La mente, la realtà, il sentire

La persona che non ha ancora aperto le porte al sentire e che è focalizzata sul recitato della propria mente, nulla comprende del reale, della realtà e della sua natura più vera e autentica.
Nulla. Quella persona vede il film del reale, non il reale.
Oltre lo schermo ottuso frapposto dalla mente e dai suo contenuti e paradigmi, nell’affiorare del sentire, nel suo mostrarsi e dispiegarsi, nella possibilità infinita di accesso che apre, lì e solo lì il film sfuma e appare ciò che velava, ciò che c’è oltre: i contorni della realtà assumono allora una connotazione, una definizione, un senso, una pregnanza, una essenza mai conosciuti.

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La solitudine, ciò che non si può comunicare

Il sentire non si può comunicare.
La consapevolezza della limitazione rappresentata dall’umano, non si può comunicare.
La visione unitaria non si può comunicare, non a menti che tutto dividono e frammentano.
Il senso di estraneità e di lontananza che convivono con la compassione, questo è un paradosso incomunicabile.
La danza tra identità e coscienza, tra umano e sovrumano, le mille sfumature, i micro conflitti, l’immensità del grande che contiene il piccolo asino del non compreso, questo non è comunicabile a menti che tendono al bianco e nero e non alla molteplicità colorata.
Rimane sepolto nell’intimo proprio un mondo vasto ed articolato e con esso una solitudine irriducibile.

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Il seme della vita nella malattia

Ho incontrato ieri una persona, un poco più giovane di me, con una malattia oncologica e un passaggio esistenziale delicato.
La posta in gioco per quella persona è il poter considerare lo stato di malattia nel quale si trova, come la chance più importante che la vita poteva offrirle.
Indipendentemente da quanti fogli il suo calendario le riservi, una manifestazione oncologica rappresenta un avviso ultimativo:

C’è qualcosa che non va nel sistema, puoi limitarti a considerarti vittima del male o puoi coglierne il valore simbolico, la portata esistenziale e interrogarti su cosa nella tua vita non va, e non va da tempo. Questa interrogazione, e la possibile conseguente revisione di vita, non ti garantiscono né la guarigione, né la sopravvivenza ma di certo daranno ai tuoi giorni un altro senso e un’altra completezza.

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Quando un insegnamento diviene un trastullo?

Diceva Uchiyama Roshi che il bastone durante lo zazen era un giocattolo, un trastullo per il praticante: serviva a rompere la monotonia delle interminabili ore di pratica, una consolazione alla fine ricevere una bastonata!
Quando un insegnamento diviene un trastullo? Quando non è sorretto da una pratica adeguata.
Cos’è una pratica? Dedizione e perseveranza nella frequentazione, nella meditazione, nello studio, nella costruzione di un tessuto di relazioni.
Ciascuno secondo le proprie possibilità, che significa non irregimentati all’interno di un insieme di doveri, ma consapevoli che la trasformazione interiore richiede una molteplicità di approcci.

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L’umiltà

Ci divengono comprensibili scampoli di realtà, in frammenti di specchi si rifrange una comprensione.
Ci sembra di poter parlare dell’Assoluto e non avvertiamo il frastuono del raglio che si leva.
Forse dovremmo solo occuparci di come togliere veli dagli occhi, rimuovere escrementi dal sentiero garantendoci un passo stabile nella precarietà delle ore che passano.
L’umiltà è la piena consapevolezza del raglio, lo splendore del non sapere e del non aver compreso, lo stupore di non avere bisogno alcuno.
L’esperienza dell’umiltà ci consegna nelle mani dell’irrilevanza, del non poterci prendere sul serio, del non riuscire a calcare la scena con la convinzione necessaria all’attore.
Se l’attore non crede alla propria parte, cosa accade di lui? Può solo fare un passo indietro e confondersi nella vita.

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