Lasciare che ognuno impari dalla propria condizione

Il Papa ha dato voce a quell’interrogativo sul silenzio di Dio che aveva tenuto nel cuore durante la visita di questa mattina ad Auschwitz-Birkenau. “Dov’è Dio? Dov’è Dio se nel mondo c’è il male, se ci sono uomini affamati, assetati, senzatetto, profughi, rifugiati? Dov’è Dio, quando persone innocenti muoiono a causa della violenza, del terrorismo, delle guerre? Dov’è Dio, quando malattie spietate rompono legami di vita e di affetto? O quando i bambini vengono sfruttati, umiliati, e anch’essi soffrono a causa di gravi patologie? Dov’è Dio, di fronte all’inquietudine dei dubbiosi e degli afflitti dell’anima?”, ha detto papa Bergoglio dopo aver letto il versetto del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.

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Andare via senza rimpianti

Pubblico il messaggio di addio ai colleghi di Letizia Leviti, giornalista di Sky, trapassata a 45 anni.
Il suo è un andare via a mani basse, con gli occhi chiari su ciò che nella vita conta: l’amare, il cercare di amare come a ciascuno è dato.
Le sue parole semplici ci portano al centro dell’esistere, in quell’equilibrio cui tendiamo e che mai completamente realizziamo tra il dentro e il fuori, il fare e lo stare, l’alto e il basso e il superamento di tutto questo che avviene nel momento in cui l’amore ci attraversa.

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Il mito di “ciò che già siamo” e del ritorno all’origine

Pare che l’umano disponga di una natura originaria, di una condizione che gli appartiene ma che non conosce perché immerso nell’illusione e nell’ignoranza.
Vivere sarebbe liberare quella natura dal condizionamento e portarla a manifestazione: l’illuminazione sarebbe l’affermazione dello stato originario, non contaminato e non condizionato.
Come sempre, possiamo guardare alla questione dal punto di vista del divenire e da quello dell’essere, qui mi occuperò del primo.
Nell’ottica del divenire esiste un essere umano portatore di un nome, di una identità: quella identità non è un corpo, ma è la risultante della relazione tra i corpi costitutivi dell’umano, il corpo della coscienza e i suoi tre veicoli transitori (mentale, astrale, fisico).

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Volontà, identificazione, disconnessione

Molte domande pone Ivana nel suo commento al post Quando non coltiviamo più il lamento:
“1- Cosa intendi quando dici che di noi non ne sarà niente, perché non ci saremo più allora?
2- Come si esce dal bisogno di apporre etichette, ecc. , cosa vuol dire se siamo pronti?
3- Non possiamo agire in qualche modo per poter essere pronti?
4- Secondo te possiamo o no cambiare i nostri pensieri in merito al lasciare andare i nostri bisogni?  
5- Come si acquisisce la capacità di osservare e lasciare andare?

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Quando non coltiviamo più il lamento

Quando non coltiviamo più il lamento, cosa diamo da mangiare alla nostra mente?
Quando la protesta cede il passo alla quieta e piena comprensione che la realtà non è sbagliata, ma è esattamente quella che può essere dati i sentire che la generano, di cosa riempiamo le nostre giornate?
Se non possiamo essere contro qualcuno, o contro qualcosa; a favore di qualcuno, o di qualcosa; neutrali a qualcuno, o a qualcosa, se non possiamo più emettere rifiuto, adesione o neutralità, se semplicemente abbiamo compreso che la vita non si attende che noi si esprima la nostra opinione, il nostro gradimento, che ne sarà di noi?

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La via a Dio è operare il bene?

Da tempo avevo in mente questo post ma, per ragioni diverse, l’ho sempre rimandato. Oggi leggo, sull’ultimo numero dell’Espresso, un articolo di Sandro Magister, il vaticanista del settimanale, che riporta delle affermazioni di due importanti teologi valdesi, Paolo Ricca e Giorgio Tourn e da quanto essi dicono prendo le mosse per dire poche e semplici cose.
Dice Paolo Ricca: “La malattia è che siamo tutti volti al sociale, cosa sacrosanta, ma nel sociale esauriamo il discorso cristiano e fuori da lì siamo muti”:
Giorgio Tourn afferma: “È chiaro che la sola testimonianza dell’amore fraterno non porta automaticamente a conoscere Cristo. Non c’è oggi un silenzio di Dio, ma il silenzio nostro su Dio”.

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La conoscenza, la consapevolezza, la gratuità, la fiducia

Dice Ivana nel commento al post Desiderare, attendersi, sperare nella preghiera: “Io sento che nessun tipo di preghiera né nessuna forma di meditazione è sufficiente se non affronto la paura di esprimere con autenticità il mio quotidiano vivere; mi accorgo che ogni momento della giornata che sto vivendo mi interroga sul rispetto e sul tradimento di me stessa, e il mio stato d’animo varia in relazione alle azioni che faccio o non faccio”.
Considerazione molto condivisibile. Vivere è innanzitutto fare esperienza e divenire consapevoli: da questo sorge il comprendere e il superamento progressivo del limite.

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Desiderare, attendersi, sperare nella preghiera

Dice Enzo Bianchi nel commento al vangelo domenicale: “Dio non ha bisogno della nostra insistente preghiera, ma siamo noi ad averne bisogno per imprimerla nelle fibre della nostra mente e del nostro corpo, per aumentare il nostro desiderio e la nostra attesa, per dire a noi stessi la nostra speranza.”
Il commento ha alcuni passaggi interessanti, ma questo è critico, soprattutto se posto in relazione con il fine ultimo del pregare, la venuta dello Spirito.
Qual’è l’aspetto critico di questa impostazione? L’accento posto sul desiderio, sull’attesa, sulla speranza.

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Negli abissi del non senso

Dagli abissi del non senso sorgono i gesti che portano a compimento il karma di alcuni e spargono simboli per tutti.
Giovani che poco sanno della vita e molto conoscono la propria frustrazione e l’assenza di scopo che li pervade, imbracciano un mitra e gridano Allahu Akbar, appellandosi ad un dio di cui nulla sanno nella ricerca di una giustificazione al loro odio.
Poco centra il terrorismo, molto i tracciati esistenziali dei carnefici, delle vittime e i simboli per tutti noi che siamo invitati a riflettere sulle cause, sulle ingiustizie, sul vuoto esistenziale di troppi.

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