso e più utilizzi le fasi creative, le forze espansive, le forze anche esplosive; più le hai utilizzate e più potrai trascenderle, cioè potrai arrivare a quella fase del foglio già fatto, completato. Quando l’opera è già compiuta. Dopo che tu hai espresso te stesso, dopo che hai portato a manifestazione te stessa, nasce questa fase dove la spinta propulsiva si placa e sorge un altro stato completamente differente, uno stato caratterizzato dall’ascolto, dall’osservazione, dall’accogliere la realtà per quel che è, comprendendola nel profondo.
In tutta la prima parte dell’esistenza la persona modifica la realtà; quando tu sei sul disegno lo costruisci, lo crei: tu hai uno spazio bianco e lo riempi di te, ma ad un certo punto la realtà è compiuta e tu semplicemente la contempli.
Tu contempli qualcosa che è stato. A quel punto non intervieni più. Allora, nella vita ci sono tante stagioni e questo processo della conoscenza ti porta da un lato ad esprimerti, dall’altro pian piano ti porta ad osservare, ad ascoltare, a sentire, a contemplare. Che cosa significa ascoltare, che cosa significa osservare, che cosa significa sentire e contemplare? Qual è l’organo della riflessione?
S: La mente.
R: Nell’ascolto vero, nell’osservazione vera, nel sentire vero, nell’atto contemplativo non c’è più mente, non c’è uso della mente. È fondamentale che la persona, lungo il suo cammino, utilizzi il suo corpo, la sua emozione, la sua mente. Però è anche fondamentale comprendere che, ad un certo punto, bisogna ridurre l’attenzione posta su questi tre strumenti ed aprirsi ad un’altra comprensione.
Per farvi comprendere un po’: osservatevi quando siete tra amici, osservatevi come spesso finite per parlare uno sopra l’altro: uno parla, l’altro parla, e in fondo tutti noi siamo interessati alla nostra manifestazione, non alla manifestazione dell’altro. Fondamentalmente ci interessa il nostro piccolo show: abbiamo strumentalmente compreso che se non permettiamo all’altro di fare il suo show l’altro non permetterà a noi di fare il nostro; allora attendo, e quando è finito l’esporsi dell’altro, intervengo io e faccio il mio piccolo spettacolo.
In questo caso che cosa diventa l’ascoltare?
S: Ascoltare se stessi?
R: Siamo tu ed io, e parliamo. Io faccio il mio show, tu fai il tuo show, poi ad un certo punto diciamo: “Ma che stiamo facendo? Nessuno di noi due sta ascoltando!”. Allora, come si sviluppa l’ascolto autentico?
S: Col rispetto.
R: Sì. Che cosa significa rispetto dell’altro?
S: Riuscire a capire. Lasciarlo fare.
R: Ma per poter lasciar fare, per poter ascoltare l’altro in ciò che sta manifestando, occorre innanzitutto fare un’operazione…
S: Aprire la mente a nuove possibilità.
R: Brava, aprire la mente alla realtà che sta accadendo. La realtà che sta accadendo che cos’è? È il mio desiderio di performance ma è anche il desiderio dell’altro della performance.
Se io voglio entrare in una logica d’ascolto devo vedere il desiderio di fare il mio show e devo lasciarlo andare perché altrimenti sono travolto, sono condizionato dal mio desiderio di manifestarmi e non lascio spazio all’altro. Lascio spazio all’altro soltanto quando vedo il mio desiderio di manifestarmi. Se non vedo questo mio desiderio, come faccio a lasciare spazio all’altro? Invece quando ho visto il mio desiderio, mi dico: “Cosa sto facendo, non sto ascoltando, sto cercando, sto smaniando di manifestare me stesso!” Vedendo questa disposizione mia, la lascio cadere e allora, a quel punto, c’è solo l’altro, c’è solo la performance dell’altro, c’è solo il discorso che fa l’altro; c’è il presentarsi dell’altro di fronte a me che sono consapevole di non interferire. Però io devo essere consapevole della mia interferenza perché altrimenti condiziono la scena in mille modi differenti.
“Cosa stai facendo perché interferisci? Se tu ti metti in mezzo, non stai ascoltando! Adesso è il tempo di lui, il tempo di lei, tu devi tacere, devi farti concavità”. E’ come le pozzanghere; come sono fatte le pozzanghere? Sono concave, se una pozzanghera non fosse concava non potrebbe riempirsi d’acqua, si riempie proprio perché è una concavità. Non c’è possibilità d’ascolto se non c’è una concavità interiore, ma non c’è concavità interiore se io non sono disposto a crearla, se io sono pieno del bisogno della mia manifestazione. E’ chiaro?
Ascoltare significa vedere se stessi, la propria smania di manifestarsi e lasciare andare questo desiderio: lì si apre uno spazio per l’altro che a quel punto può veramente manifestarsi.
S: Levare l’egoismo.
R: Beh, questo è grosso come concetto: levare l’egoismo è un grossa faccenda; molto più limitatamente, se tu ti osservi e dici, “Se voglio ascoltare devo tacere!” ottieni già una scena molto soddisfacente per te e per l’altro.
Chi deve tacere? Quale parte costitutiva di noi deve tacere?
S: La mente
R: La mente. Secondo voi la mente è un organo capace di tacere? Si esprime in mille modi, ma veramente è un’intrufolona di quelle; la mente blatera sempre qualcosa. Siete d’accordo?
S: Sì (corale)
R: Chi di voi non fa esperienza di questo organo che recita sempre qualcosa? Tutti! Dalla mattina alla sera, anche di notte, anche quando sogniamo! Non c’è mai pace. E’ interessante questa cosa, proprio perché lei è così presente, ad un certo punto noi possiamo dire: “M’hai stufato!” Non vi viene mai da dire che v’ha stufato? Ha sempre da mettere il becco su tutto. Siete d’accordo? Come mette il becco? Attraverso due atteggiamenti; ha due modi principali di operare la mente.
S: Bloccando.
R: Cosa significa bloccando?
S: Che impedisce di ascoltare, continuando a desiderare di manifestare se stessi.
R: Brava! Allora, mentre l’altro parla, la tua mente fa due cose: incessantemente giudica quel che l’altro dice, giudica le tue reazioni, le posture del tuo e del suo corpo, giudica tutto e, incessantemente, si aspetta qualcosa; ad esempio si aspetta che l’altro se la smetta di discorrere perché vuoi discorrere tu! Oppure spera, se è una persona che ti piace, magari che ve ne andiate a fare una passeggiatina insieme. La mente ha sempre delle aspettative e ha sempre un giudizio. Sempre! Questi sono i due binari, sui quali viaggia la mente. Voi osservatevi come c’è sempre aspettativa e c’è sempre giudizio su voi, sull’altro, sul mondo, su qualunque cosa. Sempre.
Se non vedete questo operare della mente andate nel mondo come ciechi, non sapendo quello che vivete, quello che vi accade, non sapendo niente; se invece vedete questo incessante giudicare e aspettarsi, allora voi potete veramente porvi il problema: “Ma allora, io sono libero o sono nelle mani di un tiranno?” Ve lo chiedo: “Siete liberi o siete nelle mani di un tiranno?
S: Il tiranno sarebbe la mente?
R: Sì la mente; a volte non è un tiranno, a volte è un alleato prezioso, ma a volte è anche un tiranno. Il tiranno è quello che ci condiziona in modo tale da non poter permetterci di esprimere tutto lo spettro di ciò che siamo. Quelle persone che hanno carenza di autostima, di fiducia in se stesse, di accoglienza per sé, di amore per se stesse – in varia misura c’è in ogni essere umano, quindi parlo di tutti – quando quel programma basato sulle affermazioni: “Io valgo poco”, oppure “Io non so se sono all’altezza”, oppure “Io non so se piaccio” è ripetuto più volte, ditemi voi se non diventa un tiranno.
S: Io non capisco: la mente comanda noi o siamo noi che comandiamo la mente?
R: Questa è formidabile! Come facciamo a rispondere ad una domanda così? Chi è “noi”?
S: E’ anche la mente.
R: “Noi” è anche la mente! Però lei ha fatto una distinzione, ha detto “noi” e “la mente”. Quindi nella sua domanda è implicito il fatto che la mente è parte di “noi” ma non esaurisce “noi”! Allora “noi” chi è? Qualcosa che è più in là della mente, più vasta della mente. Però è fondamentale che voi comprendiate come la mente è condizionante, perché se non lo vedete nelle vostre esistenze, il mio discorso diventa astratto e non sapete che farvene.
Se vi guardate dentro un attimo, se io dico le parole “autostima”, se dico “accettazione di sé”, se dico “accoglienza di sé” e via dicendo, dentro di voi risuona: “Ma sono adeguato? Piaccio? Sono accolto? Sono amabile?” Tutti si pongono queste domande. Anche se voi in prima persona vi date una risposta: “Sono sufficientemente amabile, sono sufficientemente piacevole”, potete immaginare che c’è qualcuno che invece quella affermazione non riesce a farla e non riesce ad accettarsi. Quello che non riesce ad accettarsi, è veramente tiranneggiato dalla propria mente, ed è schiavizzato dalla propria mente. Se è chiaro questo, il problema diventa il liberarsi dal tiranno, diventa una lotta di liberazione: liberarsi dal tiranno interiore, dal condizionamento interiore, da quel qualcosa che non ti permette di essere quel fiore che sei!
Che poi io sia una margherita ed esistano delle rose, ma chi se ne importa, ci sono tanti fiori nel mondo, mica possiamo essere tutti rose! Ci saranno le margherite, il fiore del carciofo, ci sarà di tutto! O vogliamo essere tutti quanti rose? Se vogliamo raccontarci che siamo tutti quanti rose, raccontiamocelo pure, ma la realtà non è questa!
La realtà è che ciascuno di noi è chiamato a riconoscere ciò che è e ad accogliersi per ciò che è! Se sei una viola, se sei un ciclamino, se sei una margherita, sei quel che sei. Guardate quanto è importante questa cosa, guardate quanto il voler essere tutti rose ci impedisce di essere quel che siamo, getta le basi della nostra infelicità.
Qui siamo dentro la questione della nostra aspettativa: ci aspettiamo sempre di essere qualcosa di diverso da quel che siamo, invece è fondamentale che noi impariamo ad accoglierci per quel che siamo. Non solo: è fondamentale che noi impariamo, da un lato, a vederci, ma dall’altro a non giudicarci. Vi pregherei di osservare come nelle vostre esistenze tutti i momenti voi vi giudicate, sottoponete voi stessi e l’altro a giudizio, e come siete spietati nei giudizi. Non ditemi che non è vero! Spietati nel giudizio verso di voi e nel giudizio verso l’altro.
Poi c’è la persona che è più incline a fare a pezzi se stessa e la persona più incline a fare a pezzi l’altro, e c’è chi è incline a fare a pezzi sé e l’altro. Ma ci sono anche quelli che ci vanno più leggeri, c’è di tutto. Osservate come opera l’aspettativa, il voler essere qualcosa di diverso da ciò che si è; come è basata sul giudizio che incessantemente si dà di sé: “Io non sono adeguato, quindi debbo essere diverso e mi aspetto di esserlo; tu non sei adeguato e quindi devi essere altro da ciò che sei”. Questo è il meccanismo dell’infelicità, è la base dell’infelicità ed è anche la base della trasformazione. Se non ci fosse l’inquietudine a divenire, saremmo sempre uguali. Quindi noi ci trasformiamo proprio perché abbiamo questa inquietudine: c’è un tasso di giudizio, un livello di giudizio, che è sano: “Io mi vedo e in qualche modo vorrei trasformarmi”; a questo livello è sano, è importante, ed è necessario.
Quando è che diventa qualcosa che ci fa male? Quando noi eccediamo! Un eccesso di giudizio ci fa a pezzi! Un eccesso di giudizio sull’altro, fa a pezzi l’altro. Una cosa è riconoscere che tutto è trasformazione, che noi siamo dentro un processo di trasformazione, e quindi aspiriamo a qualcosa d’altro, una cosa è farsi a pezzi. Sono cose molto differenti. Quando tu hai visto che sei nella morsa dell’aspettativa e del giudizio che danzano in varia misura, e cominci ad essere stanco della tua mente, che cosa puoi fare?
S: Andare d’impulso!
R: “Andare d’impulso”, cosa significa?
S: Non pensarci!
R: Osi essere quello che sei, coi limiti che hai, coi talenti che hai?
S: Ma la vocina rimane.
R: La vocina, certo che rimane! E’ interessante come tu la tratti la vocina; come la tratti?
S: Bisogna essere indifferenti.
R: Diciamo che non la assecondi, diciamo che non la amplifichi, diciamo che non diventa quella cosa su cui posi continuamente l’attenzione perché sennò diventa un megafono, un altoparlante che ti intontisce. Tu puoi affermare: “Non ti sto a sentire! Non voglio starti a sentire!”
S: Come fai? Noi ci poniamo sempre la domanda: “Lo faccio o non lo faccio?” E’ un dialogo tra chi? Tra la mente e chi?
R: “Lo faccio o non lo faccio?” la domanda la pone la mente, da chi vengono le due spinte? C’è una parte che spinge per fare una certa cosa, giusto? E c’è un’altra parte che spinge per farne un’altra.
S: Una parte viene dal tuo essere e una parte dalla ragione. Una parte è quella che dice: “Sì, potresti buttarti giù dal porto!” e l’altra è quella che dice: “Guarda, forse è da matti!”; oppure “Voglio ballare!”, e l’altra: “Ma poi gli altri che cosa pensano?” La mente si pone sempre delle domande: sì, no e via dicendo.
R: Sempre, sempre; cerchiamo di capire che cosa accade in quel momento lì. Perché ci sono diversi livelli di personalità, molti livelli di personalità; dietro quel “faccio questo o faccio quest’altro”, in realtà interviene, ad esempio, l’esigenza del corpo, l’esigenza emotiva, l’esigenza intellettiva. Quando parlo di esigenza emotiva, intendo tutta la sfera psichica e con sfera psichica intendo tutto il bisogno di essere riconosciuti, tutto il bisogno di essere amati, tutto il bisogno di essere accolti, d’accordo? Quindi ci sono il corpo, la psiche e la mente con i loro bisogni: questi tre elementi insieme inclinano per fare una cosa o per non farla, ma a questo punto interviene un quarto agente.
S: La razionalità?
R: No, la razionalità la comprendiamo nella mente
S: La coscienza?
R: La coscienza. Che cos’è la coscienza? Definitemi coscienza.
S: Una parte di te che dice se una cosa è giusta o sbagliata.
R: Sì, però noi possiamo dare una spiegazione più articolata.
S: L’etica e la morale.
R: La morale appartiene alla mente, appartiene alle strutture della mente; la tua mente è personale, la mente è la tua, e come ce l’hai tu non ce l’ha nessun altro: come tu hai una morale personale, così esiste una morale collettiva, principi e affermazioni condivise dalle menti.
Diciamo che la morale è una serie di principi che ci orientano, ma io la collocherei dentro questa dimensione della mente, dentro le sue strutture.
Culture diverse, elaborate da menti diverse, hanno morali diverse.
Quella che lei chiamava coscienza è una cosa che va al di là della mente, ma che non dice solo se è giusto o se è sbagliato.
S: Se sbagliamo a fare qualcosa andiamo contro la coscienza.
R: Però, tu guarda come il linguaggio ci svela: hai detto “Se sbagliamo”, e questo ti dice molto. L’uomo è costantemente nel timore di sbagliare. Tutti quanti viviamo condizionati dal timore di sbagliare, di fare le cose sbagliando, di essere sbagliati. Io voglio portarvi molto più in là.
S: Effettivamente forse non esiste giusto o sbagliato, effettivamente non ci dovrebbe essere, ognuno lo sente a modo suo.
R: E’ un argomento molto delicato: certo, a volte, quello che è giusto per una persona magari non è giusto per un’altra.
S: Può essere giusto o sbagliato un compito fatto, ma non il modo in cui tu reagisci.
R: Noi possiamo provare a sviluppare una visione più complessa e più sofisticata. La coscienza non è quella che ti dice che quello che stai facendo è giusto o sbagliato, state attenti su questo perché finché ragioniamo nei termini del giusto e dello sbagliato, noi siamo sempre nella paura, siamo sempre sotto il condizionamento della paura; viviamo le nostre vite all’insegna della paura perché temiamo di sbagliare e di non essere accolti.
La questione è radicalmente differente: in un qualche modo la coscienza è quel faro interiore che ci indica la strada e ci dice: “Per i tuoi processi interiori, per il tuo percorso di conoscenza e di trasformazione, la strada delle esperienze dovrebbe andare in questa direzione piuttosto che in quest’altra”.
La coscienza non dice se è giusto o se è sbagliato, la coscienza indica la strada. Poi sei tu a scegliere quella scena che sarà più o meno efficace all’interno del tuo processo: è come se la coscienza mi dicesse: “Tu devi andare a Milano”; sai che sta nel nord Italia, i modi per arrivarci sono tanti, puoi passare per Venezia, per Padova, puoi passare per Firenze, se vuoi puoi andare anche a Reggio Calabria per arrivare a Milano. La mia coscienza dice: “Tu devi andare a Milano!”, “Il tuo processo di trasformazione deve andare in quella direzione lì. Poi hai la tua libertà nel decidere se andarci accarezzandoti o rompendoti tutte le ossa, ma in quella direzione devi andare!”
S: La coscienza prepara il percorso della vita!
R: Sì! La coscienza è veramente quel qualcosa che conduce ciascuno nella vita. La vita è trasformazione, ma non è una trasformazione che va in tutte le direzioni, è una trasformazione che va in una direzione. E allora guardate dove siamo finiti con il nostro ragionare: qual è la direzione della trasformazione? Qual è la direzione della vita? Dove ci porta la vita?
S: Il senso di colpa fa riferimento alla coscienza?
R: Il senso di colpa è molto complesso. Da un lato fa riferimento alla coscienza, dall’altro alla mente e alla morale che è stratificata nella mente. Essenzialmente, il senso di colpa si alimenta in riferimento alla morale e a quel che la mente dice; poi, c’è quel senso di disagio interiore che io non chiamerei tanto senso di colpa quando un sentirsi “fuori direzione”: invece di andare dove dovresti vai in un’altra direzione, allora sorge un disagio dentro di te. Il senso di colpa è molto in relazione a dei programmi mentali e anche lui, a volte, quando non eccede, è un buon compagno di viaggio, ci insegna alcune cose; ma quando eccede ci paralizza. Quelli che vivono i sensi di colpa sanno che sono paralizzanti quando si lascia che prendano troppo la mano. Quindi ci indica anche lui la strada, però la cosa fondamentale è capire la direzione verso la quale la vita ci vuol portare e tutte le vite sono portate in un’unica direzione. Qual è?
S: Il completarsi.
R: Il completarsi, sicuramente, come individualità, personalità.
S: Unirsi all’Uno!
R: Cosa significa unirsi all’Uno?
S: Siamo stati formati da qualcosa e ritorniamo nell’Uno.
R: Si d’accordo, però questo è molto filosofico, vorrei qualcosa di più legato alla vostra esperienza diretta; guardate la vostra vita, la vostra relazione con gli altri, guardate come noi passiamo da quel temere l’altro, da quell’aver paura, all’aprirci: guardate il gesto del chiudersi e dell’aprirsi. Ditemi se tutta la vita non è un tentativo di andare oltre il gesto del chiudersi, un andare verso questo sbocciare, questo fiorire, questo aprirsi; ditemi se tutta la vita non è un passare dalla paura alla fiducia.
Non della fiducia in qualcuno, non mi interessa definire di chi avete fiducia, mi interessa il gesto della fiducia, la persona che ad un certo punto dice “Non ho paura! Perché dovrei aver paura? Perché dovrei essere condizionato dal mio limite e dall’altrui limite? Dal limite sociale? Perché dovrei aver paura? Non voglio aver paura, io sento che la vita mi porta a non aver paura, mi porta ad aprirmi, mi porta ad un gesto di fiducia nei confronti dell’altro, nei confronti della vita stessa.”
Guardate come noi cerchiamo sempre di proteggerci, sempre di avere una cinta di protezione – questo non è sbagliato, questo è giusto – però ad un certo punto noi passiamo, inevitabilmente, dalla coltivazione dell’ego, di noi, ad un aprirci; passiamo da dinamiche fondate sull’ego ad altre che potremmo definire condizionate dall’amore.
Che cos’è l’amore se non l’apertura? Che cos’è l’amore se non l’ascolto? L’osservazione senza giudizio, senza aspettativa; noi passiamo dall’ego, dall’essere centrati in sé, rannicchiati in sé e quasi velati da quel timore, da quella paura di non essere adeguati, passiamo pian piano, lentamente, attraverso la conoscenza di noi e degli altri, a questa apertura che porta ascolto, che porta osservazione, che porta disponibilità nei confronti dell’altro e della vita.
Noi passiamo tutte le nostre esistenze nel lento tentativo di aprirci e di transitare da ego ad amore, questo è il movimento di ogni vita, nessuna esclusa. Se voi capite questo, avete capito dove la vita vi porta; poi, uno ci va in un modo, e uno ci va in un altro.
S: C’è chi non ci arriva.
R: Certo, c’è chi non ci arriva, bisogna però vedere la vita non soltanto limitata ai 70, 80, cent’anni, che abbiamo a disposizione. Se uno pensa di avere a disposizione ottant’anni, sono un po’ pochini per passare da ego ad amore: “Sono morto che ero a metà, ero lì che cominciavo ad aprirmi e sono morto!”, messa così è una gran fregatura! C’è tutta un’altra visione che si potrebbe coltivare.
S: E se qualcuno per arrivare a questo fine fa male agli altri?
R: Tutti quanti siamo inseriti in un sistema di condizionamenti: abbiamo i genitori, i fratelli, gli amici, quindi è chiaro che la manifestazione di sé, e anche il superamento di certe proprie paure, normalmente deve tenere conto del contesto; però tu ti accorgerai che ci sono delle volte in cui è come se la spinta all’affermazione di sé travalicasse qualunque condizionamento: dopo ti accorgi che magari ti sei espresso, hai superato un certo tuo limite, una certa tua deficienza, magari sei anche contento, ma hai fatto i tuoi bei guai, hai fatto del male a qualcuno; te ne rendi conto, a volte, dopo che già la scena è avvenuta.
Non è che sia sbagliato; il problema non è mai ragionare nei termini del giusto e dello sbagliato, il problema è capire che cosa è accaduto e trarre una lezione da quel che è accaduto. Tu puoi avere anche un impeto irrefrenabile a manifestare te stesso, ma la responsabilità di ciò che accade te la devi assumere!
Dici: “Ho fatto questa cosa perché la ritenevo importante, ho fatto dei guai attorno a me, ora cerco di riparare; mi assumo la responsabilità dei guai che ho fatto perché avevo presupposto che non potevo rinunciare a questa cosa”.
Quindi non c’è mai un modo giusto di comportarsi: c’è il modo di ciascuno in ciascuna situazione; lì devi comprendere se puoi fare quella cosa, se puoi manifestare te stesso combinando il minor numero di guai, se puoi farla non combinandone affatto, o se senti che la devi fare e magari fai dei macelli, però la fai lo stesso, ma ti assumi la responsabilità.
È fondamentale che ciascuno comprenda che c’è un percorso assolutamente personale nel muoversi all’interno del processo che da ego va ad amore.
Si tratta di avere questa capacità di osare intesa come: “Io guardo te, cerco di imparare da te, a volte ti imito, però poi alla fine so che devo guardare dentro di me; qual è il mio percorso per stare dentro il programma, dentro questa tendenza, dentro questa cosa che mi spinge?”
Tutti siamo spinti a passare da ego ad amore ed il processo avviene comunque, ma quanto è facilitato e quanta sofferenza ti risparmi se ti conosci, se puoi vedere? Come fai se sei bendato dalla paura e dall’ignoranza? Dove va un bendato? In che direzione?
S: Dove gli capita.
R: E’ in balìa di tutto; ma i modi di bendarsi sono molti; ad esempio la paura è uno dei modi di bendarsi: una persona che è in balìa della paura è in balìa della propria mente, di un qualcosa che è nella propria mente, è cieco perché la paura lo acceca. L’angoscia ci acceca, il giudizio ci acceca, l’aspettativa ci acceca. Voi andate ad un incontro con un ragazzino o una ragazzina che vi piace, avete un sacco di aspettative e finite per distruggere tutto con le vostre aspettative perché l’altro non corrisponderà mai alle vostre aspettative; l’avete già compreso? L’altro è sempre diverso da come ve lo aspettate, l’altro è sempre diverso; l’altro ci smentisce, ci costringe a vedere la nostra aspettativa, ci costringe a vedere il giudizio, l’altro ci costringe a conoscerci.
Ogni cosa che fate vi costringe a conoscervi: la frequentazione tra di voi, la frequentazione con i vostri insegnanti, le difficoltà, qualunque cosa, vi costringe a conoscervi, vi costringe a vedere quando avete paura, quando siete angosciati, vi costringe a vedere quando vi ritenete non adeguati, e vi costringe ad andare oltre la vostra paura, la vostra inadeguatezza, la vostra angoscia, vi costringe a lasciarle andare e a guardare oltre.
Abbiamo parlato di un divenire, di una trasformazione, abbiamo parlato del vedere la propria paura, abbiamo poi parlato dei processi di trasformazione; lei, all’inizio, ha messo un tarlo dicendo: “Forse è tutto già lì, forse non c’è nessuna ricerca da fare, forse non c’è nessun andare da, a!”
Come sta la questione? E’ una faccenda complessa.
S: Lei ha parlato di tanti gradini, gradini di crescita
R: Si, quello che io ho definito un processo.
S: Partiamo da un punto in cui non siamo consapevoli di niente: comunque sia, noi questo processo dobbiamo farlo per arrivare ad un fine.
R: Ma alla fine che cosa comprendiamo? Alla fine comprendiamo che non c’è nessun processo, che era tutto illusione! Alla fine comprendiamo che noi ci siamo arrabattati, ci siamo dati da fare, abbiamo lottato, abbiamo vissuto conflitti, abbiamo cercato di lasciare andare i conflitti, abbiamo fatto di tutto e di più, e poi ci accorgiamo che era tutto lì ma non avevamo occhi per vederlo. Tutto questo arrabattarsi, tutti questi conflitti, tutti questo darsi da fare, tutto questo soffrire – non è che questo lo si fa così, spesso accade in mezzo alla sofferenza – tutto questo è servito per capire che avevamo altri occhi ma non sapevamo usarli.
Alla fine del percorso, alla consapevolezza della persona diviene chiarissimo che tutto questo fare, questo trasformarsi, questo divenire, in realtà è necessario perché altrimenti non vedi, però, la realtà intesa come libertà, intesa come equilibrio, intesa come pienezza, intesa come felicità, era già lì, da sempre e per sempre. È già lì adesso per tutti quanti voi, se avete gli occhi per vederla. C’è già!
S: E perché non abbiamo gli occhi per vedere?
R: Mistero! Non so dirti, non so risponderti, il cosmo è programmato così: tutto è perfetto, tutta la libertà è già lì, ma agli occhi dell’uomo tutto appare limitato e in divenire e privo di libertà e di perfezione. Viviamo dentro questo paradosso; questa è la ragione per cui, in oriente, si parla della realtà del mondo come illusione, e per cui, nei vangeli, ci sono delle espressioni del Cristo in cui dice che il regno è già presente e altre in cui afferma che diviene.
S: Ma forse perché non siamo ancora abbastanza maturi.
R: Sì, certo. Tu dici: “Non ho gli organi per vedere, quindi devo formarmeli”, ma la consapevolezza alla quale giungi alla fine è un’altra.
Non vedo la realtà alla quale non manca niente, semplicemente perché sono completamente immedesimato nel mio essere mancante di qualcosa.
Mi interpreto come colui a cui manca qualcosa, mi interpreto come colui che non è felice, mi interpreto come colui che non è realizzato, mi interpreto come colui che non vive la pienezza, come il mancante.
Sulla base di questa interpretazione soggettiva edifico la mia infelicità. Se mi interpretassi come colui che ha già tutto ciò che la vita mi può dare, tutto cambierebbe.
Sapete cosa cambia dall’inizio alla fine? Solo, esclusivamente il modo di interpretarsi! Voi siete sempre quelli però vi interpretate in maniera differente. All’inizio vi interpretate come quelli che hanno paura e, in effetti, avete paura e generate paura; come coloro che devono difendere il proprio ego e siete l’ego e lo alimentate; alla fine vi interpretate come coloro che non hanno più nessuna paura e che non devono difendere niente. È cambiata solo l’interpretazione.
Tutta questa fatica solo per cambiare interpretazione!
Però per passare da un’interpretazione ad un’altra, in questo mondo, c’è questa sceneggiata qui. È come essere a teatro: tu sei lì e tutto si svolge secondo un copione che ha stabilito il regista, lo sceneggiatore e via dicendo; siamo finiti in questa vita che ha questa trama e funziona così, però alla fine del percorso vi accorgerete e direte: “Ma è sempre stato così, la realtà è sempre stata lì, perché non l’ho vista? Non l’ho vista perché non avevo gli occhi. Perché non avevo gli occhi? Perché non sapevo interpretarmi. Perché non sapevo interpretarmi? Perché non mi conoscevo.”
Guardate dove torniamo: “Non mi conoscevo.” E’ tutto legato, tutto parte dall’ignoranza, per usare un termine buddhista, dal non conoscere.
Certo, tutto questo ci sconcerta, questo comprendere che il vivere è solo un cambiare angolo visuale, che quindi, in effetti, la realtà non muta, cambia la nostra interpretazione di essa; ci impattiamo anche con domande che non hanno risposta, con domande che giustamente restano un mistero: ma perché dovremmo poter rispondere a tutte le domande?
E’ interessante che ad un certo punto una persona dica: “Non lo so!” Sapete perché è importante? Perché si apre di fronte al mistero. Con la mente non possiamo conoscere più di tanto: tu capisci soltanto che tutto questo è formidabile, però non sai spiegarlo, non puoi spiegartelo, non puoi tenere questa vastità nel contenitore della mente: la mente non può contenere qualcosa di così vasto.
Ad un certo punto del cammino interiore, della trasformazione o, se preferite, del cambiare interpretazione, tu non comprendi più con la mente, con cosa comprendi?
S: Con l’anima.
R: Con qualcosa di più vasto della mente, con il sentire. Possiamo usare questo termine? Perché se diciamo anima ha una connotazione precisa, rimanda ad una cultura determinata.
Puoi comprenderlo con qualcosa di più vasto della mente: ad un certo punto la realtà non la si comprende con la mente, la si comprende con il sentire, non però con il sentire emotivo, ma con quello che potremmo chiamare il sentire spirituale, un sentire molto profondo.
A un certo punto tu comprendi la vita, comprendi l’altro, comprendi il mistero insondabile e imperscrutabile e lo comprendi attraverso il sentire; tu comprendi la vastità del che cos’è l’esistenza umana, del che cos’è il cosmo, del che cosa sono tutto queste vite che pullulano da tutte le parti; tu le comprendi con il sentire, non con la mente; la mente è un organo limitato a certe funzioni.
Il sentire è l’organo di una comprensione più vasta.
S: Vuole dire che bisogna essere religiosi per comprendere questo?
R: Assolutamente no! La religione è l’ambito della spiritualità resa forma e regola, sto parlando di altro, di un qualcosa che non ha bisogno né di forme né di regole, di un qualcosa di assolutamente particolare, che accade dentro di te, che è compatibile con la religione, ma che non ne dipende. Sto dicendo che, ad un certo punto, ti rendi conto che con la mente non puoi comprendere le cose ultime, allora dentro di te cresce un altro strumento che chiamiamo sentire. Tu sai che la mente è uno strumento con cui fare alcune cose: con un pennello da 10 puoi fare alcune cose; per farne altre devi usare un pennello da 6, da 3, da 20; con la mente non puoi far tutto, puoi capire alcune cose; altre cose, soprattutto quelle vaste e sottili, le senti! Ma non con l’emozione, il sentire è un organo di senso; è come se l’uomo avesse dentro di sé, un altro corpo, con un altro organo di senso che è il sentire.
S: Sesto senso?
R: Chiamalo così. Io dico un altro livello di personalità: abbiamo parlato della personalità fisica, della personalità emotiva, della personalità mentale, c’è anche la personalità spirituale. Tu ad un certo punto comprendi attraverso la personalità spirituale.
E’ come se noi avessimo messo sul fuoco tantissima legna, abbiamo fatto quanto, due ore di parole? Mamma mia, è una cosa terrificante! Lasciatele lì, lasciate che scorrano, che fluiscano, che germoglino o che diventino spazzatura, non ha importanza; se ci sarà in futuro un’altra possibilità, voi vedrete che useremo molte meno parole e faremo più esperienza di certe cose. Oggi non ci conoscevamo, essenzialmente abbiamo usato le parole, ma è solo un livello, il primo, per approcciarsi a queste problematiche.
Grazie.
[1]L: prof. Luca Canapini
R: Roberto
S: studenti