contemplazione

La mente contrappone lo stare al fare, la contemplazione all’azione

La mente sa ben poco della realtà che sorge oltre i propri recinti, ed opera nella presunzione di conoscere la natura del reale catalogandolo tra le sbarre della propria cella, finendo per costruire tra sé e ciò che è muri di pregiudizio.
La mente non conosce quanto viva e vivida sia la vita del contemplativo, la vita intrisa di contemplazione; lei contrappone il risiedere, lo stare all’agire, al fare.
La mente non sa che nello stare, nel risiedere nel presente che è, non c’è alcuna passività, nessuna negazione del fare e dell’agire; non sa che per poter risiedere, estrema deve essere l’apertura a ciò che giunge dai sensi, dalla mente, dal sentire.
Per poter accogliere il presente, bisogna lasciar andare tutto il passato e tutto il futuro, tutto quello che adesso non è: in una frazione di tempo, in un battito di ciglia è compendiato un lavoro enorme, possibile perché tutte le comprensioni acquisite in innumerevoli esperienze, in un attimo, si rendono disponibili.
La contemplazione, lo stare, il risiedere è la risultante del massimo dell’azione possibile ad un umano, attuata senza sforzo volitivo alcuno.
Perché non c’è sforzo, non c’è agitazione, non c’è tensione?
Perché c’è la comprensione di quella realtà che accade; perché c’è la compassione che l’avvolge e la copre; perché il soggetto che la vive non ha interesse per sé; perchè l’amore, che è la radice del vivere, quando è riconosciuto e liberato come forza, guida la volontà affrancata dal dovere.
Queste parole sono solo un accenno superficiale all’immenso mondo che si apre quando la mente non domina più la scena e ben altro si presenta all’esperienza del vivente, non di colui che vive.

Immagine di Lee Scott


evoluti

I piccoli fatti ci svelano nella nostra presunzione di essere evoluti

Ci piace considerarci evoluti. Siamo persone della via spirituale, sappiamo andare oltre l’egoità: così ce la raccontiamo.
Poi arriva una parola, un gesto, uno sguardo, un piccolo fatto e in noi si leva un’increspatura, il mare calmo della nostra rappresentazione si turba, il fatto ci colpisce, una piccola ferita s’apre.
In un attimo s’evidenzia ciò che non volevamo vedere e veniamo richiamati alla realtà dei fatti: residui più o meno ampi di egoità dichiarano in modo inequivocabile la loro presenza.
Ombre di vittimismo si profilano, accuse all’altro si abbozzano: rosari dell’identità conosciuti.
Presunzione di essere evoluti; presunzione di sapere, di conoscere, di aver compreso: basta un piccolo fatto e il re è nudo.
I piccoli fatti sono sempre generati dall’altro e solo nella relazione si presentano a noi: ecco perchè alla persona della via spirituale non serve ritirarsi dal mondo, non c’è possibilità di fuggire dai piccoli fatti, dalle minute relazioni, dalle stilettate nel ventre dell’egoità.
Non c’è possibilità di fuggire da sé.

Immagine da: http://is.gd/kY7bfn


 

matite

La formazione dei bambini alla consapevolezza, alla collaborazione, al rispetto, al silenzio

Inizia oggi il Laboratorio della creatività consapevole per bambini; inizia anche un cammino lungo di conoscenza, di collaborazione e di relazione tra le educatrici e i genitori dei bambini presenti.
Abbiamo lavorato con dedizione perché si giungesse a questo avvio: per noi è importante che i bambini possano entrare in contatto con un ambiente che funziona secondo logiche molto diverse da quelle che caratterizzano il mondo nel quale cresceranno:
– la conoscenza e la consapevolezza di sé;
– il rispetto dei bisogni dell’altro;
– il rispetto per ogni aspetto dell’ambiente nel quale sono inseriti;
– lo sviluppo della capacità di fare le cose assieme collaborando, condividendo;
– l’acquisizione di una sana relazione con il proprio corpo e le sensazioni che da questo sorgono;
– lo sviluppo di un pensare ordinato e di una sfera emozionale ampia, consapevole, conosciuta;
– l’acquisizione di una capacità di fare, di trasformare l’intuizione in pensiero e questo in azione;
– l’esperienza dell’equilibrio interiore, della discrezione, del silenzio, delle basi dell’atteggiamento meditativo e contemplativo.
Sappiamo che ciò che sperimenteranno qui, nel tempo, si iscriverà in modo indelebile nel loro interiore e, in virtù anche di quanto qui avranno sperimentato, potranno transitare nelle loro vite con maggiore consapevolezza, con un un minore tasso di dolore e, forse, potranno dare il loro contributo affinché il cammino di tutte le persone sia più armonioso, meno conflittuale, più attento alle esigenze comuni e dell’ambiente che le ospita.
Immagine da: http://openphoto.net/gallery/image/view/24563


Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

Immagine da: http://www.generazionevaselina.it/?tag=nietzsche


Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


La resistenza al cambiamento interiore

Scrive Antonella: “Se una persona fa resistenza al passaggio dei propri vissuti, ostacolando la loro penetrazione in profondità, mi viene da pensare che  ha paura della trasformazione  perché con essa perde alcune sicurezze consolidate e, pur acquisendone delle nuove, passa attraverso una fase di instabilità che può farle paura e quindi crea una resistenza.
Mi chiedo, esiste una “leva”, un input, quale atteggiamento si può adottare affinché si abbandoni la rigidità e ci si lasci modificare, trasformare dalle esperienze e dalle nuove consapevolezze vissute?”
Quando una persona cambia comportamenti, modi d’essere, di pensare, di leggere la realtà?
Quando in essa è maturato un sentire adeguato che genera intenzioni, pensieri e comportamenti diversi e corrispondenti al nuovo sentire acquisito.
Facciamo un esempio: se le mie esperienze mi hanno portato ad acquisire un sentire di grado 10, con esso mi misurerò – e con le esperienze che esso può generare – fino a quando quel sentire non sarà completamente acquisito, compreso, stabilizzato.
Le esperienze del grado 10 strutturano quel grado e preparano l’acquisizione del grado successivo, l’11.
I cambiamenti nella persona avvengono continuamente ma divengono visibili, tangibili, confermati dall’azione solo quando il sentire si amplia.
Si può accelerare il processo della trasformazione del sentire?
Conoscendo la natura del proprio operare, pensare, intendere.
La conoscenza della natura delle spinte che ci muovono; la consapevolezza delle resistenze e delle paure, la gestione consapevole di esse; il non sottrarsi alle esperienze della vita, la sana disponibilità e curiosità verso esse facilitano il processo della comprensione che determina il maturare di un sentire più ampio.
Se la resistenza al cambiamento è nell’altro da sé, ciò che possiamo fare è cambiare noi stessi e testimoniare in modo discreto, molto discreto, il nostro cambiamento attraverso le nostre intenzioni, i nostri pensieri, le nostre azioni.

Immagine da: http://is.gd/QLAw7k


La struttura della terra, della persona, della vita, del cammino interiore

Sono giorni di vanga, di forca per la precisione. Quando il terreno dell’orto non è bagnato, e accade di rado, cerco di vangarlo per arieggiarlo e per far sì che l’acqua possa penetrare in profondità. Nella foto vedete la struttura di un terreno argilloso, la parte superiore più porosa e vitale, quella inferiore più compatta e portante.
Le persone, le loro vite, il cammino interiore non sono diversi: tutti hanno struttura, e se non l’hanno è bene che la formino; tutti hanno necessità di arieggiare e di lasciare che i vissuti penetrino in profondità attraverso il processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione.
Vivere è come il processo del vangare: si rompe un equilibrio consolidato, si introducono fattori ed elementi nuovi, si sedimenta attraverso i processi, si forma nuova struttura che sarà stabile per un po’ di tempo finché le radici di una pianta, l’azione di una talpa, ed infine una nuova vangatura non la modificheranno.
La vanga è assimilabile alla crisi, alle innumerevoli crisi che accompagnano il nostro cammino esistenziale: il ciclo stabilità-crisi-nuova stabilità è la struttura portante delle nostre vite, il modo attraverso il quale impariamo.
Non esistono solo crisi e non esiste solo stabilità: la vita è processo, il vivere la capacità di sprofondare in esso leggendone il portato simbolico ed imparando ciò che è necessario alla trasformazione del sentire personale.


 

Raimon Panikkar, l’acqua della goccia, la creazione illusoria della realtà

Raimon usa la metafora antica della goccia d’acqua e la illumina con il suo bel sorriso che, da solo, racconta molte cose.
Scrivo questo post per porre domande, più che altro.
Se ciò che è rilevante è l’acqua, ovvero la radice comune a ciò che chiamiamo esistente, questo come si forma, come assume la realtà forma, consistenza, moto?
Perché Panikkar, e con lui tutti i ricercatori dell’interiore di tutti i tempi, afferma che lo scomparire è niente anche se a noi sembra tanto, così importante sia la goccia che il suo dissolversi?
Perché il processo da goccia ad acqua è ineluttabile?
Le risposte a queste domande non sono poi così difficili: esistono fonti autorevoli che dalla dimensione della coscienza parlano di questo argomentando secondo logiche coerenti, non facendo ricorso agli argomenti della mistica, ma giungendo alle stesse conclusioni di questa.
Ma, dal punto di vista di chi scrive, la questione non è questa:
posso io, persona immersa nel reale, sperimentarne la natura?
La risposta è si, anche senza la conoscenza che deriva dal sapere, attraverso la conoscenza che sorge dallo sperimentare.
E’ sperimentabile la natura della goccia e, guardando nella sua profondità, è sperimentabile la natura dell’acqua: sperimentate entrambe, si configura nell’interiore la chiarezza dell’inconsistenza della goccia.
Successivamente può essere utile una qualche strutturazione cognitiva dello sperimentato.
Questa esperienza della goccia e dell’acqua, è esperienza per pochi?
No è esperienza di tutti, approfondita in grado differente da ciascuno.

Immagine di Marcus Reygels, da: http://goo.gl/fy5Ee4


 

Abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?

Se potete, leggete questo bell’articolo apparso su “comune info”.
La prima parte parla della situazione, del silenzio perduto, della fretta, del scivolare sulla vita.
La seconda, della necessità di insegnare ai nostri figli a vivere sottovoce.
Vorrei fare delle considerazioni sulla prima parte: abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?
La mia tesi, molto semplice, è che l’umano vive ciò che ha compreso; ciò che non vive non è perché non lo vuole vivere, ma perché non ha compreso che esiste come possibilità per sé; lo vede magari vivere dagli altri, ma non lo sente adatto a sé, praticabile per sé: nei fatti, non lo considera perché non lo comprende.
Il bel brano di Orso parla di un’altra cultura, di altre priorità esistenziali, forse di un altro sentire: il nostro mondo ha ciò che crea e questo sorge dal suo sentire, da ciò che ha compreso attraverso le esperienze e la macerazione che queste producono.
Sorge anche dalla sua cultura? Certamente, ma questa non è che il riflesso del compreso e del non compreso dei singoli e dell’insieme.
Cosa dunque possiamo fare? Vivere il compreso, testimoniarlo con grande discrezione, operare nel piccolo come nel grande perché elementi di autenticità vengano inseriti in un impianto culturale ed esistenziale caratterizzato dalla futilità.
Quello che l’autrice dice nella seconda parte dell’articolo è veramente importante, da lì si può partire sapendo che nessuno aderisce a ciò che non ha compreso, ma il proporre modelli, stimoli, pratiche, abitudini attiva processi profondi e facilita il percorso delle comprensioni in maturazione.
Se comprendiamo che ciò che l’umano vive non è il frutto della malafede  – la quale, anche quando è presente, è conseguenza, non origine – ma solo della non conoscenza, della non consapevolezza, della non comprensione, allora il nostro sguardo sul mondo diviene intriso di compassione e questa è un fattore determinante nel produrre il cambiamento dei sentire, prima e ultima sorgente di ogni cambiamento.

Immagine da: http://goo.gl/51KNUk