In qualunque posto Tu risieda,
dovunque Tu sia,
qualunque cielo Tu possa occupare,
qualunque dimensione Ti appartenga,
io a Te dedico la mia gioia,
io a Te dedico la mia allegria,
io a Te dedico le mie passioni,
io a Te dedico i miei desideri,
io a Te dedico la mia sofferenza,
Raggiungere la liberazione
Così potremmo dirvi semplicemente, come unico insegnamento: “La sola cosa che dovete fare per raggiungere la liberazione del continuo incarnarsi è quella di essere sempre e totalmente naturali in ogni vostra manifestazione”.
Ma ciò, pur essendo vero, può anche essere frainteso e male interpretato: gli animali sono naturali quanto l’uomo – in genere – non riesce ad essere, eppure sono appena all’inizio del loro ciclo evolutivo e ancora molte e molte incarnazioni dovranno avere nel piano fisico prima di uscire dal giro della ruota. Allora, essere naturali come? Cos’è che fa diventare naturale o innaturale un comportamento, un modo di agre o di non agire? Cerchio Ifior, Dall’Uno all’Uno, vol.4, pag. 100, Edizione privata.
La sola cosa che dovete fare è quella di essere sempre e totalmente naturali! Quante volte abbiamo letto e ascoltato questa frase da maestri di ogni risma!
E l’abbiamo accolta, con un dubbio nel cuore: ma come si fa?
Oltre identità/coscienza
Chiede Marco: “Mi sembra che quello che dici nel post ‘Fin quando tutto parla di noi?’ abbia a che fare con il tema dell’ultimo Essenziale, che era, come tu stesso hai detto, uno stimolo ad andare ancora più in profondità.
Il riconoscere ciò che si presenta come qualcosa che parla di noi è già un passo avanti rispetto al lamentarsi e all’attribuire agli altri le nostre reazioni, ma evidentemente non ci si può fermare lì.
Finché siamo noi il punto di arrivo di tutto, l’ego comunque trova pane per i suoi denti.
All’Essenziale ci hai fatto notare come facilmente l’ego possa nascondersi anche dietro i gesti, almeno apparentemente, più altruistici.
Il protagonismo, l’essere comunque al centro di una realtà sentita come propria è sempre dietro l’angolo.
Mitigare la soggettività dell’interpretazione
Ogni fatto che accade nella relazione è interpretato dalle identità coinvolte e ognuna di esse legge i fatti alla luce delle proprie aspettative, del proprio personale apparato giudicante, delle comprensioni conseguite e da conseguire.
Questa lettura irrimediabilmente soggettiva dei fatti è all’origine di ogni conflitto e di ogni difficoltà nelle relazioni.
Partendo dal presupposto che il film che proiettiamo e percepiamo è comunque soggettivo fino alla fine dei nostri giorni umani, possiamo cercare di mitigare questa soggettività con l’intento di ridurre l’incomprensione che accompagna senza sosta le nostre relazioni.
La consapevolezza della relatività del nostro punto di vista, è il primo passo.
Fin quando tutto parla di noi?
Tutto parla di noi e ci svela, ma fino a quando?
Finché in ciò che viene scorgiamo un segno, un simbolo intelligibile.
Viene un momento in cui ciò che viene è muto: non svela se non ciò che è già stato svelato, non parla se non di ciò che è già stato udito.
Il parlare e l’agire degli altri sempre ci coglie e ci interroga ma, a volte, o ad un certo punto, quell’impatto è lieve e subito si smorza.
Quella lezione l’abbiamo appresa: una parola viene e va, un fatto si presenta e scompare, il messaggio non è più per noi.
Il postino passa, mostra le lettere ma non sono per noi.
Prendersi troppo sul serio
Dice Catia commentando il post su Identificazione e gioco: “Capisco che la vita è rappresentazione dove accadono le scene utili al nostro cammino evolutivo, ma non riesco a leggerla come gioco. Non ho allora compreso? Sono ancora troppo identificata?”
Troppi di noi si prendono troppo sul serio e questo dipende dal tasso di identificazione.
La vita è vissuta più come dramma che come rappresentazione: il dramma implica identificazione, la rappresentazione un certo grado di neutralità.
I torti subiti, i tradimenti, le incoerenze, le ingiustizie vengono rubricate negli angoli più austeri della sconfinata biblioteca del censore.
Il censore ci induce a fare sul serio, ad essere seri perché la vita è una faccenda seria.
No, la vita è una rappresentazione: né commedia, né dramma. Non è ne seria, né faceta, è un’officina esistenziale.
L’ordinarietà del male
L’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina ha sollevato molte discussioni: non entro nel merito.
Salvo Riina descrive la banale quotidianità di una persona la cui vita è intrisa di distruttività, di male.
Possiamo ammettere che quella persona, quelle persone sono come noi? Amano i loro figli e la le loro famiglie, magari sono anche premurose e sollecite, non sono dei mostri.
Hanno una visione della vita e una loro morale e tengono assieme una fede primaria e infantile con la pratica feriale dell’omicidio e del malaffare.
Non sono dei mostri, perché abbiamo così timore di vederli nella loro quotidianità?
Perché dovremmo ammettere che l’orrore che è in loro potrebbe essere anche in noi?
Identificazione e gioco
Chiede Gianluca: “Entro quali limiti l’indagine speculativa e il confronto dialettico agevolano un reale processo di disidentificazione dall’ego?
E’ forse opportuno che la comunicazione verbale sia anch’essa contenuta all’essenziale, affinché sia percepita come un mero accessorio (strumentale e conseguente) alla pratica meditativa?”
E’ un problema di misura: puoi parlare e filosofare, puoi emozionarti e provare sensazioni di vario genere; puoi agire e operare e tutto questo può essere pervaso di essere, con un tasso di identificazione al minimo, con un’alta consapevolezza che mai ti abbandona.
Il problema centrale è quello dell’identificazione: molte parole manifestano molto desiderio di comunicare e molta partecipazione, ma significano anche molta identificazione? Non necessariamente.
Il “bene” che genera il “male”
[…] Avevamo infatti affermato che quando si fa del bene, in base alla legge dell’equilibrio, l’azione benefica viene controbilanciata dall’immediata messa in atto di un’azione “malefica”.
[…] Le energie che mettete in moto sui vari piani di esistenza nel momento in cui compite un’azione “benefica” devono, per la legge dell’equilibrio, necessariamente essere compensate da energie di segno opposto in qualche parte del Cosmo, al fine di mantenere inalterata la qualità e la quantità energetica del Cosmo stesso. Questo non significa necessariamente che queste energie ricadono sulla vita di chi ha compiuto l’azione benefica (anche se talvolta per necessità karmiche individuali questo accade), ma trovano il loro equilibrio (per fermarci ad una scala planetaria, anche se il discorso, in realtà, comprende tutto l’ambiente del Cosmo in cui le energie vengono smosse) nell’espletarsi della reazione energetica equilibrante in un altro ambito, magari distantissimo da quello di partenza.