Il cammino attraverso la ribellione

Dice Duccio commentando il post Ti interroghi sulla tua compassione: Se tutto è già deciso, se ciò che vediamo manifestarsi nel mondo è il tutto, il principio creatore, come si colloca l’indignazione della parte cosiddetta buona del tutto e le azioni che da qui partono per “migliorare” il mondo? Ed esiste un’altra pari indignazione della parte cosiddetta cattiva del tutto? Se no cosa vuol dire, che il tutto ha già una direzione di marcia ed un punto di arrivi?

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Ti interroghi sulla tua compassione

All’alba di una domenica d’agosto, cammini su di un tappeto di foglie secche abbandonate da alberi che non hanno più la forza di trattenerle, stremati da una sete che non perdona e non si placa.
Sorge in te una ribellione profonda per il Demente che di questa sofferenza della natura porta la responsabilità, e ti interroghi sulla compassione di cui tanto spesso parli, sulla tua compassione.
Si, tu compatisci il Demente e, nonostante il danno che esso provoca devasti il mondo, non riesci a puntare il dito, ma un dolore profondo ti invade e una distanza si aggiunge, una lontananza dovuta ad una estraneità: estraneo nei modi, nel sentire, nella capacità di rispondere alle responsabilità.

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Amare non è dire si, non è soccorrere, non necessariamente

Ciò che cerchiamo di dare, o di non dare, all’altro comunque parla sempre di noi.
Osservo con molta attenzione l’impulso a dare, come la paura di farlo: qui voglio parlare dell’attitudine interiore che porta alcuni a dare ripetutamente e con apparente naturalità.
Comunemente affermiamo che il dare, il prendersi cura, il sostenere siano espressioni dell’amore che ci muove e attraverso quelle disposizioni e quei gesti prende forma: può darsi che sia così, ma non sempre e non comunque.

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Del karma delle genti e del non grattare la pancia all’orso

A te che fuggi da condizioni di vita miserabili abbandonando la tua terra natale e, spesso, anche i tuoi cari, venendo meno alle esperienze, obiettivamente dure da affrontare, che la vita ti ha proposto, non credere, così, di poter sfuggire alle tue necessità evolutive, e cerca di renderti conto che non è mai veramente possibile discostarsi da esse…(Dall’ultimo messaggio del Cerchio Ifior)

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Le diverse realtà dell’identificato e del non identificato

Afferma Maria nel commento al post Solo il giudizio ci separa dall’Uno: “[…] pura tossicità la logica del divenire, dell’imparare, del perfezionarsi.
Puro veleno che, immersi nella sequenzialità della mente e del divenire, non possiamo non bere fino a quando ci diviene evidente che esso ci ottenebra l’esperienza di quel che è”. Queste parole mi risultano di difficile comprensione, sarà che mi sento molto dentro la logica del divenire, avverto una logica di giudizio nel descrivere una parte ineludibile della nostra realtà. Perché deve essere veleno se è necessario passare di lì per giungere a superarlo? Sento che se non si sciolgono prima dei nodi identitari nel piano del divenire si rischia di rimanerne invischiati e parlare di Essere rimane solo una bella teoria.”

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Kyrie eleison

Signore, sii benevolo con me.
Kyrie eleison.
Adesso che viene la sera,
mi presento a mani vuote.
Ho cercato senza sosta
nelle ore del mio giorno,
ma, adesso che la sera
illumina di una tenerezza nuova
il cammino mio e quello altrui,
ho solo uno svuotamento,
un’assenza da offrire.

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Solo il giudizio ci separa dall’Uno

Se ogni forma vivente altro non è che aspetto ed essenza dell’Uno, cosa ci separa dalla piena consapevolezza di quell’unità?
Il giudizio che diamo su noi stessi, i nostri pensieri, le nostre emozioni ed azioni.
Non esiste un censore che sia altro da noi stessi, noi blocchiamo l’accesso alla conoscenza, consapevolezza, comprensione ultime semplicemente etichettando, parametrando, giudicando ciò che siamo.
Senza giudizio ogni fatto è solo un fatto, natura ed essenza dell’Uno né alta, né bassa; né evoluta, né inevoluta; né unita, né disunita: il giudizio, che senza sosta opera in noi, è stato proiettato all’esterno ed è divenuto il Dio che chiede, che esige perfezione per essere conosciuto. Una mostruosità.

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Ciò che ci separa da noi stessi e dall’Assoluto

Per ciò che pensiamo, proviamo, agiamo c’è sempre un cosa, un come, un perché.
Qui voglio sostenere una comprensione: non è tanto il cosa e il come pensiamo, proviamo, agiamo, ma il perché che ci mantiene connessi al sentire, a noi stessi, all’Assoluto, o ci aliena da esso.
Il perché riguarda l’intenzione: cosi muove quel pensiero, quell’emozione, quell’azione?
Qui parliamo di una persona consapevole, che sa osservarsi, non parliamo di chi vive e impara sperimentando e sbattendo.

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Il perdersi e la natura della preghiera non duale

Prendo lo spunto da alcuni commenti al post Il dolore, la sua ragione, la funzione della preghiera per approfondire alcuni aspetti inerenti l’esperienza del pregare.
Premetto che, secondo la mia comprensione, esistono almeno due filoni d’esperienza distinti nella pratica della preghiera:
– la pratica che avviene nell’ambito duale, in una relazione dove esiste un io che interloquisce con un Tu considerato altro-da sé, il totalmente-altro;
– la pratica interna alla dimensione unitaria d’Essere, dove non c’è interlocuzione tra due soggetti ma confidenza, intimità, relazione interna ad un Unico Essere.

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