Imparare liberamente

Caterina ha scelto di non mandare a scuola i suoi tre figli: ha scelto di seguirli lei, di lasciare che imparassero ad imparare, ha scelto che la vita innanzitutto fosse la loro maestra. Di seguito due sue riflessioni.

[…] Il senso pedagogico non é il buon senso né tanto meno il senso comune, ma é qualcosa di simile all’orecchio musicale che distingue, discrimina, coglie sfumature, e come l’ orecchio musicale va continuamente affinato.
In linea di principio tutto è e può essere strumento didattico, conservando la capacità di ascolto del bambino e di riflessione lungo il quale lo accompagniamo. Ogni bambino e ogni educatore ha il suo percorso da fare, da cercare, da inventare. Bisogna conservare la capacità di interrogarsi senza considerare nulla ovvio e scontato.

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La mente crea idoli e miti

[…] Il saggio, per definizione, vede le cose come le vede Dio stesso perché, penetrando in sé, è immerso in Dio. Al fondo della sua contingenza, ha scoperto l’essere; al fondo della sua distinzione, l’unità indivisibile; al fondo del tempo, l’eternità stessa. Egli è passato sul piano della vita eterna, è penetrato nel regno di Dio.
Ma come spiegare meglio? E’ diventato un solo spirito con Dio. E’ affondato in Dio, il suo pensiero è affondato, il suo volere è affondato, il suo io non esiste più. E’ entrato nel suo Io divino […] Henry Le Saux, Diario spirituale, pag. 154, Mondadori.
Ciò che Henry dice è ampiamente condiviso da uno stuolo di discepoli e di maestri sparsi nel tempo.
A me mette solo disagio: perché?

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La vocazione di Francesco

Ho visto ieri sera al telegiornale le immagini di quella bambina che piange ai piedi di Papa Francesco.
Credo di aver compreso ciò che l’attraversava mentre l’aiutava ad alzarsi, in quei momenti in cui un mondo l’ha attraversato: tutto il suo passato, il suo presente e il suo futuro, tutta la sua vocazione di discepolo di Cristo erano lì.
Lì, il servo e il suo Signore erano attoniti di fronte al pianto dell’umano che cerca e invoca una soluzione, una vita, una normalità.
Lì, l’impotenza e la vocazione che contiene in sé una ribellione all’impotenza, si incontravano.
Lì veniva confermata nell’intimo suo la determinazione a non flettersi mai di fronte all’indifferenza, all’impossibilità, alla resa, ad esserci ancora sul teatro delle vite degli ultimi per dare loro voce, per essere la loro voce nel deserto delle voci.

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Identità, gestione e depotenziamento

Dice Samuele nel suo commento a Raggiungere la liberazione: Essere naturale quindi inteso come non essere condizionati dalla propria identità. Però è l’identità stessa che ci permette di vivere le esperienze. Se la coscienza ha scelto una determinata identità per fare le sue esperienze ed accrescere il proprio sentire, non sembrerebbe giusto lasciare che quella identità sia libera di ingombrare la scena e fare la sua parte? Non appare coerente rinunciare o soffocare l’identità; forse è solo questione di non essere in balia della stessa, ma come puoi riuscire al contempo ad assecondarla e a non esserne in balia?
Questa espressione è la chiave: “Però è l’identità stessa che ci permette di vivere le esperienze”. L’identità non è un corpo, non è un veicolo, la coscienza non edifica una identità e poi se ne serve.
La coscienza crea i suoi corpi transitori che le permettono di proiettare e dispiegare il compreso e il non compreso nel tempo e nello spazio, nella vita.

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Il lungo cammino incontro a sé

Ogni volte che c’è un gruppo, ho l’occasione di vedere lo stato dell’arte dei processi di comprensione che avvengono nelle persone.
Ogni volta che qualcuno viene, oppure va, si dischiudono orizzonti, resistenze, chiusure, disponibilità.
Il cammino incontro a sé è lungo e il neofita, se non è dotato di un buon grado di umiltà, di questo non si rende conto e si racconta cose che non hanno fondamento.
Il cammino è lungo anche per la persona che lo percorre da tempo e, per questa, il dono dell’umiltà è ancora più necessario.
1- Cambiare il paradigma in uso e attraverso il quale si interpreta la realtà personale e quella sociale, richiede tempo, studio, esercizio, frequentazione di persone che il nuovo paradigma usano ferialmente.

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La consapevolezza del condizionamento

Dice Sandra nel commento al post Il letamaio, il monachesimo nuovoSono nel letamaio, ma l’odore mi sta diventando insopportabile, sto cercando così di dare una svolta alla mia vita e dell’altra parte sento tutti i condizionamenti che mi urlano che sono sciagurata, che un lavoro come il mio non si può buttare […]
Il centro della questione è la consapevolezza del condizionamento che sorge solo ad un certo punto del nostro cammino evolutivo, solo quando il processo di disidentificazione è giunto a maturità: allora vediamo l’ambiente nel quale siamo immersi, i mille sentire che lo sostengono e in noi è chiaro che quel sentire non ci appartiene, che l’abbiamo conosciuto e integrato, ma anche superato in ampiezza. 

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La realtà unitaria di Dio

Vi propongo questo brano del Cerchio Firenze 77 sulla natura di Dio, utile per la riflessione e per addentrarsi nella dimensione dell’essere che usa approcci molto differenti da quella del divenire.
Non mi convince pienamente l’affermazione di chiusura: E quindi la vita degli esseri è la condizione necessaria – se di condizione vogliamo parlare – a rendere assoluta la coscienza divina, l’esistenza divina, perché se la natura dell’Assoluto è sottoposta ad una condizione siamo nelle peste.
Credo che si possa formulare il concetto in modo differente: se consideriamo l’Assoluto come tutto assoluto, allora quel tutto assoluto non può che essere la sorgente del molteplice nel momento in cui dalla dimensione dell’essere si passa a quella del divenire.
Propongo il testo anche per imparare a misurarsi con la riflessione su qualcosa di infinitamente più vasto di noi e del nostro ordinario speculare: troppo spesso rinunciamo ad indagare la realtà e rimaniamo confinati in quegli ambiti dove le nostre piccole menti sanno muoversi.
Per affrontare temi come questo bisogna passare dal ragionare al sentire, usando come strumento d’indagine essenzialmente l’intuizione.

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Il letamaio, il monachesimo nuovo

Le menti sono organismi che si adattano, se vivono in un letamaio alla fine non ne sentono più l’odore.
Vi racconto un fatto, vero e semplice: due bambini, fratelli, si stanno azzuffando per gioco. La nonna interviene per separarli, il più grande dice: “Nonna, lasciaci liberi!”. La nonna: “Da grandi sarete liberi!”. Allora interviene il più piccolo, 5 anni: “Bella libertà la vostra, lavorate sempre!”.
All’inizio della mia vita, quando ero un ragazzo, mi era chiaro che non volevo vivere in batteria, come un pollo, stretto nella morsa dei ritmi del lavoro e dei bisogni da ignorante e inconsapevole, costretto ad una normalità abbruttente fatta di valori che per me non significavano niente.
Appena dopo pochi anni comincia la militanza politica, non a caso nell’anarchismo che si era configurato ai miei occhi come il primo orizzonte non condizionato dai miti del lavoro, della famiglia, della normalità.

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La via, la pratica, il monaco

Dicevamo nel post di ieri che nessuno si libera da sé, il vivere ci libera. Se così è, e dal nostro punto di vista di questo non dubitiamo, la via interiore e le sue pratiche hanno la funzione di accompagnarci nel cammino quotidiano incontro a noi stessi, che avviene nelle molte officine esistenziali di cui il mondo è costituito e in alcune delle quali siamo immersi.
Se la prima ed ultima maestra è la vita; se ogni comprensione viene generata grazie alla relazione con l’altro da sé, allora sorge un problema di non poco conto:
che senso hanno i radicalismi di non poche vie interiori, le meditazioni estenuanti, i voti di vario genere, le molte discipline interiori cui si dedicano i praticanti?
Ho in mente le comunità monastiche cristiane dove uomini e donne sperimentano e vivono in comunità separate e dedicano non poche delle loro risorse alla gestione e al contenimento delle loro nature.

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